Tiziano Tononi, milanese classe 1956, batterista o meglio percussionista, dotato di grande tecnica e creatività. Fondatore insieme a Daniele Cavallanti di Nexus, la formazione più longeva della scena jazzistica italiana.
Titolare di svariate formazioni a suo nome, in oltre quarant’anni di carriera ci ha regalato lavori di grande intensità emotiva e ideale.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per dialogare con lui sullo stato del jazz in Italia e sul suo percorso di musicista e compositore.
Come sta il jazz?
Dipende dal punto di osservazione: Io parlo sia della scena italiana, che ovviamente conosco bene, ma anche della scena europea ed americana. Secondo alcuni da diversi anni il jazz vive una specie di età dell’oro nel nostro paese, affermazione assai curiosa, considerando che negli ultimi dieci o quindici anni le occasioni di poter avere accesso al circuito dei concerti di un certo livello e dei festival sono radicalmente diminuite, per non dire crollate, e questo per la stragrande maggioranza anche di coloro che l’accesso a quelle manifestazioni se l’erano guadagnato nel tempo, con proposte di qualità e molta perseveranza. C’è un’oligarchia musicale, in questo paese, che “esercita” un dominio quasi assoluto sulla maggior parte delle manifestazioni, e certo in generale la scena non brilla per lungimiranza né per apertura di vedute da parte dei cosiddetti operatori del settore. Per l’ennesima volta, ancora quest’autunno, mi sono sentito dire da un recensore americano, dopo l’ennesima eccellente review: “tu hai solo un problema, che sei italiano in Italia”. Al di là della tristezza per l’affermazione, una specie di costante per quanto mi riguarda, degli ultimi trent’anni, mi sembra di scontrarmi con dei mulini a vento, che a dispetto dei cambiamenti avvenuti nel mondo, incluso quello della musica, qui rimangono immoti, legati spesso a piccole logiche clientelari e ad una visione conservatrice della musica e del suo evolvere come linguaggio. Il mondo che immaginavo quando ho cominciato ad affacciarmi al Jazz non era certo questo, ma quello che avevo avuto modo di sperimentare a New York, il posto che avevo già individuato come ovviamente fucina di stimoli e novità, dove ero andato per studiare e dove stavo già alla fine degli anni Settanta… forse avrei dovuto provare a stare lì. E sarebbe stata una decisione che sicuramente avrebbe dato dei frutti. Invece avevo l’orgoglio di tornare in Italia, far succedere qualcosa qui, a casa mia, erano gli anni Settanta, venivo da una serie di esperienze non solo musicali, ma anche politiche, che mi avevano fatto immaginare che tutto fosse possibile, a portata di mano, avevo una visione del mondo che avrei poi cercato di trasferire nella mia musica.
Era anche l’epoca di un’onda montante di nuovi musicisti italiani, tra cui noi, che siamo stati tra i primi a registrare autonomamente con NEXUS, e grazie all’intercessione benevola di Giovanni Bonandrini della Black Saint a ottenere un contratto con la Red Record di Sergio Veschi, e a pubblicare nell’83 il nostro primo disco, Open Mouth Blues, dando un segno di vitalità e di allineamento con quanto stava accadendo musicalmente nel resto del mondo. Qui al contrario erano sopravvenuti gli anni ’80, quelli del ripensamento generale e del “riflusso”, della ridefinizione al basso dell’idea di impegno, insomma un mondo che non ci entusiasmava, e che avremmo voluto meno provinciale e legato al rifacimento puro e semplice dei modelli americani. Da allora sono passati quasi quarant’anni di musica che posso definire “militante” in senso lato, non ideologico, ma comunque sempre schierata a favore delle buone cause.
Per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, dico sempre che mi ci sento in debito, non avrei mai immaginato di fare neanche la metà delle cose che ho fatto, di conoscere i musicisti che ho conosciuto, di suonare con le icone, gli eroi della mia vita di ragazzo, e di cui leggevo nei libri di storia del Jazz. Al contrario, considero di sentirmi in grande credito con la scena del Jazz in questo paese, perché sicuramente a fronte di una produzione di livello, certificata nel tempo da riconoscimenti di ogni tipo, sia di pubblico, di vendite discografiche e naturalmente di critica, ho raccolto meno di quello che avrei meritato, io come tanti altri. Sono purtroppo in ottima compagnia da questo punto di vista. Questo è diventato un paese miope dal punto di vista culturale, un paese sordo e cieco al cambiamento, all’innovazione; un paese di retroguardia, dove qualità come competenza, rigore, merito e coerenza non sono tenute in grande considerazione. Solo pochi autocelebrantisi, ai quali si applica una acriticità quasi incondizionata, riescono ad emergere, per tutti gli altri diventa difficile acquisire uno status di un livello alto. Gli esempi a livello europeo dovrebbero essere stati illuminanti già da tempo; essere francesi in Francia, tedeschi in Germania, inglesi, svizzeri o nord europei fa per quei musicisti una enorme differenza, in positivo naturalmente; noi sembriamo sempre terra di conquista, per tutti. In alcuni paesi si riescono a spendere bene i pochi soldi a disposizione, penso al Portogallo dove abbiamo avuto la possibilità si suonare parecchie volte, qui invece abbiamo speso malissimo i tanti soldi che avevamo.
Abbiamo visto sperperare quantità di danaro regalato a personaggi che non lasciano il segno, ma solo “macerie”, si è spesso privilegiata la logica dell’evento invece che quella della politica culturale, la logica dei nomi di “cassetta” piuttosto che invece cercare di educare un pubblico ad una pluralità di proposte e di linguaggi. La beffa poi è che alcuni degli stessi che contribuiscono a creare queste situazioni se ne lamentano, stigmatizzando che vengano invitati sempre gli stessi musicisti, con le stesse proposte. Ma nessuno, o troppo pochi, al momento buono ha il coraggio di cambiare e proporre altro. Così la musica diventa l’ultima delle espressioni del decadimento di questo paese dal punto di vista culturale.
Ho qui davanti a me il cofanetto dei tre cd del lavoro dedicato a Roland Kirk, all’interno ci sono scritte queste parole che io definisco un manifesto politico “Musicale”:
“if you believe in politically correct/ straight-to-bed jazz and think cd’s should not exceed a given time length and so on, you are on the wrong track.
But why not take chances and for once go for the wild and crazy?
You’re gonna find no medieval references or presumed mediterranean roots, here, not even
new-age jazz or events of any kind, this is ULTIMATE UPDATED
CONTEMPORARY JAZZ VERSION….
We invite you to the ROLAND KIRK MEMORIAL BARBEQUE, and in order to
appreciate it….
PLAY SUPERLOUD, we did it, we did it….”
E’ esatto, vorrei che quell’idea che Rahsaan Roland Kirk ci ha lasciato in eredità, lui come altri, diventasse paradigmatica di un modo di concepire i linguaggi. Ci sarebbe una visione più “integrata” dell’espressione musicale, sicuramente più in linea con le tante compenetrazioni tra linguaggi declinati in ambiti diversi avvenute negli ultimi cinquanta o sessant’anni.
Le cose da allora sono cambiate?
Sono molto peggiorate. Considera che quel disco io l’ho fatto nel Dicembre del 1999, me lo sono prodotto, perché nessuno me l’avrebbe fatto fare nella forma e nei modi che avevo immaginato. Ricordo perfettamente di aver parlato all’epoca, con Franco Ratti della IRD, il distributore italiano di dischi Jazz più importante, che si mise le mani nei pochi capelli che aveva, mi conosceva da vent’anni, mi disse: “ma no, è impossibile, non si vende più un disco singolo (detto nel 1999 fa sorridere…), figurati se si può vendere un triplo. Al limite fai tre volumi distinti.” Io gli dissi che no, non ero disponibile a modificare il mio progetto perché quel lavoro l’avevo immaginato così, “piuttosto me lo faccio da me e poi provo a venderlo a qualche etichetta” gli risposi. Alla fine è stato il best seller della Splasc(h), ha venduto quasi tremila copie di un disco triplo che all’epoca aveva anche e comunque un costo relativamente rilevante.
Sempre per la Splasc(h) nel 2001 abbiamo registrato il doppio cd The Nexus Orchestra, Seize the Time! con Roswell Rudd, per celebrare i vent’anni di Nexus. Due sedute di registrazione, una a Maggio, una a Novembre, abbiamo registrato pezzi originali con Rudd ospite; io poi ho riarrangiato Numatik Swing Band, un disco che a Roswell era stato commissionato dalla Jazz Composer’s Orchestra all’inizio degli anni Settanta, realizzato con mezzi molti limitati, poche prove, era praticamente un live, e lui non era particolarmente soddisfatto, anche se ho sempre pensato che fosse comunque un gran disco…
A guardare indietro a distanza di vent’anni mi sembra di essere stati i Beatles o…i Pink Floyd??? rispetto ad oggi. Una piccola etichetta come Splasc(h), un puntino nell’universo internazionale della discografia, si poteva permettere di far venire due volte in un anno Roswell Rudd da New York, registrare due orchestre, una di diciassette, l’altra di ventitré elementi, farsi carico delle spese relative allo studio, ai musicisti, e pagare una sorta di fee per l’utilizzo delle partiture, di Numatik Swing band, visto oggi sembra un film di fantascienza.
Nell’arco dei dieci anni successivi, tutto questo è finito, scomparso. In questi ultimi anni abbiamo dovuto ripensare totalmente al modo di lavorare alla produzione dei dischi, spesso dovendo fare i conti con mezzi che definire di fortuna è già un successo, ma che ho personalmente considerato l’ennesima sfida di molte, in cui i cambiamenti epocali avvenuti da ogni punto di vista, culturale, sociale, politico, della comunicazione e quindi anche della fruizione, e di cui siamo tuttora testimoni, possano diventare un ulteriore fattore per poter imparare altre cose, diverse da quelle che che mi hanno accompagnato per lungo tempo…imparare a cambiare è difficile a volte, spesso faticoso, ma credo sia l’unico modo che abbiamo per rimanere in qualche modo “sintonizzati” con i tempi, questi e non altri, e anche se rimpiangiamo alcune cose di un passato che ci ha visti protagonisti, è questo ciò che abbiamo oggi, è la rete con le sue gigantesche contraddizioni, l’analfabetismo musicale che produce, a dispetto di un’ipotetica maggiore possibilità di condivisione del sapere, la devastazione, credo irreversibile, del mercato discografico con l’avvento del digitale e dello streaming più o meno gratuito. Ma piangersi addosso in nome dei bei tempi andati non serve a niente, è qui e ora che dobbiamo continuare ad essere presenti, direi a maggior ragione oggi, per dare anche una testimonianza attiva di una visione della musica che non vuole essere appiattirsi seguendo indirizzi più o meno alla moda.
Ascoltando i tuoi dischi a partire da quello dedicato ad Albert Ayler fino ai dischi dedicati ad Ornette Coleman si nota una sorta di continuum ideologico nella tua musica.
Assolutamente sì. Sono figlio degli anni Settanta, sia musicalmente che culturalmente e politicamente, ovviamente c’è stata una presa di distanza da quelle che all’epoca erano di sicuro posizioni ideologiche, anche riguardo alla musica e ai suoi interpreti. Questo non toglie nulla all’idea di una musica che sia foriera di messaggi, e che interpreti le contraddizioni della sua epoca così come ho sempre pensato che storicamente fosse successo, non solo nella musica Afro- Americana, ma in tutta la musica e ugualmente nelle altre discipline, espressioni dello spirito dell’uomo in quanto tale. E’ evidente che una musica così “sociale” come il Blues e le sue successive emanazioni, dal Jazz in avanti, non potesse che diventare l’amplificatore della condizione sociale di coloro che di quella musica scrivevano le pagine più significative, e nel tempo questo rapporto non è mai mutato, si è sempre trattato e si tratta di vasi comunicanti. E’ anche per questo che la musica Afro-Americana mi è sempre piaciuta, il Jazz in particolare per la straordinaria libertà di espressione che mette a disposizione del musicista, e perché ha sempre interpretato il “tenore” dei tempi.
Una musica militante, quindi.
Lo è sempre stata anche quando non voleva esserlo “consciamente”. Il jazz è stata l’amplificazione, la colonna sonora di un mondo che era l’America segregata, l’America delle spaventose discriminazioni e dei soprusi, dell’assenza di status di cittadini per le minoranze “coloured”, e di conseguenza quella della lotta per i diritti civili, non solo della gente nera ma anche delle minoranze ispanica e Native American (una quantità di musicisti di ogni genere negli Stati Uniti hanno ascendenze, parziali o totali, tra le Nazioni Native), e della rivoluzione culturale.
Dal punto di vista generazionale sono cresciuto con la musica degli anni Cinquanta/Sessanta in testa, non sono cresciuto con Charlie Parker e il be-bop, ma con Mingus, Miles Davis, Sun Ra, Coltrane, Albert Ayler, l’Art Ensemble of Chicago, Archie Shepp, Ornette Coleman, Don Cherry, Cecil Taylor, Paul Bley.
Per me la cosa più importante è sempre stata dare senso e continuità al lavoro che ho fatto. Tu accennavi al disco dedicato ad Albert Ayler, The Preacher and the Ghost, del 1991, prima di quello ce ne sono tre con Nexus che sono Open Mouth blues del 1983, Night Riding del 1985 e Urban Shout del 1988. Sono la prima decade di Nexus, una fase quasi sperimentale e di apprendistato, determinante per gli sviluppi successivi, a partire dal disco dedicato ad Ayler, e da lì in avanti seguendo una logica a zig.zag avanti e indietro, per tutti i progetti che sono seguiti.Tra l’altro Open Mouth Blues, nostro primo disco, verrà (ri)pubblicato per la prima volta in CD con Musica Jazz nel prossimo numero di Aprile insieme ad una mia intervista, ci sarà anche un brano inedito, che all’epoca non entrò nel vinile per questioni di minutaggio.
Nexus, ma anche con tutti i progetti “laterali” che ad un certo punto ho iniziato a portare avanti a mio nome, da quello su Don Cherry a quello su Coltrane, da Rahsaan Roland Kirk del quale abbiamo accennato ai tre dischi su Ornette, è chiaro che sono delle dichiarazioni di intenti; se poi uno legge anche le cose che scrivo nei dischi, direi che è tutto abbastanza chiaro.
In Italia mi sembra merce piuttosto rara. Il jazz per quello che riesco a percepire io da ascoltatore, e non solo in Italia, anche se qui da noi è piuttosto forte, è ormai diventato una musica “consolatoria”, come anche un po’ tutta la produzione culturale.
Sono perfettamente d’accordo. Consolatoria è il termine esatto! E’ una ricerca facile di un consenso artificioso, la voglia di sentirsi pubblico di “qualità” passando non dal via, ma prendendo sempre l’ultima scorciatoia alla moda…
Il “perturbante” che dovrebbe essere la funzione dell’arte, il teatro e non solo nascono con questo scopo, non è proprio più nell’orizzonte di chi fa cultura nel nostro paese.
È troppo faticoso, è percepita come una cosa troppo difficile… Se tu abbassi costantemente il livello di quello che offri, se ti sostituisci al pubblico e supponi di dover “pensare” per quel pubblico, bè, è chiaro che non stai facendo niente di buono, o di utile, fai solo e sempre quello che ti conviene, vendi la “novità” del momento, ammesso che di novità si tratti, e non crei una capacità minimamente critica in coloro che dovrebbero fruire, con cognizione di causa almeno minima, di quello che viene offerto. In questo modo si abbassa radicalmente la soglia minima della difficoltà nella percezione della musica, come della pittura, del cinema, della letteratura o della danza, e a quel punto è quasi sempre tutto troppo “faticoso” da digerire, se il prodotto non è omogeneizzato, o peggio predigerito.
Se guardo alla generazione dei miei figli, ventenni, in questa luce, diventa davvero difficile raccontare loro quello che ascoltavo io a quattordici o quindici anni, era Hendrix, o il primo disco dei King Crimson, oppure Hot Rats di Frank Zappa, e il Blues, poi il Jazz e tutta la musica con la quale sono cresciuto, mi guardano come se fossi un alieno, è musica che non riescono a collocare da nessuna parte. È il problema del “non luogo”, è tutto come una enorme nebulosa che contiene il rock, il Jazz così come Stockhausen o Stravinskji, le musiche folkloriche di tutto il mondo, è la stessa cosa. Non riescono a capacitarsi.
Può aver contribuito a questo il cambiamento drastico delle modalità di ascolto?
Certamente, credo che il cambio radicale nella modalità media della fruizione della musica e della sua modalità di ascolto abbiano di molto impoverito l’idea stessa che la materia prima di cui è fatta la musica, il suono!!! sia non solo importante, ma fondamentale, assolutamente determinante per la considerazione stessa e l’attribuzione un valore intrinseco alla musica che si vuole ascoltare… e questo è un altro gigantesco problema, ascoltare, la distrazione e la contemporanea pluralità di stimoli dell’epoca in cui viviamo non insegna ad “ascoltare”; la musica si “sente” spesso mentre si fa altro, è una tappezzeria dei pomeriggi di studio, è la compilation di Spotify di cui non si sa praticamente nulla… ascoltare richiede tempo e attenzione, due “idee” del mondo non esattamente in cima alla lista delle preferenze dei più, sono moneta rara di questi tempi. A questo dobbiamo aggiungere che per esempio oggi, nella gran parte dei casi, la musica è esperienza individuale, come quasi tutto in tempo di social media, quindi non unisce più di tanto, non crea condivisione e difficilmente diventa un collante dal punto di vista della socialità, trovarsi in tre o quattro, per ascoltare insieme una cosa nuova e discuterne… è roba da film di Nanni Moretti, per me è stato normale, ricordo delle discussioni infinite che non avevano soluzione, e che erano però erano indicative di una passione straordinaria e smisurata. E che ancora è lì.
Oppure incontrarsi in un negozio di dischi.
Figurati, cose che purtroppo non hanno avuto modo di vivere. Passare pomeriggi interi, spesso anche senza comprare niente, in un posto dove altri come te, con le tasche “bucate”, andavano anche solo per documentarsi, o per incontrare qualcuno che avesse la stessa passione, e magari la voglia di scambiare due parole sulla musica di questo o di quello… in più mettici che per noi i dischi erano acquisti pochi e mirati, e soprattutto pagati, e quando una cosa te la guadagni la tieni in conto e da conto, e nel caso dei dischi li impari quasi a memoria.
Tornando a Nexus, com’è nato il tuo rapporto con Daniele Cavallanti?
E’ nato abbastanza casualmente. Ci siamo incontrati a Milano nel 1978, lui all’epoca viveva ad Amsterdam. Era tornato a Milano per vedere la famiglia, io ero in studio nel Giugno di quell’anno con Leroy Jenkins, Anthony Davis and Andrew Cyrille, registravano per Black Saint un disco incredibile che è The Legend Of A Glatson, è lì che conobbi Cyrille per la prima volta (avrei poi studiato con lui a New York e saremmo diventati amici. Gli avevo scritto qualche mese prima, lui mi aveva risposto che sarebbe venuto a Milano per registrare, quindi mi presentai e lì cominciò per me un percorso di crescita fondamentale, devo davvero molto a Andrew). Daniele, che sapeva che stavano registrando, passò nello studio, ci incontrammo e scambiammo due parole. L’anno dopo mi chiamò e facemmo il nostro primo concerto insieme, in un piccolo centro culturale a Sesto San Giovanni, vicino a Milano; abbiamo iniziato da lì ed abbiamo suonato insieme quarant’anni. Abbiamo condiviso tanto, sogni, viaggi, prove, trionfi e cadute, ogni cosa che ci è successa, da Nexus all’Italian Instabile Orchestra, dal Jazz Chromatic Ensemble con il compianto Angiolo Tarocchi – che ci ha lasciato nel 2019 – ai suoi progetti, a i miei dischi extra Nexus. La scena che abbiamo vissuto, l’abbiamo vissuta insieme.
Adesso, come capita spesso nelle relazioni personali e musicali di lunga durata, sono quattro o cinque anni che abbiamo preso musicalmente le distanze; io ho idee altre, lui è più legato al Jazz in senso stretto e concentrato sulla ridefinizione di certe cose. Però abbiamo Nexus insieme, nei prossimi mesi dovremmo registrare un disco nuovo, con una formazione nuova di zecca e, credo, un orizzonte musicalmente molto aperto, anche rispetto al nostro passato più recente.
Un musicista come te che scrive tanta musica, ha una sua “prassi” compositiva?
Io sono un misto di rigore e anarchia, nel senso che ho studiato composizione, ho un diploma di percussioni classiche che ho avuto la fortuna di studiare con David Searcy alla Civica Scuola di Musica di Milano, ho continuato a studiare composizione, ho sempre scritto… non mi è mai venuta voglia di studiare arrangiamento Jazz, perché volevo essere libero di non sapere alcune cose, caso mai di scoprirle, di essere più quello che volevo essere. Ad un certo punto ho smesso di studiare composizione perché non mi sentivo rappresentato da un linguaggio abbastanza “obbligato”, che naturalmente mi andava stretto; so quello che mi serve per scrivere la musica che mi rappresenta, a volte mi stupisco ancora delle scoperte che faccio in corso d’opera, e mi piace così. Ho una mentalità compositiva, anche suonando e improvvisando, questo sì, ed è probabilmente frutto di un tipo di mentalità con cui per diverso tempo sono stato a contatto. Applico dei criteri di logica, sono un misto di razionalità e di assoluta allergia alle regole, molto poco accademico in questo senso.
Mi sembra come se stessi facendo la descrizione di Frank Zappa.
Un pò sì, hai ragione. Adoro gli autodidatti come Frank, della cui musica sono grande appassionato e che mi ha molto influenzato a diversi livelli. Sono convinto che la competenza non passi necessariamente attraverso i diplomi o le lauree, anche, ma non necessariamente. A dimostrazione di quanto detto, non avere nessun titolo specifico riferito alla musica Afro-Americana in generale, e al Jazz nello specifico, non mi impedisce di sapere di questa materia spesso tanto di più di quelli che ci si laureano, di conoscere la storia, di aver ascoltato e letto tanto, di avere avuto la fortuna di vivere insieme a tanti di quei musicisti di cui avevo letto sui libri e di averci parlato, mangiato, viaggiato e suonato insieme. Detto questo, un modo per “restituire” una parte della fortuna che ho avuto è quello di trasmettere alle nuove generazioni le cose che ho visto e che potuto imparare, non solo sui libri, ma sul campo. È una cosa che devo a questa musica. Lo faccio da sempre, e con molto impegno e piacere.
A proposito di questo, Enrico Rava, in una intervista che gli abbiamo fatto di recente, ci ha detto che tra le nuove generazioni di musicisti ci sono ragazzi tecnicamente impeccabili, super preparati tecnicamente, che suonano cose pazzesche, armonie incredibili, ma che non hanno anima.
Enrico è uno di quelli a cui piacciono i poeti nel Jazz, è la cosa che fa la differenza con le nuove generazioni. Anche per me è in fondo più così, anche se apprezzo la fatica che fanno molti cercando di trovare una strada originale alla propria espressione artistica, ovviamente questo non ti garantisce mai, ma è sempre da incoraggiare l’esplorazione e la scoperta. Il cambio del millennio ha sancito la chiusura di una cerniera che per noi è stata la vita, è stato il nutrimento di tutte le nostre idee sul jazz, che vuol dire Ornette, Cecil Taylor, Don Cherry, Steve Lacy, Herbie Nichols, Roswell Rudd… i ragazzi di oggi di quella stagione memorabile sanno poco o decisamente niente. Si conoscono poco i musicisti essenziali, figuriamoci i comprimari di lusso… tanti studenti con cui ho avuto a che fare non hanno un’idea della cronologia della storia. Conoscono Esbjorn Svensson Trio, ma non sanno chi è John Carter, non conoscono Bobby Bradford, o Horace Tapscott, hanno ascoltato due dischi di Ornette a caso, e pensano di conoscerlo. Molti non hanno mai sentito l’Art Ensemble of Chicago, di Jackie McLean o Andrew Hill non hanno mai ascoltato un pezzo, e avere internet a disposizione purtroppo non li aiuta abbastanza. Tra i cantanti non conoscono Jeanne Lee, che per me è un’icona assoluta del modo di intendere la vocalità nel Jazz…
Tornando alle dichiarazioni di Enrico, sono d’accordo, siamo sintonizzati, tanti di questi ragazzi suonano e si fanno affascinare da linguaggi spesso inutilmente complicati, non complessi, perché complesso è Zappa, questi sono complicati e a volte artificiosi. Se ascolti Zappa, non percepisci elementi introdotti ad hoc per stupire, la complessità è fisiologica al linguaggio, che peraltro alterna allegramente momenti così ad altri decisamente più leggeri e scorrevoli. La composizione nel Jazz, e nella musica d’improvvisazione in generale, dovrebbe a mio giudizio essere funzionale proprio a che ci si potesse “muovere” dentro per costruire, attraverso percorsi non preventivati o preventivabili… se al contrario scrivere non porta da nessuna parte, o produce una musica in cui non succede niente, però difficile, boh, personalmente non ne vedo né tantomeno sento alcune utilità. In questo senso mi viene sempre in mente che una nota di Charlie Haden vale più di tante cose che sento e che mi suonano tutte “di testa”, che con il jazz come concetto, con la sua anima, non ha molto a che spartire. In questi ultimi tre anni ho avuto la ventura di registrare tre dischi con il batterista degli Allmann Brothers, Jaimo, con la sua J&F Band, che è a nome suo e di Joe Fonda. È un’ immersione in una musica non omologata, che si colloca tra il blues, la musica sudista, la musica improvvisata, c’è dentro un mondo, molto Roland Kirk come idea, molta blackness a 360 gradi. Per me il jazz è quello lì. E in questo periodo sto ascoltando moltissimo Last Poets, Watts Prophets e uno dei miei eroi, Gil Scott-Heron.
A proposito cosa ne pensi dell’operazione che ha fatto Makaya Mcgraven con il disco We’re new Again?
Non mi piace per niente. Mi fa incazzare, perché il disco I’m new here è un disco davvero incredibile. Quella roba lì non aggiunge niente, non se ne sentiva il bisogno, non capisco neanche il senso dell’operazione. Io non mi sarei mai permesso di toccare un capolavoro come I’m New Here. Tra l’altro nel disco che sta per uscire della J&F Band c’è una versione di Me and the Devil dedicata a GSHeron.
Vorrei tornare su Frank Zappa, chiedendoti se il tuo è un amore incondizionato per tutta la sua musica oppure ci sono delle cose che preferisci rispetto ad altre?
Se uno capisce Zappa, non può prendere e ritagliare, entrare ed uscire a piacimento. E’ quella che lui definisce come “conceptual continuity”. Bisogna provare ad ascoltare tutto, anche quello che ti piace meno; mi vengono in mente dischi degli anni ’80 con il Synclavier tipo Francesco Zappa, o dischi deliranti tipo THING-FISH. Gli anni Ottanta di Zappa, se dobbiamo dirla tutta, non mi è mai sembrato costituissero lo zenit della sua produzione, a parte i live che sono sempre strepitosi perché le band sono di un livello eccelso, forse una volta che arriviamo a Joe’s Garage abbiamo finito. Poi ci rifletto, mi prendo anche tutto il resto, e penso che senza di quello non ci sarebbe stato un capolavoro come The Yellow Shark, per esempio. Il disco dei dischi, a parte l’importanza storica di Freak Out, Uncle Meat, Hot rats, è per me quello di Roxy & Elsewere, la band di quel periodo è inarrivabile da ogni punto di vista. Roxy The Movie e tutta la serie di cd che sono usciti postumi, The Roxy Performances, con quel gruppo, sono un monumento alla musica del Novecento. Tra i miracoli che ha messo in piedi l’uomo di Baltimora, quel gruppo lì è incredibile. Poi ci sono state anche altre band formidabili, quella di Zappa in New York del’76, quella del 1988 del disco The best band you’ve never heard in your life. Potevano suonare di tutto, un compendio di delirio zappiano infinito. Però la musica del periodo Roxy è un’altra cosa, parliamo di brani come Be-bop Tango, Pygmy Twylyte, Sofa. Zappa al suo top!
lo scorso anno ho registrato, a Novembre, una suite per un disco che non è ancora uscito, che non è stato ancora mixato, ma lo sarà presto, dedicata non proprio a lui, side Zappa diciamo, dedicata più a Varese che a Zappa, in cui ci sono degli accenni pseudo zappiani che sono altra cosa da quello che avevo proprio fatto su Zappa con il Black Hole Quartet. Una specie di riedizione più open.
Altri progetti in cantiere?
Ho un grande progetto dedicato ai Nativi Americani, un doppio cd, che è la mia priorità. È un lavoro bello grosso e complesso ed è la cosa a cui sto puntando, naturalmente il periodo mi ha rallentato, quindi probabilmente faremo prima il disco con Nexus, che è più semplice, organico nuovo, un sestetto, lo faremo entro l’estate. Il lavoro invece sui Nativi Americani è un lavoro più ambizioso, di musica mia e non, che ha però ha attinenza con l’argomento, da Hendrix a Mingus, Joni Mitchell, Neil Young, John Trudell, Johnny Cash, ci sono tante cose. Sto cercando di creare un meta- linguaggio, che dovrà trovare tutte le sue collocazioni. Ho tante idee, tanti appunti; i materiali sono già tutti scelti, anche i miei, ma in questo momento l’incertezza del medio periodo non mi fa venir voglia di mettermi a scrivere e “fissare” gli elementi, ho la sensazione che mi sembrerebbero vecchie poi le cose che ho scritto. Voglio avere un orizzonte un po’ più libero davanti, e come mi è sempre successo una volta che poi parto arrivo fino alla fine.
Ascoltando la tua musica si nota che in molte tue formazioni è presente il violino.
Per il violinista, Emanuele Parrini, mica per il violino. Questa cosa mi fa venire in mente una chiacchierata con Tim Berne, tanti anni fa, lui suonava all’epoca con Herb Robertson alla tromba, e parlando venne fuori che a lui la tromba in realtà non piaceva particolarmente… io gli dissi: ”ma come? Se suoni sempre con Herb?” E lui:”Certo perché mi piace come la suona lui, che suoni la tromba è un dettaglio, se non ci fosse lui non avrei quello strumento nel gruppo”. E infatti poi non ha mai più suonato con un trombettista.
Quindi è una questione di linguaggio in cui si esprime il musicista, non di strumento.
Assolutamente. È chiaro che poi ti affezioni ad un timbro, impari a gestirlo, diventa parte del tuo suono; però non è mai il che cosa, è il come che fa la differenza. La maturità di un musicista la misuri anche da quello, la capacità di rendere le cose anche apparentemente banali più significative per il modo in cui vengono trattate. È un segno di spessore, di maturità.
Un’altra cosa che viene fuori dagli ascolti è che la tua è una musica sempre collettiva, non è una musica di solisti classicamente intesa.
È il risultato della fascinazione che ha esercitato su di me la musica di Mingus, quella di Sun Ra, quella di Archie Shepp, l’idea dell’Ascension coltraniana, e quindi la logica del jazz “tradizionale”, di New Orleans, l’improvvisazione collettiva di tromba, trombone e clarinetto. Alla fine sono lì le radici, è quello lo spirito che mi fa impazzire del jazz, la libertà di creare in tempo reale più linee che si vanno a sovrapporre e che si completano. Infatti la mia non è mai stata una musica di solisti. Non sono cresciuto ascoltando Parker e il be-bop, dove il solista andava in giro da solo con il suo strumento, e nei posti dove andava a suonare, preparavano una sezione ritmica, a volte adeguata, altre volte meno. Con Mingus invece non funzionava così. Aveva un circolo di musicisti che nel tempo è andato focalizzandosi in maniera sempre più precisa. Così li hanno avuti anche Miles, Coltrane, Sun Ra e tutti quelli che avevano la necessità, per fare una certa musica, di una condivisione ad un livello più elevato di uno spirito comune. Se c’è proprio una cosa che oggi sento che manca è lo spirito, l’idea che i rapporti umani che regolano le relazioni dei musicisti siano tanto importanti quanto l’idea di suonare bene gli strumenti. Che non vuol dire che una cosa sostituisca l’altra, non vuol dire che siccome stiamo bene insieme siamo bravi lo stesso anche se siamo scarsi. Questo è un dibattito che nell’ambito della musica sperimentale, della musica di ricerca, ho sempre dovuto affrontare, perché ho sempre pensato che facendo una musica più complessa e meno bene accolta di base, si dovesse essere credibili il doppio, per fare un buon servizio a quello che facevamo.
Perchè c’è sempre stata diffidenza in questo paese nei confronti di un Jazz non istituzionale, ancora si parla di free jazz come se fosse un marchio di infamia, sinonimo di incompetenza o incapacità, espressione di un’ignoranza, di una banalità e di una superficialità che non esiste in nessun’ altra parte del mondo. L’equazione free jazz uguale musica cacofonica, inascoltabile, sempre e comunque con una connotazione totalmente negativa, è qualcosa di antistorico, obsoleto. Penso al suono del tenore di Gato Barbieri in quello che considero il suo miglior disco di sempre, The Third World, interpreta un brano di Piazzolla che mi fa venire i brividi e ogni volta mi commuove, è bellezza allo stato puro… Quello che hanno definito free jazz è un contenitore che non esiste, perché in realtà non si sa cosa sia…era il jazz libero degli anni Sessanta, libero da una serie di vincoli e di strutture. Era Coltrane, Ayler, Ornette, era Don Cherry dei dischi Blue Note, era Dollar Brand…ed era anche Mingus, che suona libero come ha fatto sempre e da sempre, Mingus che suona free??? Se senti i dischi Changes 1 e 2, del 1974/1975, il gruppo fa delle versioni dei pezzi di Mingus che vanno sulla Luna e tornano in dieci minuti. E non mi sembra che Mingus possa essere definito un alfiere del free Jazz, però usava la libertà, che è il sale del jazz. Senza libertà non c’è Jazz.
Soprattutto quando hai tante cose da dire hai bisogno di essere libero.
Joe Lovano diceva: ”I don’t play free jazz, I play jazz free” che è evidentemente una provocazione nei confronti di quelli che stupidamente categorizzano. Coltrane per esempio cos’è? Un musicista di free Jazz? Chi lo sa. Quando suona Ascension probabilmente si, quando suona Expression, Transition, per alcuni anche quando suona A love supreme è indigeribile, ma è un problema tutto loro, come quelli che nella classica non hanno mai capito la Sagra della Primavera di Stravinsky. Pazienza, invece di leggere guardate le figure e ascoltate il Festival di San Remo. Il problema è che chi è più avanti apprezza ciò che c’è stato prima, necessariamente, mentre chi si è fermato e si arrocca su posizioni censorie non capisce quasi mai la musica che è venuta dopo.
Penso ai fan del prog, quelli che si sono fermati alla fine degli anni Settanta. È una musica morta, finita in quanto totalmente autoreferenziale… con la quale io sono cresciuto, ho ancora tutti i dischi, li ascolto ancora con molto piacere. Non è però che possiamo dire che tutto quello che è venuto dopo non vale nulla solo perchè non è più quella, perché non sono i Gentle Giant, gli Yes, i Genesis. Ci sono momenti nella storia dell’arte che hanno naturalmente senso e che però definiscono in maniera stretta un periodo, non sono “esportabili”, chi invece sopravvive a se stesso significa che ha innanzitutto la capacità e il coraggio di evolvere, di cambiare, di esplorare strade nuove e diverse, a dispetto di tutto e di tutti, del successo, della gloria e del denaro, dev’essere una urgenza che non tutti dimostrano di possedere.
Poi ci sono gruppi come i King Crimson, che facevano parte di quel mondo, che sono cambiati, si sono evoluti, penso a dischi come Discipline.
La trilogia di Discipline, Beat, e Three of a perfect Pair, che all’epoca feci una fatica clamorosa ad ascoltare, sono l’esempio perfetto. Tutti o quasi volevano riascoltare i King Crimson che avevamo conosciuto, Lark’s Tongue In Aspic, Red… e invece hanno avuto sempre ragione loro. Ha sempre avuto ragione quel diavolo di Robert Fripp: l’unico modo di sopravvivere a se stessi è cambiare. Non puoi continuare a suonare tutta la vita Epitaph, per quanto sia grandioso quel brano, e meraviglioso sia il disco In the court of Crimson King.
Già Red, rispetto a In the Court of Crimson King, è completamente diverso.
Ed è un disco meraviglioso, e per me, insieme a Lark’s Tongue In Aspic e Lizard, sono delle pietre miliari della musica del Novecento. Nel tempo poi hanno i KC fatto delle bellissime altre cose, come è giusto che sia. Rimanere fedeli a se stessi non vuol dire rimanere uguali a come si era uno, due, dieci, cinquant’anni fa. Non ha senso.
Che musica stai ascoltando in questi giorni?
Come ti dicevo, sto ascoltando tanto Gil Scott-Heron, sto ascoltando Bud Powell che non avevo mai ascoltato particolarmente in precedenza, Tracy Chapman. Ascolto molto Johnny Cash poi Ravel, e adesso mi rimetto ad ascoltare una serie di lavori per percussioni più legati alla musica del Novecento tipo Xenakis, Cage, Cowell, Chavez, Revueltas e Ginastera
Per chiudere vorrei tornare sul tuo triplo cd dedicato a Roland Kirk. Riascoltandolo tutto di recente, ho pensato che potrebbe essere utilizzato come materiale didattico, nel senso che se vuoi spiegare a qualcuno da dove nasce il jazz e che cos’è, gli fai ascoltare questi tre dischi e si fa un’idea abbastanza “verace” di quali sono il blues and Roots del jazz, prendendo a prestito il titolo di un famoso disco di Mingus.
Era proprio uno degli intenti di quel lavoro, era una delle cose che mi ero prefissato, e che mi sarebbe molto piaciuto fossero venute fuori.
Forse per questo ha avuto un ottimo riscontro di pubblico e di critica, perché chi l’ha ascoltato ha colto questo intento e lo ha apprezzato.
Per una volta con questo lavoro tutto l’universo si è allineato. È stato un tripudio, critiche positive, vendite, complimenti. Ma sai qual è stato il mio pensiero subito dopo? Cos’è che ho sbagliato, cos’è che non funziona? Perché mettere d’accordo tutti non è mai stati il mio mestiere. E non mi era mai successo. Quella cosa lì ha davvero messo d’accordo tutti, ed è stato clamoroso. Perché si trattava di un disco triplo, una sorta di concept album, un lavoro complesso, costoso, a cui ho dedicato un sacco di tempo ed energie della mia vita. Un lavoro con una storia dietro, con un concetto profondo, sia nella scelta dei materiali di Roland Kirk, per il modo in cui sono proposti, che nei pezzi degli autori che lui frequentava abitualmente. Quest’idea di fondo di Unicum del Jazz che è poi il concetto che stava scritto sullo stendardo che L’art Ensemble of Chicago teneva dietro al palco, Great Black Music: swing, be-bop, hard-bop, dixieland, rock’n roll, funk, r&b, soul, tutto. Un’idea che mi rappresenta ancora fedelmente.
Pensa che il recensore di Downbeat, che mi aveva dato 4 stelle e mezza su cinque, mi aveva contattato per dirmi che gli dispiaceva che non mi avessero dato cinque stelle, e il motivo era “perché non sei americano”… La recensione di Downbeat si concludeva stigmatizzando che un disco così venisse dall’Europa avrebbe dovuto far riflettere sullo stato della musica lì da loro, il paese dove quella musica era nata e si era sviluppata… mi era sembrato un bellissimo riconoscimento, comunque.