MARTIN SCORSESE | The Blues – Dal Mali al Mississippi (Feel Like Going Home)

Martin Scorsese
The Blues – Dal Mali al Mississippi (Feel Like Going Home)
USA, 2002 - colore, 83 minuti (distr. Dolmen Home Video)
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Prologo 1: Bianco e nero. Tre anziani musicisti neri in preda ad una specie di trance ipnotica suonano con i loro strumenti (due grancasse ed un piffero) una nenia primitiva.
Prologo 2: inquadratura a volo d’uccello del Delta limaccioso del Mississippi. Una voce recita un antico proverbio africano sull’importanza della propria identità culturale (“le radici di un albero non fanno ombra”).
Prologo 3: i canti degli hollers, gli schiavi neri impegnati nelle piantagioni di cotone nel profondo sud degli Stati dell’Unione, registrati all’inizio del secolo dallo studioso John Lomax e dal figlio Alan, accompagnano le immagini di repertorio dei lavori nelle fattorie e si confondono con la voce e la chitarra di Lead Belly, il primo bluesman ad essere inciso su disco proprio da Lomax.
Comincia così Dal Mali al Mississippi
, documentario della serie The Blues, prodotto e diretto da Martin Scorsese. Un viaggio alle sorgenti della “musica del diavolo”, nata proprio sulle rive del Mississippi ma che affonda le radici molto più in là, in Africa. Il bluesman Corey Harris, è l’interprete ideale cui affidare questo racconto proprio perchè ha costruito la sua carriera sul blues come strumento di indagine del passato per comprendere meglio il presente (“per conoscere te stesso devi conoscere il passato e per sapere dove vai devi sapere dove sei stato“). Il regista italo-americano spedisce il proprio “alter-ego nero” a raccogliere una serie di testimonianze di bluesmen viventi come Sam Carr che spiegano come il blues sia nato per alleviare le sofferenze di chi si trovava lontano da casa, deportato in un paese straniero, in catene, privato della propria dignità e della libertà, e come questi canti raccontassero di pene d’amore e donne crudeli per mascherare i temi reali, e cioè le angherie subite dai padroni bianchi.
Vite dure, volti segnati da sopravvissuti, quelli dei bluesmen che raccontano. Le mani però sono ancora veloci sulla chitarra e si possono vedere i lampi attraversare i loro occhi quando attaccano la prima nota.
Scorsese mescola sapientemente passato e presente, reperti d’epoca, interviste e jam improvvisate (ospiti tra gli altri Willie King, Keb Mo’). Racconta, per esempio, di Son House e di come la sua vita (e la sua musica) fossero continuamente in bilico tra estasi dell’amore ed il tormento del tradimento, tra dannazione e redenzione; e poi di come McKinley Morgansfield abbia abbandonato la piantagione in cui lavorava il giorno in cui ricevette una copia del suo primo disco, per andare a Chicago e diventare il musicista che rivoluzionò il blues e che noi oggi conosciamo come Muddy Waters. Oppure di chi, come Robert Johnson, ci ha lasciato pochissime canzoni e ancor meno informazioni sulla sua vita, ma nonostante tutto continua ad influenzare generazioni di musicisti blues, rock, jazz, che continuano ad interpretare la sua musica.
L’esodo dalle campagne verso le grandi città è il cambiamento radicale di una società che si traduce, a livello musicale, nel passaggio dal blues “rurale” quello urbano ed “elettrico” di Muddy Waters e di John Lee Hooker, ma è soprattutto il capitolo dedicato al vecchio Othar Turner a chiarire finalmente i contorni del legame tra il blues e l’Africa. Il piffero di Othar (è lui uno dei musicisti del prologo) e le percussioni con cui si accompagna sono la prova lampante del fatto che sulle colline a Nord del Mississippi hanno attecchito e si sono conservate fino ai giorni nostri la poliritmia ed i ritmi tribali ed ancestrali di matrice africana (i tamburi, di origine africana, erano proibiti dai padroni delle piantagioni che temevano potessero eccitare alla rivolta gli animi degli schiavi).
Per approfondire questo punto Harris vola in Africa, nel Mali per la precisione, e s’intrattiene con i musicisti più influenti del paese. Quanta dignità, quanta saggezza e quanta consapevolezza c’è nelle parole di Ali Farka Toure o Toumani Diabatè! Il musicista americano viene a contatto con la cultura dei suoi avi, apprende la vicenda dei griot, suonatori di kora e custodi della memoria e della cultura mandinga, scopre che pene d’amore e sofferenza sono temi universali sempre attuali, nell’America schiavista del XIX secolo come nelle canzoni di Salif Keita, e soprattutto torna a casa con la convinzione che questa questa musica e questa cultura vadano preservate e trasmesse come preziosa eredità per le generazioni a venire.


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Recensione al disco
Daily Bread di Corey Harris