SURF & DESTROY
Fatti e misfatti Surf Rock sulla cresta dell’onda
Cosa di meglio del Surf Rock per accompagnare e contenere questa torrida estate agli sgoccioli? Riverbero, tremolo, vibrato, fuzz e twang le parole chiave di un genere musicale, il Surf Rock, capace come pochi di incarnare il concetto di estate e mare con tutti i relativi annessi e connessi. Musica per eccellenza strumentale, dove la chitarra elettrica resta assoluta regina e protagonista. Un genere che rimane uno stile di vita per gruppi e appassionati sparsi nel mondo, dove all’invidia e al senso di competizione si antepone un forte spirito di comunione e mutuo sostegno percebibile nei numerosi festival e raduni che proprio d’estate trovano luogo e ragion d’essere.
Potrà sembrare musica preistorica, ferma anni luce agli anni Sessanta (escludendo ovviamente il caso e la parabola artistica dei Beach Boys, rivoluzionari interpreti legati al vocal surf che qui però non interessa ed esula dal nostro discorso) ma all’energia di questo sottogenere del rock le revival band degli anni Ottanta e Novanta hanno fornito nuova linfa e spinta creativa contaminando in varie direzioni, aggiornando così il divertente, solare e fantasioso immaginario iconografico di partenza con iperboli stilistiche e iconografiche di stampo horror-space-sci-fi tanto nei titoli dei pezzi quanto anche nei nomi delle ragioni sociali scelte. Nel frattempo la perizia tecnico-strumentale è cresciuta e ha condotto ad azzardi stilistici ed esperimenti fuori dall’ordinario. Nel Surf Rock l’inventiva è d’obbligo e porta ancora a ottimi risultati, a dispetto di temi, riff e motivi melodici semplici e immediati e di una ricetta che può (falsamente) suonare sempre la stessa.
Quelli che seguono sono così una trentina di dischi, tra ultime novità e alcune ristampe fin qui pubblicate nel corso dell’anno, che attestano il buon stato di salute della scena. Band e nomi storici di grande e consolidata reputazione ma anche sotterranei e nuovissime leve al loro esordio provenienti da vari continenti e parti del mondo. Un quadro rapprentativo del surf rock strumentale inteso nei suoi vari aspetti, ortodossi e contemporanei, con l’aggiunta di alcuni curiosi e sfrontati deragliamenti che sul genere agiscono in modo estremo ed assai personale. Recensioni succinte ma utilissime per orientarsi e aggiornarsi. Surf & DESTROY!
MAN OR ASTRO-MAN? Live At Third Man Records
Third Man Records, 2017
Voto: 8,5/10
Iniziamo alla grande con gli immarcescibili Man Or Astro-Man? che a distanza di quattro anni dall’ultimo lavoro in studio “Defcon 5…4…3…2…1” tornano sotto i riflettori con questo nuovo album dal vivo registrato in presa diretta nell’aprile del 2016 a Nashville, lì dove hanno sede l’etichetta e la roccaforte operativa gestite dal buon Jack White. La dimensione live è l’ideale per apprezzare la forza trascinante del quartetto dell’Alabama e la qualità eccelsa dell’incisione non fa altro che evidenziare tutta la potenza esplosiva di un set in cui il surf rock si manifesta nella sua accezione più visionaria, aggressiva e progressista. Le chitarre di Star Chrunch e Avona Nova riffeggiano e si alternano sul piedistallo modellando cruenti vortici di fuzz, riverbero e distorsione in chiave hard rock-garage mentre batteria e basso pestano e pulsano a velocità punk-rock. Quindici brani roventi e tiratissimi (alcuni anche cantati), attinti prevalentemente dagli album “Project Infinity”, “Experiment Zero” e “Defcon 5…4…3…2…1”, laddove il flashback più indietro nel tempo ripesca in debita successione solo il trittico Destination Venus, Secret Agent Conrad Uno e Principles Unknown, rispettivamente tratti da caposaldi d’inizio carriera quali “Destroy All Astromen”, “Your Weight On The Moon” e “Intravenous Television Continuum”. Disco da guerre stellari per il gruppo che ha portato il surf rock alla definitiva conquista dello spazio.
SATAN’S PILGRIMS Siniestro
SP Records, 2017
Voto: 7,5/10
In attività dal 1992, i Satan’s Pilgrims di Portland (Oregon) sono uno dei rari gruppi surf rock a schierare tre chitarre. Tale tridente consente al quintetto di svariare il lungo e in largo con soluzioni armoniche intricate e timbri che esplorano l’intero catalogo di effetti tipici del genere. Ispirato dall’universo degli horror b-movies, il loro approccio guarda ai tradizionali canoni degli anni Sessanta (Dick Dale, Ventures, Link Wray) ma anche al garage-rock del Pacific NorthWest di gruppi quali Sonics, Wailers e Kingsmen. Il nuovo album “Siniestro” interrompe finalmente un lungo digiuno discografico di ben otto anni dal penultimo “Psychsploitation”, quantunque fosse stato un po’ calmierato nel 2015 dalla pubblicazione di “Frankenstomp”, raccolta di singoli, rari inediti e memorabilie. Con un satanasso in bella mostra sulla sleeve, il disco ci restituisce una band sempre prorompente e in forma smagliante. Ecletttismo, energia e melodia, con un immancabile tocco di luciferina ironia, caratterizzano quindici brani originali suonati a dovere in cui spiccano le geometrie stomp-twang di Short Sand Surf e Creep Beat, il groove cavernicolo di Graveyard Stomp, il tremolo e i riverberi arrembanti di Buggin’ Out e Uphill Scramble, il frizzante organo e taglio rock ‘n’ roll di The Fireball. Giganti in azione!
SATAN’S PILGRIMS Creature Feature
Jackpot Records, 2017
Voto: 8,5/10
Sempre dai Satan’s Pilgrims arriva la ristampa in vinile, per soli 500 esemplari, di “Creature Feature”, loro masterpiece da tempo fuori catalogo. Pubblicato in origine nel 1998 per i venerabili tipi della Estrus, il disco esprime un sound vintage a bassa fedeltà che rievoca i fasti garage-surf degli anni Sessanta come meglio non si potrebbe. Organo e chitarre voodoo-zombie, ora melliflue ora assassine, che disegnano atmosfere sensualmente sinistre e tenebrose. Apre l’inquietante e spettrale Goulash seguita dall’epica cavalcata per tremolo, organo e fuzz di Scorpio 6. Subito dopo una gemma dopo l’altra: il serrato garage-surf svisato e a schiocco di frusta di Vampiro, la curva melodia e peripezia tecnica di Brokendown Deuce, gli agili accordi ed echi “spaghetti western” di Ichahob Crane, la trasognata armonia (ancora morriconiana) di Ran-goon, l’intro horror, le numerose variazioni sul tema e i tanti accenti spettacolari di Creature Feature, l’aspro e acido garage-rock (con linee d’organo in bella mostra) di Grave Up e quello più beat e swingante di Ragtop. Il “Thriller” del surf rock moderno, un capolavoro di gusto e fantasia che non potrà farvi restare immobili e indifferenti.
THE BRADIPOS IV Surf Session
Teen Sound Records, 2017
Voto: 8/10
Spostiamoci adesso in Italia per occuparci dei casertani Bradipos IV, una tra le migliori formazioni che in ambito surf rock la nostra scena può vantare e tra le poche in grado di competere anche a livello internazionale in quanto a bravura e originalità. In azione dal 1994, il quartetto composto dai fratelli Amerigo (basso) e Massimiliano Crispi (chitarra), Francesco Lo Presti (chitarra) ed Enrico Ragni (batteria) conta un numero impressionante di esibizioni e concerti un po’ ovunque (nei club e nei maggiori festival di settore, sia italiani che esteri) nonché diversi tour negli Stati Uniti. Pubblicato su etichetta Goodfellas nel 2016, l’assai originale “The Partheno-Phonic Sound Of” è al momento il loro ultimo album in studio che esplora e rivisita in chiave surf rock numeri e autori della tradizione classica napoletana. Qui ci preme tuttavia segnalare la recente ristampa in vinile del secondo album “Surf Session”, sempre targata Teen Sound come nel lontano 2005 ma contrassegnata da una nuova e diversa veste grafica rispetto all’edizione originale. Splendido apice creativo della loro purtroppo esigua discografia, il lavoro sfoggia dodici brani originali e due ottime cover, nello specifico il tema morriconiano di A Fist Full Of Dollar e un più cadenzato arrangiamento di Moon Relay, oscura pepita di metà anni Sessanta degli space-surf rocker americani The Vistas. Da applausi i restanti pezzi autografi, a metà strada tra eclettismo e devozione per la tradizione, apparecchiati anche con l’ausilio di organo (Beach Grave, La ultima ola, King Of Sloth) e avvolgenti trombe mariachi (Night Of The Vesuvius), laddove tra le tracce più dinamiche e tecnicamente esuberanti spiccano Reverb Gang, L’inseguimento e Cut-Back. Indispensabile!
DESTROY ALL GONDOLAS Laguna di Satana
Macina Dischi / Crampi Records / Sonatine / Shyrec / Death Crush Distro, 2017
Voto: 8/10
Ancora Italia ma stavolta più a nord-est per parlare dei veneziani Destroy All Gondolas e del loro micidiale album d’esordio “Laguna di Satana”. Con alle spalle diverse e altre esperienze musicali nelle frange del suono più estremo, il trio composto da Enrico aka Pido (chitarra, voce), Andrea aka Biondo (Basso) e Corrado aka Lalo (batteria) propone una tonante e devastante ricetta surf-garage-rock, black metal e hardcore punk (insieme vocale e strumentale) che stando alla press promozionale spazia da “Link Wray ai Black Sabbath, dai Mayhem a Johnny Thunders”. Una libera e fin troppo blasfema concezione del verbo surf rock che tuttavia ci piace e conduce a risultati sensazionali come il massacro ipercinetico perpetrato in Chrome Fuck, l’incestuosa fusione tra la lezione di Link Wray e quella dei Black Flag condotta in Alchemist, l’incontro al vertice tra Man Or Astro-Man? e Slayer organizzato in Demonolatreia e, continuando ancora, il trash-surf al collasso di Apocalypse Domani, i Bad Brains alla nitroglicerina di Destroy Your Gondola, i Metallica in trasferta a Honolulu tra gli stop-and-go di Morgan (con testo in italiano) fino ad arrivare alla sfaccettata grandiosità virtuosistica della strumentale Nutria, con efficace organo garage-punk annesso. Dieci tracce in mezz’ora per un sound atomico e acrobatico. Sismico!
MESSER CHUPS Spooky Hook
Trash Wax, 2016
Voto: 7/10
Russia, San Pietroburgo. Qui troviamo i Messer Chups del chitarrista Olex “Gitaracula” Fomchenkov, sorti tuttavia nel 1998 in quel di Amburgo. Prolifico progetto dal nucleo instabile e variabile (prima duo, poi trio e anche quartetto) vanta una nutrita discografia di cui “Spooky Hook” rappresenta solo l’ultimo tassello. Nell’incisione accanto al leader troviamo la bassista e cantante Svetlana “Zombierella” Nagaeva, il batterista Rockin’ Eugene e in diversi brani il sassofonista Alexey Kanev. Autoprodotto e pubblicato su CD già nel 2015, il disco è stato poi ristampato in vinile dall’irlandese Trash Wax e rimesso in circolazione lo scorso anno. Quello dei Messer Chups è un surf rock fortemente imbevuto di elementi garage-psychobilly tipici dei Cramps. Anche l’iconografia, dai video alle immagini e vesti grafiche dei dischi, non fa nulla per dissimulare tale influenza. L’album, come d’altronde quasi tutti quelli del passato, offre brani strumentali miscelati a un ristretto numero di episodi vocali, appannaggio della sensuale e maliarda voce della bassista. Un surf rock vampiresco dai toni erotici e dai temi fumettistici che non manca mai il bersaglio e incita al ballo più sfrenato. I titoli da investigare sono The Prowler, Curse Of Stephen Kong, They Call Me Zombie e Fast Food Diablo. Sexy ed esilarante!
THE COFFIN DAGGERS Aggravatin’ Rhythms
Cleopatra Records, 2016
Voto: 7,5/10
Rivoliamo negli States per parlare adesso dei newyorkesi Coffin Daggers guidati dal chitarrista Victor “Venom” Dominicis (ex membro di noti act più estremi quali Reagan Youth e Nausea). Il quartetto, nato nel 1999, timbra con quest’ultimo nuovo “Aggravatin’ Rhythms” il cartellino del terzo album e consolida la formula di un surf dark punk strumentale che non disdegna originali puntate nel garage-rock e nella psichedelia utilizzando al meglio chitarre, basso, organo e batteria. Le quattordici tracce originali del disco apparecchiano un programma nell’insieme etereogeneo e mai ripetitivo, dove a brillare sono soprattutto gli acidi colori fluorescenti dell’atmoferica The Sinister Urge, i suoni lisergici e fuzzati della title track, il ritmo e i riverberi spavaldi di Three Blue Stars nonché le scale ispaniche e i serpentini riff à la Link Wray di Wake Up Screaming. Altrove la band calca la mano sul più feroce e grezzo idioma garage-punk, come accade di ascoltare nell’anfetaminica Head On, oppure opta per soluzioni più swinganti, ma sempre tecnicamente superbe, tipo Kreepy Krawl o il pow pow stomp pellerossa di Uprising!. Tracce in cui Vic Dominicis semina assoli ficcanti, selvaggi e strabilianti, dimostrando d’essere un chitarrista davvero coi fiocchi.
THE PHANTOM OPERATORS Mortis Music
Mortis Music, 2016
Voto: 7,5/10
Da Knoxville, Tennessee, arrivano invece i Phantom Opeartors nelle persone di Eddie Van Helsing (chitarra), Charles “Manson” Reilly (chitarra), Tony Phibes (basso) e Dr. Goldfoot (batteria). Nato nel 2013, il quartetto trae la sua ispirazione surf rock da un immaginario arido e desertico, compreso tra Arizona, Texas e Messico. “Mortis Music” è già il terzo e ultimo album inciso subito a ridosso di “Hasta Muerte”, sempre nel 2016. Dall’ascolto delle dodici tracce originali, come anche dai titoli che le caratterizzano, si può benissimo etichettare la loro proposta come un intrigante “indie desert surf” ebbro di acida tequila e raffinatissimo whisky. I temi, tutti rigorosamente strumentali, sono molto curati e lambiscono da vicino la forma-canzone. Finemente lavorate di twang, atmosfere ansiogene, a volte cupe e minacciose, si fanno strada in Hell On Wheels, Ghosts In The Canyon e Hombre Lobo mentre sorprende l’elegante jazzettino surfadelico che prende vita in Morthy’s Theme. Tinte contemporanee, gotiche e decadenti, sono invece agguantate grazie all’effetto flanger, distintamente riconoscibile nelle bellissime Noctiphobia, La cavalera, Vanishing Streets e Love Theme From Mortis. Singolare!
THE PHANTOM OPERATORS Hasta Muerte
Self-Released, 2016
Voto: 8/10
Per quanto riguarda “Hasta Muerte” possiamo in parte confermare quanto già detto su “Mortis Music”. Appare evidente che l’approccio surf rock dei Phantom Operators è molto personale, svincolato dalla tradizionale grammatica anni Sessanta. Il discorso della band guarda avanti e non difetta in creatività se è vero che anche qui ci troviamo di fronte a dieci magnifiche composizioni tutte originali. Sconfinate lande desertiche, praterie western e spiagge messicane sono le scenografie restituite dagli affascinanti e godibili motivi di Adios, Taco-San, Gypsy Beach Party, Across The Mojave e Cannibal Run. Menzione speciale per Haole-A-Go-Go, e Las Cruces, due splendidi brani magistralmente eseguiti ed arrangianti che strizzano un occhio perfino ai Meat Puppets di “Huevos” e “Up On The Sun”. Raccomandato!
THE ISOTOPES Play Surf Music
Self-Released, 2017
Voto: 8/10
Da Rochester, stato di New York, giunge la travolgente formula degli Isotopes, quartetto attivo dal 2001 che con “Play Surf Music” taglia il traguardo del sesto album finora pubblicato. Nelle loro mani il verbo surf accelera di brutto sul versante punk-rock già con l’iniziale Jolly Rancheros senza però farsi mancare, poco più in là, una frizzante sezione fiati stile Henry Mancini in Sexpionage. Che siano dei musicisti che sanno il fatto loro lo si avverte facilmente dalle intricate strutture di molte composizioni, ricche di parti soliste e collettive da brivido (vedi soprattutto Nocturnal Transmission, Scientific Method Man e il surf-rockabilly jazzato di Super Collider). Possiamo pertanto inserire il combo nel filone un “progressive surf” fresco, attuale e mai banale. Energia, perizia tecnica, spirito di ricerca le caratteristiche principali di questo lavoro che conta ben sedici tracce una diversa dall’altra e dove la noia sembra una sensazione sconosciuta. Immaginate i Rush alle prese con il surf e sarete prossimi a intuire l’unicità di questa band.
THE DEADLY FATHOMS The Deadly Fathoms
Self-Released, 2016
Voto: 6/10
Nome nuovissimo quello dei Deadly Fathoms, trio texano di Austin che con questo omonimo album d’esordio insegue la scia di un selvaggio e riverberato “horror surf” che, detto per inciso, dal vivo agisce come sottofondo per le coreografie sfrenate, sensuali e provocanti di una discinta ballerina, partner fissa del gruppo. Otto tracce strumentali, tutte originali, (da infarto Pure Evel e Abomination Bay) dove citazionismo e tradizione convivono con una spumeggiante verve memore della lezione tanto dei Satan’s Pilgrims quanto dei Phantom Surfers. L’unico problema è che di pezzi di tale foggia ne abbiamo sentiti già a iosa e quindi resta da vedere se al prossimo giro il loro discorso muterà direzione per acquisire più originalità.
THE MEN IN GRAY SUITS Panic At The Pier
Hi-Tide Recording, 2017
Voto: 7/10
Altra new entry della scena i canadesi (di Montreal) The Men In Gray Suits hanno da poco esordito con questo “Panic At The Pier” che lancia all’attacco due chitarre, basso, batteria e sax. Tredici strumentali spesi in poco più di mezz’ora che resuscitano le epiche gesta di Ventures, Surfaris, Dick Dale e Sonics non tralasciando soluzioni e intuzioni personali come le scale spanish di Bahia-Mar, El Toro e Pass On The Poi oppure l’inaspettato fuoriprogramma acid-blues che squarcia la velocissima Ponaturi’s Revenge. Twang e riverberi di classe albergano invece nelle cadenzate e piacevoli andature di Harem Bells mentre lisergici assoli garage combinati a riff ornitologici e onomatopeici fanno di Chickety Snarl Snar! un autentico spasso. Band da tenere d’occhio e appuntare sul taccuino.
BLACK FLAMINGOS Neon Boneyard
Little Dickman Records / Hi-Tide Recordings, 2017
Voto: 7,5/10
Sempre da casa Hi-Tide Recordings arriva anche “Neon Boneyard”, primo lavoro sulla lunga distanza dei Black Flamingos, che segue il già promettente omonimo EP pubblicato un paio d’anni fa. Il trio americano del New Jersey, composto da Robbie Butkowski (chitarra), Declan O’Connell (basso) e Vincent Minervino (batteria), si distingue qui per un’attitudine ecumenica, che combina al meglio la tradizione surf del passato con le sue tendenze più moderniste. La chitarra esplora tutti i trucchi ed effetti richiesti dal canone, dettagli che risaltano in un sound aperto, controllato e molto pulito. L’iniziale The Gurch movimenta e surriscalda l’atmosfera da party con un ritmo deciso e saltellante, sorretto sia da eccellenti fraseggi e stacchi di basso sia da affilate e lancinanti linee di sax. Linty Dock avvelena il groove con effetti fuzz mentre Miranda e la title track disegnano languidi scenari tropical-lounge. La versatile Devils Punchbowl liquida in modo efficace la classica pratica sul versante horror-sci-fi mentre altrove la band si destreggia nelle ingegnose e labirintiche melodie di Theme From Traitors e Hour Of The Coyote, sfidando infine i Calexico sul loro stesso terreno con il bellissimo motivo tex-mex e surf mariachi di Showdown At Lasso Canyon. Band cresciuta a dismisura che anche stavolta non tradisce le attese.
BEACH CREATURE Party Scar
Weekend Records, Self-Released, 2017
Voto: 8/10
Altro nome nuovo e molto interessante è quello dei Beach Creature, duo statunitense di base a Portland (Maine, non Oregon), formato da Andy Barbo (chitarra, basso) e Charlie Sichterman (batteria). Il loro stile indie-garage e lo-fi surf rievoca a tratti quello degli incensati Allah-Las ma con tonnellate di creatività in più. “Party Scar” è l’opera con cui la coppia ha debuttato neanche un mesetto fa, disponibile in edizione limitata su cassetta (!) o in formato digitale via Bandcamp. Il progetto firma e propone tredici strumentali originali introdotti da Beach Creature, suadente esperimento beat-surf-garage in punta di flamenco. Più avanti ci si imbatte nella fantastica vena psichedelica che marchia la chitarra di Salt Water Claw, nel pimpante ritmo di East Coast High, nel sinistro e celere thrilling-mood dell’eclettica Death Guard (segnata dalla perizia di Samm Bahman, ospite cui si devono strabilianti parti e assolo di chitarra) e nel surf maestoso e curioso di Wave Waiting. La fantasia della scrittura esplode con una facilità disarmante in precisi dettagli armonici che inseguono una varietà impressionante di stili in chiave lo-fi, come nel caso del country-surf di Tunnel Visione, della bossa-surf di Hersay o delle trasparenti vesti notturne, ipnotiche e lisergiche di Hight Tiding e Slidingtide, quest’ultima chitarristicamente iridescente (sempre grazie a Samm Bahman) e figlia quasi dei grandi Quicksilver Messenger Service. Disco ricco di idee, davvero valido e degno d’ascolto.
THE WEISSTRONAUTS Flat Bottom Cold Greaser
Self-Released, 2017
Voto: 7/10
Sulla scena dall’alba dei Duemila, i Weisstronauts di Boston (Massachusetts) sono la mutante creatura del chitarrista e produttore Pete Weiss. “Flat Bottom Cold Greaser” è l’ultimo tassello di una copiosa discografia in cui il lessico surf è declinato in una concezione moderna e trasversale, atta ad accogliere e mescolare insieme elementi pop, country, psychobilly e space-rock. Prodotto e registrato tra Massachusetts, Georgia e Tennessee con il massiccio ausilio di tre chitarre, basso, batteria e fiati, il disco propone una dozzina di strumentali esteticamente disinibiti, per lo più allegri e ritmicamente euforici, come l’honky-tonk-surf di apertura che dà titolo all’opera, le spiazzanti variazioni country-surf e space rock di BABACAB, il radiofonico pop-rock di Teenage Wedding, il mood jazzato e hard-boiled di Spatial Tick, l’efficace duplice omaggio agli spy movies bondiani (James Bond Theme e The Bond Variations) e la ruvida psichedelia arabeggiante della notevole Don’t Get Him Mad. Progetto surf molto sui generis, d’accordo, ma estremamente duttile, tecnicamente dotato e ispirato.
INSECT SURFERS Datura Moon
Marlin Records, 2017
Voto: 7,5/10
Ritorniamo adesso a bomba per occuparci dei veterani Insect Surfers e del loro ultimissimo album “Datura Moon”. Sebbene calchi le scene dalla fine degli anni Settanta il quartetto (ormai losangeleno) guidato dal chitarrista David Arnson ha centellinato la propria produzione discografica in appena cinque album per privilegiare soprattutto la dimensione live e accumulare un numero impressionante di concerti in giro per il mondo. Oltretutto la sua ricetta surfadelica è sempre stata poco nostalgica ed ha sviluppato nel corso degli anni un originale discorso “progressive surf”, combinando tradizione e innovazione nel recinto di un invidiabile bagaglio tecnico-strumentale. Elementi e attributi che contraddistinguono in modo esemplare anche questa nuova incisione dove sembra di ascoltare i Phish alle prese con i repertori di Dick Dale, Byrds e Duane Eddy. Una decina di strumentali originali in cui virtuosismo, armonia ed energia convivono felicemente tra twang e fraseggi jingle-jangle, svisate e assoli da capogiro. Epilogo da urlo con gli otto minuti trance-psichedelici della title track. Massimo rispetto!
LOS STRAITJACKETS What’s So Funny About Peace, Love And Los Straitjackets
Yep Roc Records, 2017
Voto: 5/10
Dalla capitale del country, Nashville (Tennessee), giungono invece gli altrettanto storici Los Stratjackets, quartetto che a dispetto dell’immagine e delle truci maschere indossate si lascia qui volentieri andare a romantiche ballad stile Shadows e motivi riverberati in chiave hawaiana, come attestano Lately I’ve Let Things Slide, I Read A Lot, You Inspire Me e la title track del nuovo “What’s So Funny About Peace, Love And Los Straitjackets”, loro album numero ventidue! Negli accordi e nei timbri delle loro chitarre (autentite e mitiche DiPinto) la tradizione Surf Rock anni Sessanta rivive nei suoi aspetti più morbidi, festosi e solari, ispirandosi con devozione alla lezione di Ventures, Centurians, Astronauts e Chantays. Si parte bene e di gran carriera con la spigliata Shake And Pop ma oltre a Heart Of The City nulla di più. I restanti strumentali della raccolta indulgono in temi troppo melliflui e sdolcinati. Dopo tanti dischi e anni di carriera un passo falso può anche starci.
LOS TIKI PHANTOMS Aventuras En Celuloide
DiscMedi Blau, 2017
Voto: 8/10
Riprendiamoci allora con i catalani Los Tiki Phantoms, quartetto di Barcellona in azione dal 2006 il cui look d’ordinanza stavolta non tradisce le attese. “Aventuras En Celuloide”, loro quinto nuovo album, ci proietta verso un garage-surf anni ’80 e ’90 vigoroso e senza fronzoli, carico di robusti riverberi, ondivaghe pennellate di twang e tonnellate di fuzz alla maniera di Rudi Protrudi con i suoi Jaymen (vedi soprattutto El Barón Rojo, La Bruja Ye-Ye e Locos Sobre Ruedas). Coinvolgenti e ritmicamente trascinanti, i quindici strumentali proposti scorrazzano a briglia sciolta tra polverose lande “spaghetti western” (El Caballo del Malo, Winchester) ed esotiche spiagge polinesiane (Kiki En La Playa), con quell’infallibile mordente Sixties che esalta il guizzo del primitivo rock ‘n’ roll. Grandiosi!
DOYLEY & THE TWANGLORDS Twang Solo
Diablo Records, 2017
Voto: 8/10
Approdiamo ora oltremanica per parlare dell’irlandese Philip “Doyley” Doyle e del suo progetto Twanglords cui è ascritto il recente “Twang Solo”, consistente raccolta di brani vecchi e nuovi incisi da questo veterano chitarrista e produttore nel corso degli ultimi vent’anni. Patron anche della Diablo Records che contrassegna l’opera, Doyle è personaggio con gloriose esperienze punk-rockabilly e psychobilly in gruppi quali Demented Are Go, Klingonz, The Zorchmen, The Deltas, Spellbound e Guitar Slingers (solo per citarne alcuni). Esplicativo sin dal titolo, il disco sfodera venti strumentali trattati con twang e riverberi nucleari. Un surf-rockabilly di grande presa, troglodita e fantascientifico, suonato con la più isterica e deragliante vena garage-punk che possiate immaginare. Miscelando in parti uguali Cramps, Dick Dale, Link Wray e Man Or Astro-Man? e usando la chitarra come un letale kalashnikov, pezzi quali Twangzilla, Graviton, The 4D Man, The Torturer, Marisnatchi, Django il bastardo, One Of Our Spy Is Missing, The Man From Mongo e The Puppet Master diventano proiettili che fanno strage di tutti i luoghi comuni più fantasiosi e suggestivi frequentati dal genere: spy e sci-fi movies, comics e spaghetti western, zombie, demoni, vampiri e quant’altro. Una pepita esplosiva da maneggiare con cautela.
THE TERRORSURFS Zomboid Surf Attack
Sharawaji Records, 2016
Voto: 7,5/10
Sempre dalla perfida Albione, precisamente da Birmingham, viene il trio dei Terrorsurfs che manovra in direzione di un surf rock dai selvaggi tratti garage-punk. Nato nel 2015, dalle ceneri di un precedente progetto, i Terrorsaurs (artefici di un paio di LP), il gruppo è in procinto di pubblicare a fine anno il suo secondo album. Nel frattempo sarebbe opportuno procurarsi questo “Zomboid Surf Attack”, disco d’esordio già in grado di soddisfare i palati più esigenti degli appassionati. Seppur esteticamente imitativo e citazionista (tra Dick Dale e Phantom Surfers, con le solite incursioni nelle colonne sonore spaghetti-western), il tenore minaccioso e cavernicolo del sound esprime, con i suoi tempi serrati, un magnetismo di grande presa. Twang, tremelo picking e vibrati come serpenti a sonagli sono ingredienti base di pregevoli brani quali la rocciosa King Twang, Demon Stink Eye e la notevole The Spy Who Surfed Me. Altrove ci si può sollazzare con le frenetiche Horror Face e Surf Bomb, oppure con il motivo intimidatorio alla Batman di Schlock Wave mentre molto suggestiva, nel suo lento e cupo incedere tra spiriti tiki e spettri voodoo, è la finale It Came From A Toxic Waste Pipe. Esame superato!
RPS SURFERS Harake Gang
Toybear Records / Audio Montage Entertainment / Harake Records, 2017
Voto: 8/10
Anche Israele dà il suo ottimo contributo alla causa con i bravissimi RPS Surfers di Tel Aviv. Formazione in attività dal 2014, oscilla tra il quartetto e il quintetto, adoperando per le proprie incisioni anche un nutrito parterre di musicisti ospiti. In effetti la peculiarità del progetto è quello di sperimentare con un parco strumenti piuttosto ampio, dove accanto a chitarre, basso e batteria trovano posto organo, tastiere, mandolino, violino, effetti elettronici, tromba, tuba, sax e percussioni varie. Da ciò si può facilmente intuire che “Harake Gang”, recentissimo secondo album pubblicato da una cordata di ben tre etichette indipendenti, non è la solita minestra surf rock. Estro e slancio creativo del gruppo fruttano tredici strumentali originali dove il genere surf rimane la costante di fondo e di partenza per approdare a sonorità contaminate e inconsuete. Un universo distopico tra passato e presente dove elementi garage-rock e popedelia Sixties si mescolano a influenze etniche, sci-fi e spaghetti western. Impossibile descrivere in breve spazio la diversità e unicità di ogni composizione, ma non si può almeno non segnalare l’azzardo klezmer-surf di Meron, il terrore fantasmatico di Shark Attack, la spiritata vena garage-rock dell’iniziale The Black Hawk, l’esercizio in surreale chiave space age pop (leggi Stereolab) di The Belgian Wave e la lisergia della morriconiana Arapaho, con armonica e farfisa a tessere un motivo irresistibile nella sua ossessiva cantabilità. Strepitoso!
WJLP WJLP Is Out Of This World
WM Digital Services, 2017
Voto: 7/10
Più o meno sulla stessa scia, tra Ventures e Lively Ones, passando per space age bachelor pad music e oscure colonne sonore di pellicole fantascientifiche, si colloca anche la bizzarra ricetta surf e space-pop di “WJLP Is Out Of This World”, ultimo parto discografico del progetto olandese (di Rottherdam) WJLP, acronimo che riassume l’eccentrica identità artistica del chitarrista e tastierista William J. Le Petomane. Twang, organo beat, theremin ed effetti intergalattici fusi con scale arabeggianti (Smoking Camels, It Came From Beyond The Moon, Wednesday Morning), le solite irrinunciabili sortite nel Far West morriconiano (Rode Hard And Put Away Wet) e la sintesi di tutto ciò infilata nel finale brano manifesto Fantastic Voyage (dove pare che saltino fuori anche gli Air di “Moon Safari”) le carte vincenti di questo intrigante disco ben suonato e bello da ascoltare.
SURFYER Surf In Blood
Self-Released, 2017
Voto: 7/10
Avete mai pensato a come suonerebbero gli Slayer se fossero una instrumental surf band? Be’, la risposta a tale quesito c’è e si chiama “Surf In Blood”, eccentrico esperimento elaborato in quel di New York e firmato Surfyer. Riguardo agli artefici non siamo riusciti a reperire alcuna informazione. Dall’ascolto si sentono in azione chitarra elettrica (senza altri effetti se non tremolo e vibrato), organo, basso e batteria ma a suonarli e assemblarli potrebbe anche essere un unico personaggio. Un lavoro apparso improvvisamente dal nulla, autoprodotto e disponibile in formato digitale su piattaforma Bandcamp. Come intuibile dal titolo, la scaletta riprende e rivisita in chiave trash metal surf i dieci brani originali contenuti nel seminale album “Reign In Blood”, preservandone a velocità supersonica le medesime brutali e assassine concitazioni. Riff, arpeggi, stacchi e tempi da infarto con Dick Dale e (il compianto) Jeff Hanneman che nell’angolo applaudono e sorridono.
SURFANA Whatever
Participation Trophy Records, 2014
Voto: 5,5/10
Per la cronaca, parlando di curiosi sconfinamenti, anche i Nirvana di Kurt Cobain hanno beneficiato di un omaggio in stretta chiave surf rock. Hit e cavalli di battaglia del loro repertorio sono stati infatti rivisitati dai Surfana del New Jersey nel simpatico album-tributo “Whatever” pubblicato nel 2014. Come per i Surfyer anche su questa ragione sociale c’è il buio più assoluto visto che latitano ulteriori informazioni. Quel che è certo è che dietro (o dentro) la band figura un tale chiamato Dann Fox e che gli arrangiamenti dei tredici pezzi scelti (la finale Hidden Track è un’intrusa che non c’entra nulla con Cobain e soci) sortiscono, nel complesso, risultati altalenanti: dalle apprezzabili esecuzioni di Aneurysm, Territorial Pissing (con fruscìo marino per solo mandolino), Lithium (percorsa da una leggiadra base d’archi) e About A Girl (trasformata in qualcosa a metà strada tra uno spaghetti western e un tema bondiano) alle rovinose e sfasate ridicolizzazioni di Smells Like Teen Spirit, Heart Shaped Box, Rape Me e Dumb. Come si diceva, operazione simpatica ma estremamente amatoriale.
THE APACHES Musica Surfica Vol. III & IV
Self-Released, 2017
Voto: 7/10
Ottimi interpreti del filone che da Ventures, Revels e Tornadoes conduce a Duane Eddy e Dick Dale, gli Apaches di Tempe (Arizona) sono un quartetto stilisticamente devoto alla tradizione, in giro da appena tre anni. Nelle loro mani il surf rock autentico e genuino dei precursori appena citati trova pertanto dei degni discepoli, come attesta il secondo ultimo album (autoprodotto) “Musica Surfica Vol. III & IV”. Qui undici strumentali originali e una ripresa del noto standard-traditional Dark Eyes (peculiare per la sua rotonda armonia folk da steppa russa) danno luogo a un vibrante ed eccitante discorso sonoro, giocato di fino sul filo di twang, rock ‘n’ roll e twist (vedi Blackjack, Surf Surf Surf e Ghost Ride), arie spagnoleggianti e tex-mex (Pistoleros e Don Quixote) senza poi farsi mancare scorribande nel vecchio Far West (Lawmen e Look Out!) o nostalgiche ballad dove tramonti roventi affondano nell’oceano (Twin Palms e Starlite Drive). Surf Rock per puristi ma suonato con gusto e mestiere.
THE OLD JACK Tsunami
Self-Released, 2017
Voto: 7/10
Altra band emergente, i brasiliani Old Jack (da Pindamonhangaba, São Paulo) sono un giovane trio che mantiene alta la buona reputazione delle formazioni sudamericane nel genere. Pubblicato all’inizio di quest’anno, “Tsunami” è il loro breve album di debutto che in sette strumentali originali veicola pathos latino e umori dark-punk attraverso i plumbei e metallici riff del chitarrista Alexandre Costa e una sezione ritmica dagli accenti pneumatici. Brani quali Boldrò, Memorias, Tsunami e Attomic Surf esprimono un surf ficcante, cupo e minimale, adatto a risse e mascalzonate da spiaggia. Possono ancora migliorare ma l’attitudine e le idee fanno ben sperare.
LOS ULTRAMAN Paradigma Jurasico
BlastOff Records, 2017
Voto: 7/10
Uscito da pochissimo, “Paradigma Jurasico” è viceversa la terza nuova proposta discografica degli uruguayani Los Ultraman, quartetto di Canelones che approccia la faccenda surf con modi freschi e disinibiti, tanto da piazzare una simpatica versione di Life On Mars del compianto David Bowie accanto ad altre sette tracce strumentali originali che spaziano dalle arrembanti atmosfere à la Del-tones di Non DNA Man ai mutevoli cambi di passo e situazione della riuscitissima Western Charro Massacro. Altrove la band si diletta con un esercizio più languido in punta d’organo (Agotrip), una marcia dall’epico retrogusto gaucho (Sonido Chumínico), un piccante saggio di picking-twang (Simulacro) chiudendo degnamente il programma con gli efficaci effetti e riverberi chitarristici di La Conocí En El Phono. Complimenti ragazzi, la strada sembra essere quella giusta.
THE AQUA BARONS Southeast Stompers
Green Cookie Records, 2016
Voto: 6/10
Eccoci invece in Grecia alle prese con gli Aqua Barons di Salonicco, trio sorto nel 2010 ma pervenuto solo di recente con “Southeast Stompers” al debutto discografico sulla lunga distanza. La ricetta surf vintage oriented servita dalla band attraverso una decina di strumentali autografi appare pimpante e gustosa anche se guidata da un una visione troppo manieristica e oleografica del genere. Ciò nonostante non mancano episodi ispirati, come la parodistica atmosfera allarmante di Horror, la vertiginosa corsa sui brividi del riverbero di Abandon Ship! e le fuzzate distorsioni di Harbour Love. Sul versante più melodico e pacato si segnalano invece Lonely Siren e Last Sunset mentre Zehra scorre tranquillamente sui titoli di coda di un western alla Sergio Leone.
SPACE CRAMP El Cigar
Self-Released, 2017
Voto: 8/10
Forse provengono da Boston oppure da New York, forse sono un quartetto o un quintetto, chissà. Non sappiamo dirvi nulla sulla loro vera identità anche perché le rare immagini e foto reperibili in giro (incluse quelle usate per le cover dei loro dischi) sono ironiche e strategiche dissimulazioni atte a mantenere la più assoluta clandestinità. Cosa davvero insopportabile e fastidiosa visto che gli Space Cramp e questo “El Cigar” (a quanto pare loro secondo e ultimo album) avrebbero tutte le carte in regola per non passare innosservati ed, anzi, esser presi come modello di creatività e originalità. Tutto il disco suona splendido e spiazzante, animato da una concezione modernamente eccentrica del surf rock. Undici composizioni tutte originali, miracolosamente erette su ritmi obliqui e motivi a volte sghembi e strampalati. Ruvidi e carezzevoli allo stesso tempo, arrangiati su una labile linea di confine che separa il surf dall’indie rock, il prog e l’acid rock dalla musica tradizionale hawaiana, titoli quali Whistle Monkey, The Great Swamp Valley Biplane Chase, (Two) Hands, Gnome Chumski (strabiliante ipotesi surf sul corpo del math rock), Whig-n-out Burger (mantrica e acidissima come solo i Black Sun Ensemble ci avevano abituato) e Yeti Crab Annual Picnic 2045 (trasognata nella sua lisergica narcolessia) rivelano una dannata sicurezza e bravura anche dal punto di vista tecnico. Rivelazione!
AGENT ORANGE Surf Punks
Cleopatra, 2017
Voto: 8,5/10
Ulteriore ma necessaria uscita fuori dal sentiero del canonico surf rock per parlare delle gesta dei californiani Agent Orange, leggendario combo degli anni Ottanta (tutt’ora in attività) che pervenne a un originalissimo compromesso tra hardcore punk, power pop e surf rock. La molla per ricordarli e segnalarli è la recentissima ristampa di “Surf Punks”, antologia di vecchi hit (reincisi con migliore qualità audio) e altri pezzi killer, licenziata in origine nel 2000 e ripubblicata poi a più riprese, sia da Cleopatra che da Anarchy Music, con titoli (e copertine) all’occasione sempre diversi quali “Greatest & Latest – This, That-N-The Other Thing”, “Blood Stained Hitz”, “Surfing To Some Fucked Up Shit” e in ultimo, per l’appunto, “Surf Punks”. Celebre anche per una selvaggia cover di Miserlou contenuta nell’album d’esordio “Living In Darkness” (qui purtroppo assente), il trio guidato dal carismatico cantante e chitarrista Mike Palm può ben vantarsi di questi quattordici pezzi che mettono in bella mostra tutti gli aspetti del suo formidabile bagaglio tecnico ed estro creativo. Ad iniziare dall’epocale e micidiale singolo Bloodstains, passando per l’adrenalina, i cori anthemici e i tempi senza tregua di Breakdown, Message From The Underworld ed El Dorado, le incendiarie inflessioni surf-punk della strumentale Bite The Hand That Feed, il rock al vetriolo di What’s The Combination e It’s All A Blur (in cui i gruppo sembra gemellarsi ai Celibate Rifles), la fantastica e ossessiva cadenza bondiana di I Kill Spies fino ad arrivare alla brillante rendition surf-metal di Seek And Destroy (Metallica). Brani ancora oggi formidabili, per nulla scalfiti e logorati dall’usura del tempo.
SHADOWY MEN ON A SHADOWY PLANET Oh, I Guess We Were A Fucking Surf Band After All…
Yep Rock Records, 2016
Voto: 9/10
Di molte spanne sopra anche rispetto ai Man Or Astro-Man?, i canadesi Shadowy Men On A Shadowy Planet sono stati i più originali esponenti e rivisionisti del surf rock in chiave attuale e contemporanea. Anzi, il loro discorso possiamo tranquillamente definirlo come uno tra i più interessanti e incisivi anche nel panorama rock alternativo degli ultimi anni Ottanta e primi Novanta. Un vero peccato che nel 1995 abbiano mollato per dedicarsi ad altri progetti. Gli ultimi bollettini li danno tuttavia riformati per alcune apparizioni live in patria ed è certo che abbiano preso parte da headliner all’ultima edizione del Gateway Music Festival. Staremo a vedere. Di sicuro in questa lista e trattazione non potevano mancare. Per chi ancora non sa di chi o cosa stiamo parlando corre in aiuto il quadruplo Box “Oh, I Guess We Were A Fucking Surf Band After All…”, pubblicato lo scorso anno in vinile dalla Yep Roc. Propone, rimasterizzata dai master originali, l’intera discografia del trio, ossia i tre album ufficiali “Savvy Show Stoppers” (1988), “Dim The Lights, Chill The Ham” (1991) e “Sport Fishin’ – The Lure Of The Bait, The Luck Of The Hook” (1993), più un bonus-album aggiuntivo, intolato “Soft Polished Separates”, contenente inediti, rarità e quant’altro. Un’occasione da non perdere per apprezzare la scrittura surreale e la perizia strumentale del chitarrista Brian Connnelly, del bassista-cantante Reid Diamond (deceduto purtroppo per cancro nel 2001) e del batterista Don Pyle. Impossibile qui descrivere nel dettaglio anche una minima parte di ciò che è racchiuso in tale oggetto (servirebbe un articolo a parte). Se avete un’idea qualsiasi di cosa può uscire fuori mettendo a reagire gli schemi del surf con quelli di punk, rock, pop, new wave, country, prog, blues, funk, space e world music, be’, state sicuri che gli Shadowy Men On Shadowy Planet l’hanno già realizzata come meglio non si potrebbe.
DICK DALE & HIS DEL-TONES Surfer’s Choice
Vinyl Passion, 2017
Voto: 10/10
Terminiamo e chiudiamo il cerchio occupandoci finalmente di sua maestà Dick Dale, “The King Of Surf Guitar”, appellativo giustamente usato per intitolare il suo secondo album dato alle stampe nel 1963. Il nostro interesse è tuttavia rivolto al suo precedecessore, “Surfer’s Choice”, disco d’esordio apparso nel 1962 con marchio Capitol e Deltone, destinato ad essere vangelo e opera manifesto del surf rock tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo. Caso vuole che proprio quest’anno ne sia uscita una ristampa vinilica (sempre in mono) targata Vinyl Passion, con veste grafica differente e quattro pezzi aggiuntivi alla track list originale. All’epoca il disco raggiunse solo la cinquantanovesima posizione nella classifica di Billboard ma la sua importanza e influenza in tutta la storia del rock e della musica moderna sono a dir poco incommensurabili. Le ragioni che ne fanno una venerata pietra miliare sono sostanzialmente due: la peculiarità tecnica del picking e quella effettistica del riverbero inglobate da Dale nel suo stile chitarristico, lui che con questo tipo di sound innovativo diede le fondamenta ad un intero genere musicale nonché ad un modo del tutto diverso di approcciare la chitarra e incrementarne le possibilità espressive. L’intuizione e il desiderio di restituire in musica le emozioni delle feste da spiaggia e i brividi procurati dalle evoluzioni sportive del surf trovarono, come si sa, un provvidenziale alleato in Mr. Leo Fender, che procurò a Dale quanto gli occorreva per arrivare al suo scopo. Con una Fender Stratocaster debitamente co-progettata e un amplificatore per l’epoca di potenza spaventosa (ben 100 W), il mancino chitarrista nato a Boston (nel 1937) escogitò la più geniale delle ricette per unire il furore del rock ‘n’ roll e la vivacità del boogie alla musica tradizionale libanese e quella di estrazione balcanico-mitteleuropea, sonorità frequentate e coltivate in casa sin da piccolo grazie alle origini e radici dei suoi familiari. Ciò spiega le esotiche atmosfere mediorientali e le coinvolgenti scale danzanti di polke, troike e mazurke che risuonano, trasfigurate da twang, riverbero e sax, in molti pezzi di questo memorabile disco. L’incisione di molte tracce, effettuata per lo più dal vivo e in presa diretta, spiega le urla giovanili che introducono e attraversano la frenesia dell’iniziale Surf Beat. Subito dopo, però, le svenevoli e orchestrali note cantate di Sloop John B.(brano che nelle mani di Brian Wilson e soci diventerà ben altra cosa) e poco oltre i sentimentali e viscerali motivi doo-woop di Nigh Owl e Peppermint Man ci ricordano quanto il tempo possa essere maligno e implacabile anche con certe opere d’arte. Nulla ha però potuto contro la magnificenza incorruttibile di Misirlou (arabeggiante nelle fattezze del singolo di tarantiniana memoria, più spagnoleggiante nella sua estesa e orchestrale versione intitolata Misirlou Twist), Death Of Grimmie (primordiale esperimento surf sulle dodici battute), Del-tone Rock (superlativo boogie-surf con assoli di chitarra, sax e piano da infarto), Surfing Drums (spericolata passeggiata chitarristica sulle braci di un rhythm’n’blues alla Bo Diddley) Take It Off, Shake n’ Stomp, Let’s Go Tripping e Jungle Fever (euforico stravolgimento tribaloide del tema portante di Who Do You Love?). Suo grande ammiratore, Jimi Hendrix diceva che in giro c’era un solo chitarrista bianco a cui doveva qualcosa e costui era Dick Dale. Il surf rock è (e resterà sempre) il suono speciale e inconfondibile di questa rivoluzionaria chitarra.
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Shadowy Men On A Shadowy Planet