Una selezionata playlist di quanto di meglio ha offerto, in ambito alternativo, l’anno appena trascorso. Tra sonorita’ estreme e contaminate, sperimentali o godibilmente originali.
01. GONJASUFI – A Sufi And A Killer (Warp)
Sumach Valentine aka Gonjasufi e’ l’incarnazione perfetta dell’odierno globalismo musicale. Nato in California da padre etiope-americano e madre messicana, il Nostro vive tra le metropoli e il deserto del Nevada, praticando yoga e intonando inni mistici. Tra pow wow tribali, blues-folk distorti e sciamanici, incursioni proto-punk stoogesiane, elettronica soul, danze indiane, litanie arabe, dubstep avveniristica e trip hop lunare, A Sufi And A Killer frulla nel fervore di una vocalita’ extraterrestre (ruvida, polverosa, felina e graffiante) melodie raffinate e sensuali, crude e oppiacee, all’insegna di un manifesto etno-avanguardista destinato a fare scuola.
02. SUFJAN STEVENS – The Age Of Adz (Asthmatic Kitty)
Un’operazione trasformista tanto azzardata quanto riuscita e convincente come quella di cui e’ portavoce The Age Of Adz poteva venire solo da un talento del calibro di Stevens. Undici brani follemente visionari, messianici e avveniristici, pregni di un sound denso e complesso, laminato di ficcanti tastiere “space-vintage” e basi ritmiche “electro-dance” tardi anni Ottanta. Qua e la’ fioriture orchestrali, slanci bucolici, schizofrenie soul-folk-pop, cori e armonie vocali da capogiro. Un patchwork di surreale bellezza e quasi “illogica” perfezione, dove l’eclettismo cyber-fantasy e il bizzarro songwriting di Stevens scintillano in quelle che sono vere e proprie lezioni d’arte sul modo di arrangiare e interpretare una canzone pop senza farla sembrare tale.
03. ARIEL PINK’S HAUNTED GRAFFITI – Before Today (4AD)
Pensate all’euforia superpop degli Abba e agli ottoni funky-soul dell’era Motown, alla disco-music dei Bee Gees e al brodo primordiale in bassa fedelta’ di Beck, aggiungete e mischiate in parti uguali Beach Boys, Phil Spector, Frank Zappa, Blondie, Syd Barret, David Bowie, Todd Rundgren, Joy Division, Twink e Ween. Giusto per avere un’idea di cio’ che e’ capace farvi di balenare alle orecchie uno come Ariel Pink, al secolo Ariel Marcus Rosenberg. Uno che gia’ dalla fine degli anni Novanta aveva registrato su nastro-cassetta un mega repertorio di oltre 500 brani e che poi ci ha campato sopra di rendita nell’ultimo decennio. Citazionismo, sonorita’ lo-fi, estetica trash-vintage e filosofia “do it yourself” sono la regola del personaggio. Before Today e’ il primo vero album in studio pubblicato dopo anni per un’etichetta di tutto rispetto, un autentico opus magnus di sperimentalita’ e orecchiabilita’ anni Zero mascherato sotto un irresistibile sound anni ’70 e ’80.
04. JOHANNA NEWSOM – Have One On Me (Drag City)
Irrompere nello scenario della musica alternativa con uno strumento ancestrale e fiabesco come l’arpa e nello stesso tempo costruirci sopra un triplo album sarebbero note di merito e singolarita’ gia’ sufficienti per includere la giovanissima vocalist e cantautrice californiana in questa playlist. Have One On Me pero’ e’ un’incisione che si difende benissimo da se’ senza aver bisogno di tali strilli sensazionalistici. Supera lo scalpore destato dal non meno magnifico Ys con una maturita’ e un amalgama di parti strumentali, vocali e arrangiamenti orchestrali a dir poco strabilianti, allineando esercizi di ricercatissima avanguardia pop nell’alveo della nuova contemporaneita’ folk, della tradizione etnica (il suo stile e’ direttamente influenzato dallo studio e dal suono della kora africana ) e della classicita’ colto-accademica europea. La Newsom vi riesce con quel timbro fragile e limpido della sua voce che avvince e incanta tra le pieghe di ballate, romanze e canzoni spesso capaci di rievocare scenari e climi degni di Avalon.
05. THESE NEW PURITANS – Hidden (Angular / Domino)
L’anno appena trascorso sembra esser stato segnato da album caleidoscopici, ottovolanti di generi e stili contrapposti messi a reagire insieme. Tra quelli meglio riusciti troviamo Hidden dei britannici These New Puritans, artefici di un tour de force musicale a 360 , in cui trovano posto ritmi hip hop, squadrate basi elettroniche, schegge avant rock, arie classico-sinfoniche, marziali percussioni giapponesi, echi industrial-wave, barocchismi progressive, reiterazioni post punk e canti gregoriani. Un lavoro, quello di Jack Barnett e soci, intenso e imponente, cupo e drammatico, non facile da digerire ma animato da un’indiscutibile desiderio di spingersi oltre.
06. SWANS – My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky (Young God)
Un suono plumbeo e monolitico, immolato sul sacrario dell’ art noise-metal piu’ solenne e marziale (No Words / No Thoughts) ma anche su quello del blues piu’ assassino e ascensionale (Reeling The Liars In e Jim). Chitarra e batteria che prima ti maciullano le meningi e poi si chetano per circuirti con ballate melodicamente gotiche e decadenti, a tratti copulanti con vortici orchestrali acidamente isterici e farneticanti (You Fucking People Make Me Sick, interpretata da uno spiritatissimo Devendra Banhart). Poco importa se quest’album e’ un astuto compromesso tra il marchio di fabbrica della sua creatura piu’ infernale e quello degli Angels Of Light. Michael Gira non cede di un millimetro e invecchia benissimo.
07. BALACLAVAS – Roman Holiday (Dull Knife)
Che l’ombra lunga della corrente dark e post punk anni Ottanta facesse breccia nelle assolate, aride e lisergiche lande del Texas pochi potevano supporlo. E invece eccoti spuntare da Houston questo trio che sembra aver venduto l’anima alle sonorita’ di Bauhaus, Inca Babies, PIL, Chrome, e Killing Joke. In piu’ ci mettono un motorik ipnotico e acido di scuola krauta e qualche linea di sax jazzato a la Tuxedomoon per un risultato complessivo davvero intrigante. Una ricetta art e gothic rock nel contempo isterica e narcolettica, guidata da schitarrate secche e metallicamente titillanti come si conviene al genere di riferimento. Da gustare ovviamente a luci molto basse.
08. MENOMENA – Mines (Barsuk)
L’album della maturita’ e definitiva consacrazione del trio di Portland, un distillato di chimica avant pop-rock notevolmente cresciuto in termini di prospettive sonore e combinazioni ritmico-armoniche. Il piacere dell’incerto, che si sussegue brano dopo brano, e’ la carta vincente di questo disco, altalenante tra blues-roots tecnologico, soul-jazz, umori electro-new wave, armonie popedeliche sorde e sfasate, effetti glitch, schemi dream-pop e divertente garage-rock. In Mines non c’e’ la minima ombra di eccesso o sbavatura, tutto si regge su un magico equilibrio di tensione sperimentale e intuizione melodica, caratteristiche che rendono i Menomena una fabbrica sonora perfettamente in linea con le urgenze estetiche dei tempi correnti.
09. ZOLA JESUS – Stridulum II (Souterrain Transmissions)
Nika Roza Danilova aka Zola Jesus e’ la profetessa del nu goth in chiave lo-fi sperimentale. Avvicinabile per le sue qualita’ vocali tanto a Siouxie quanto a Karin Dreijer Andersson (l’altra meta’ dei Knike, oltre che solista nota con il moniker Fever Ray), la precoce e smilza artista russo-statunitense del Wiscounsin indirizza qui il suo background di cantante lirica su territori elettronici e decadenze dream-pop a la Cocteau Twins, laddove la cifra dolorosa ed esistenziale dei testi fa sembrare le sue canzoni dei salmi struggenti e inquietanti. Registrato con un taglio audio piu’ nitido e professionale rispetto agli anteriori lavori prodotti in ambiente domestico, Stridulum II aggiunge tre brani al di poco precedente e omonimo EP, pezzi che lasciano presagire una svolta stilistica e un seducente spiraglio di luce “pop” in queste eteree trame di velluto nero.
10. INDIAN JEWELRY – Totaled (We Are Free)
Con gli Indian Jewelry ritorniamo a Houston e quindi in Texas, stavolta nel segno della piu’ gloriosa tradizione “experimental acid rock” che connota le scene musicali alternative del Lone Star State. L’ottimo Totaled conferma come il quintetto texano sia oggi capace come pochi altri di riempire con suoni stranianti, eccentrici e ultrapsichedelici il vuoto lasciato da conterranei quali Red Crayola, Butthole Surfers e Pain Teens. Quando vogliono apparire commestibili, gli Indian Jewelry sanno essere dei naif avanguardisti capaci di sintetizzare in modo unico rigatteria elettronica, paganesimo raga-rock e new wave tribaloide con motivi melodici e cacofonici che sono la diretta conseguenza di “trip” giunti alle estreme latitudini del cosmo e della psiche umana.
11. GRINDERMAN – Grinderman 2 (Mute)
Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Se pensiamo al percorso artistico di Nick Cave nell’ultima decade questa e’ una verita’ sacrosanta. Parzialmente ripresosi con Dig!!! Lazarus, Dig!! dai fumi cantautorali piu’ melliflui e decadenti espressi con cio’ che rimaneva degli ultimi Bad Seeds, l’australiano si era poi dato a colonne sonore e a un side-project, quello appunto dei Grinderman, che tre anni fa aveva fruttato un album miracolo di feroce redenzione sulla via del blues e del garage noise-rock piu’ scalcinato e allucinato. Grinderman 2 e’ la conferma che Re Inchiostro e’ ritornato a patti con il diavolo, selvaggio, maniacale e schizofrenico come ai bei tempi d’inizio carrriera. La band (nient’altro che i nuovi Bad Seeds in missione punitiva ) improvvisa e indugia su un muro sonoro terrificante, sventrando il canone delle dodici battute con chitarre distorte e spianate, voci licantropiche e riff di violino sinistri, taglienti e patibolari come una letale mannaia. L’ululato e il rantolo del blues allo stato brado.
12. MASERATI – Pyramid Of The Sun (Temporary Residence)
Un disco passato ingiustamente inosservato e per nulla preso in considerazione dalle riviste specializzate nostrane, rivolte a incensare i soliti nomi trendy dell’ultimo periodo. Questo dei ricomposti Maserati da Athens (Georgia) e’, al contrario, uno dei dischi di rock strumentale piu’ belli e potenti usciti negli ultimi anni. Un sound vertiginoso che unisce la tridimensionalita’ space kraut-rock delle tastiere ad una coppia di chitarre vigorosamente melodiche, lisergiche e algebriche. Il tutto mandato su di giri da una sezione ritmica che detta il passo in modo poderoso e metronomico. Un grande ritorno, all’insegna di un math pop-rock progressista e futurista.
13. OVAL – O (Thrill Jockey)
Anche il 2010 e’ stato segnato in grande dalla sempre piu’ agguerrita e creativa scena elettronica sperimentale. Dovendo pero’ scegliere tra quanto proposto da nuove e vecchie conoscenze (Pan Sonic, Alva Noto, Autechre, Flying Lotus, Yannis Kyriakides, etc.) la palma del migliore e’ senz’altro da attribuirsi al progetto Oval del tedesco Markus Popp, rivoluzionario perfezionatore ed esegeta della cosiddetta glitch music con l’album manifesto 94 Diskont pubblicato nel lontano 1995. Dopo nove anni di silenzio il ritorno sulla scena di Oval / Popp e’ a dir poco gargantuesco. O, infatti, si configura come nuovo totem dell’elettronica “per errore e imperfezione” nella sua mastodontica veste di doppio CD includente settanta tracce per un tempo totale di ascolto di quasi due ore. Suoni trasparenti e asettici, elegiaci e frizzanti. Ritmi, battiti, microfrequenze e rumorini sintetici. Effetti di sconcertante artigianato e misticismo digitali, capaci di evocare il timbro di una chitarra e di una tastiera sinusoidale come anche d’essere metafore sonore di cio’ che vediamo con occhi e mente. Capolavoro.
14. HEAVY WINGED – Sunspotted (Type)
L’album e la band noise-psych rock del 2010. Nato a Portland ma trasferitosi a New York, il power trio composto da Ryan Hebert (chitarra elettrica), Brady Sansone (basso) e Jed Bindeman (batteria) improvvisa totalmente seduta stante, affidandosi a superbe doti tecniche e a un sesto senso per la creativita’ istantanea. I loro brani sono dei mammoth strumentali di venti minuti circa, a struttura aperta e stratificata, funambolismi di lisergia dilatata che danno la stura a una sofisticata miscela di rumore ipersaturo, fraseggi atonali, feedback e distorsione tale da far impallidire anche i piu’ arcigni Dead C. Come ben descrive il suo titolo Sunspotted (giunto a meta’ dicembre dopo il precedente e altrettanto micidiale Fields Within Fields) e’ il campo d’azione di tempeste elettriche che a loro volta causano esplosioni solari e magmi intergalattici risucchiati in modo lento e inesorabile da un acidissimo buco nero. Atmosfere nere come pece e una fitta coltre di gas nervino per un’esperienza aurale di stordente catarsi.
15. WOODEN WAND – Death Seat (Young God)
Nel ventre sempre molle e fertile dell’avant folk-rock la spunta a sorpresa il consumato e prolifico James Jackson Toth, in arte Wooden Wand, con questo pregevole album che Michael Gira s’e’ preoccupato di produrre e dare a alle stampe per la sua benemerita Young God. Da quando ha archiviato i Vanishing Voice il grado qualitativo della proposta musicale di Toth e’ notevolmente migliorato, fino a trovare una perfetta sponda nel gothic country e nel blues-folk appalachiano di questo Death Seat. Una registrazione dove oltre agli strumenti suonati dal leader (mandolino, chitarre acustiche ed elettriche) si affiancano il basso, la batteria, il violoncello, il piano e il violino suonati dai membri di una nuova backing band forse solo occasionale. Quel che importa e’ che Toth e soci siano riusciti a creare una dozzina di canzoni realmente memorabili, dalle atmosfere cupe e un po’ sinistre ma anche rilassate e trasognate. Il canto, ora aperto ora introverso, a tratti spettralmente straniante di Toth, e’ quello dei piu’ sinceri e validi folksinger di quell’America provinciale e rurale teatro di storie quotidiane in perpetuo dissidio tra speranza, peccato, redenzione e violenza.