TOMMASO CAPPELLATO – Padova-New York: andata e ritorno con ritmo e profondo senso d’avventura

Sound Contest: Hai passato dieci anni della tua vita a New York, in anni in cui eri molto giovane. Quali esperienze formative fondamentali hai vissuto nella Grande Mela?


 



Tommaso Cappellato: Innanzitutto il dover gestire la mia liberta’ e le mie responsabilita’ lontano da casa. Sono innumerevoli le situazioni di vita esterne alla musica e sicuramente le relazioni con persone di diversa provenienza sono state fondamentali per un mio approfondimento umano. Tutto cio’ ha inevitabilmente influito sul mio modo di suonare e di pensare alla musica. Agli inizi della mia permanenza statunitense – sono arrivato nella Grande Mela nel 1996 – le mie basi erano rappresentate dalle scuole che frequentavo, prima la Drummers Collective poi la New School University. Li’ ho avuto modo d’incontrare musicisti straordinari con cui tuttora sono in contatto. Durante il college sono stato ingaggiato al Rainbow Grill, un ristorante al 65esimo piano del Rockefeller Center, dove per 2 anni ho suonato 6 sere alla settimana in trio con un contrabbassista e un pianista. Questo lavoro e’ durato fino all’11 settembre 2001 poi le cose sono cambiate, segnando profondamente molti di noi che erano li’. A quel punto avevo deciso di tornarmene in Italia per aspettare che si calmassero le acque ma cosi non e’ stato a causa di una relazione importante. Musicalmente ed economicamente la citta’ e’ rimasta in ginocchio per parecchio tempo ed era difficile per me trovare un binario fisso e ho dunque dedicato gli anni successivi al 2001 un po’ alla ricerca in altri stili musicali che non fossero il mainstream jazz. Ho rivolto l’attenzione in particolare al downtown jazz piu’ sperimentale, collaborando con vari artisti di quella scena. Allo stesso tempo ho preso parte ad altri vari progetti (folk, rock, punk, elettronica e hip-hop). Quello e’ stato anche il periodo in cui piu’ mi sono cimentato nella composizione in maniera metodica.


 



S.C.: I musicisti che ti hanno sorpreso o hanno procurato in te passaggi di svolta significativi?


 



T.C.: Essendo molto influenzabile potrei dire che un ruolo fondamentale ce l’hanno avuto tutti i musicisti con cui ho suonato, ma se devo pensare alla persona che ha avuto maggiore influenza su di me quella e’ sicuramente il pianista Harry Whitaker. A meno che non si frequenti New York abitualmente e’ difficile sapere chi egli sia. Harry e’ nato in Florida negli anni ’40 ma e’ cresciuto a Detroit, una delle citta’ piu’ feconde dal punto di vista musicale e che ha sempre sfornato grandissimi talenti. Il signor Whitaker ha avuto una carriera brillante sia nel jazz che nel rhythm ‘n’ blues, suonando e arrangiando per gente come Roy Ayers e Ubiquity (e’ infatti l’autore del fortunato We Live in Brooklyn Baby), come pure per Roberta Flack, di cui e’ stato direttore musicale per piu’ di dieci anni, vincendo vari premi e riconoscimenti, tra cui un paio di dischi d’oro. Harry e’ anche autore di alcuni dischi che sono diventati cult nel mondo degli audiofili come Black Renaissance del 1976. Con lui ho suonato frequentemente durante il mio ingaggio al Rockefeller Center e spesso andavo a casa sua durante il giorno, dove ascoltavamo musica e parlavamo per delle ore. In quel periodo non avevo ancora le idee molto chiare e lui mi ha aperto la mente su molte cose, facendomi notare molto di cio’ che non avevo ancora realizzato. La sua poetica spiritual jazz e’ sempre rimasta viva in me. In tempi piu’ recenti ho incontrato e collaborato con persone simili che mi hanno fatto avvicinare ad altri mondi, il vibrafonista Bill Ware con cui ho suonato per parecchi anni, il musicologo e antroposofo padovano Stefano Marcato, che qualche anno fa mi invito’ a registrare un disco in Senegal dove all’epoca risiedeva, l’MC di Brooklyn Yah Supreme di cui ho prodotto l’album Post Modern Garden, il percussionista Chauncey Yearwood e DJ Concerned che mi hanno trascinato a New Orleans per assaporare la vera sostanza del jazz in quanto musica popolare e infine il produttore libanese Rabih Beaini, titolare dell’etichetta Elefante Rosso e dell’omonimo club a Mestre, che ha pubblicato i miei lavori come leader cogliendo la mia vera sostanza musicale.


 



S.C.: Come hai iniziato e cosa ti ha stregato delle bacchette tanto da farti scegliere questo strumento come ambito creativo ed espressivo?


 



T.C.: Provengo da una famiglia estremamente musicale, mio padre, musicista e cantante beat negli anni ’60 (il suo gruppo si chiamava i Solitari) mi ha sempre esposto a qualsiasi tipo di musica, dalla classica al pop, rock, jazz, mentre mia madre ascoltava piu’ che altro rhythm ‘n’ blues. Il mio orecchio e’ stato viziato fin da bambino da concerti dal vivo di ogni genere, ricordo di aver visto Cecil Taylor e Don Cherry a undici anni al Filarmonico di Verona. Mia zia inoltre faceva parte di un coro di madrigalisti e spesso andavo ad assistere alle prove, avevo cosi un coro intero come baby sitter.


A casa abbiamo sempre avuto vari strumenti ma e’ stato col pianoforte che ho intrattenuto una relazione costante anche se non metodica. A otto anni avevano provato a farmi prendere delle lezioni di classica ma quel tipo di disciplina non faceva per me. Tre anni piu’ tardi un ragazzino poco piu’ grande di me, amico di famiglia, chiese di poter usare il nostro garage come sala prove per il suo gruppetto lasciandovi cosi una batteria. Mio padre allora mi illustro’ qualche ritmo che ricordava, sebbene non fosse batterista, dagli anni in cui suonava, poi per parecchio tempo ho proseguito come autodidatta. Quel ragazzo che aveva il gruppetto e’ poi diventato un fonico eccezionale (lavora con molti artisti tra cui Vasco Rossi) ed e’ colui che effettua il missaggio di tutti i miei dischi, si chiama Max Trisotto.


 



S.C.: Descrivimi tre qualita’ e tre difetti della batteria.


 



T.C.: Qualita’:


1) Le percussioni sono gli strumenti ancestrali per antonomasia, sono legati alla spiritualita’ e alla ritualita’ ed e’ cio’ a cui mi piace pensare quando suono;


2) La batteria crea l’atmosfera che avvolge un gruppo musicale, e’ quindi uno strumento molto influente, se non il piu’ influente in una performance;


3) Le possibilita’ sonore e timbriche sono praticamente infinite


 


Difetti:


1) E’ molto difficile essere leader e batterista al tempo stesso, non puoi fare capire in che direzione armonica o melodica vuoi andare.


2) Mancano nei tamburi dei suoni sostenuti, cioe’ che durino a lungo (sto infatti facendo delle ricerche in questa direzione)


3) Il batterista e’ sempre l’ultimo a smontare e ad andare via dopo un concerto.


 



S.C.: Tre qualita’ e tre difetti del pianoforte.


 



T.C.: Qualita’:


1) Come molti dicono il pianoforte e’ probabilmente lo strumento piu’ completo: ritmico, melodico, armonico


2) Si presta perfettamente alla composizione


3) Ha un suono spettacolare


 


Difetti:


1) Non e’ cosi immediato nell’apprendimento come lo e’ la batteria;


Non sono in grado di trovarne altri…


 



S.C.: Come nasce un pezzo nella tua testa? Dalla struttura ritmica, da un’idea sonora o da un genere da sperimentare?


 



T.C.: La risposta piu’ esatta sarebbe: tutte e tre le possibilita’ contemporaneamente. Molte volte l’ispirazione deriva solo da un sentimento interiore, altre volte scrivo come esercizio di stile. Fino ad ora sono sempre stato piu’ attratto dall’aspetto melodico e armonico, concependo le mie composizioni originali come delle canzoni popolari; ultimamente pero’ mi sto cimentando di piu’ sull’aspetto ritmico e sulle tensioni degli accordi.


 



S.C.: Cosa ti ispira quando componi?


 



T.C.: Spesso tranci di vissuto, altre volte assolutamente un vuoto totale, solo l’esigenza stessa di buttar fuori.


 



S.C.: Il tuo ruolo di band leader in due formazioni e’ piuttosto insolito se pensiamo che un batterista piu’ di frequente opera come sostegno ritmico in una band. Si puo’ ritenere che le tue innumerevoli esperienze abbiano trovato in te l’humus giusto per trasformarsi in musicalita’ complessa e architettonica?


 



T.C.: Sicuramente. Come ho detto prima sono partito dal pianoforte attraverso cui ho costantemente composto qualsiasi fosse la mia conoscenza o ignoranza. Per mia fortuna ho sempre avuto una visione della musica nella sua globalita’ non dunque travisata esclusivamente dal punto di vista percussivo. Inoltre l’aver viaggiato e aver toccato con mano molte realta’ diverse mi ha sicuramente ispirato. Nel 2008 ero in viaggio in Australia e li’ ho deciso che una volta tornato in Europa avrei iniziato i miei progetti come leader.


 



S.C.: Attualmente i progetti a cui ti dedichi con piu’ trasporto sono gli Youngtet con Alessandro Lanzoni e Gabriele Evengelista, ed il quartetto con cui hai appena inciso Open. In cosa differiscono e quali sono gli orientamenti di entrambi?


 



T.C.: Partiamo dal quartetto. Come rivela il titolo dell’album, Open si riferisce sia all’approccio musicale che a un incoraggiamento verso uno stato d’animo e psicologico. La musica scritta si scioglie dunque in improvvisazione libera e si ricompone poi dopo un viaggio spontaneo e naturale dove ogni musicista e’ completamente libero di prendere forti iniziative. Ho scelto le figure di Guidi, Blake e Rehmer non a caso. Hanno una voce molto personale e un’inventiva unica. Sono molto contento dei risultati che stiamo ottenendo e il disco e’ ben riuscito. Con il trio e’ un po’ diverso. L’organico stesso, oltre che essere composto da ragazzi precoci, e’ molto giovane, suoniamo infatti dal vivo da un mese anche se abbiamo fatto gia’ parecchie date. Chiaramente le ispirazioni sono tante e non e’ facile non cadere in sonorita’ scontate. A questo proposito stiamo ancora sperimentando sul repertorio e sull’interplay utilizzando strutture un po’ piu’ serrate rispetto alle composizioni eseguite dal quartetto, ma questo e’ solo l’inizio. Il margine di miglioramente e’ molto alto.


 



S.C.: Youngtet e’ un progetto molto interessante per il taglio intellettuale espresso, oltre che per la giovane eta’ dei suoi componenti. Da talent scout cosa ti ha convinto di Alessandro e cosa di Gabriele?


 



T.C.: In entrambi c’e’ maturita’ nell’utilizzare e gestire il proprio talento. Nel loro modo di suonare c’e’ molto respiro, elemento che secondo me manca in generale nella musica prodotta al giorno d’oggi. Mi piace inoltre la loro apertura a sperimentare qualsiasi ambito musicale e il loro carattere umano.


 



S.C.: Se il trio e’ un ensemble in prospettiva, il quartetto e’, al contrario, un gruppo gia’ maturo e “di sostanza”. Come cambia il modo di dirigere, cosa cerchi di diverso e persegui con questo gruppo?


 



T.C.: Come ho precedentemente illustrato i due approci sono per ora diversi ma prevedo che la liberta’ di espressione rimanga di fatto la linea conduttrice nei miei progetti. Chiaramente ci sono personalita’ dai background e gusti diversi quindi la differenza stara’ in quei fattori. Proprio per questo non voglio tracciare delle linee di cio’ che deve o non deve essere l’una e l’altra cosa, ne’ mi sento di pronosticarne lo sviluppo. D’altronde il bello della vita e’ che non si sa mai cosa ti aspetta.


 



S.C.: Quando divento grande faro’…?


 



T.C.: Non diventero’ mai grande…


 


 


 




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Tommaso Cappellato: www.tommasocappellato.com