Una parola assolutamente visionaria ad intitolare il nuovo disco di Simone Agostini, un vocabolo decisamente particolare che tradisce da subito quello spirito di ricerca e di cura per i dettagli legati più all’espressione che alla tecnica. Pur non essendo un esperto del genere mi lascio trascinare dalle 10 tracce di questo lavoro totalmente strumentale e da esse colgo la magia di un racconto privo di parole, dove solo una chitarra acustica sa come reggere la scena. Di tanto in tanto colori di percussioni, una viola e un violino (da sottolineare la featuring di Francesco Moneti dei Modena City Ramblers) e anche qualche sana sperimentazione come nel brano “Outer Space” a cui segue anche un videoclip.
“MAKA”… cosa ti ha spinto a scegliere questo titolo, ma soprattutto questa parola?
Maka è una parola Sioux (o Dakota-Lakota) che significa Terra. Penso che il tema conduttore del disco sia infatti la terra vista sotto vari punti di vista. In particolare, ho scelto di prendere in prestito questa parola da una lingua dei Nativi Americani perché sono convinto che racchiuda in sé un’idea di terra ben precisa. Se avessi scelto come titolo “Terra”, oppure “Earth”, il significato sarebbe stato differente. Credo insomma che ad una determinata lingua sia strettamente legato un determinato contesto culturale.
Il tempo, ere, popoli, culture, ma soprattutto suono. Tanto suono in questo disco. Come lo hai ricercato e da cosa hai preso ispirazione?
Ogni traccia del disco ha una sua storia. In alcuni brani la scelta dei suoni è stata determinante per cercare di portare l’ascoltatore in taluni luoghi. In “Mediterranea” ho usato un bouzouki greco. Il timbro di questo strumento è così caratteristico che personalmente ogni volta che lo suono mi sembra di fare un tuffo nel Mediterraneo. In “Outer Space” l’uso di un e-bow (un archetto elettronico) mi ha permesso di creare un sound più “siderale”. In “Ina Maka” l’uso percussivo della chitarra e la presenza di un flauto dei Nativi Americani mi ha permesso di raccontare un’altra parte del mondo.
In altri brani è stato curato il suono con attenzione, ma questo ha avuto un ruolo molto molto meno rilevante in termini di composizione.
L’ispirazione penso sia il mio modo di essere, di vedere il mondo e la vita. Non ho prestabilito dove volevo andare, ho seguito questo percorso in modo naturale e spontaneo, brano dopo brano.
“Outer Space” anche dal bellissimo video ci lascia pensare all’elettronica e al mondo delle industrie. Ultima tappa di un viaggio. Il prossimo sarà fatto da chitarre sintetizzate?
No, non credo. il fatto che “Outer Space” sia l’ultima tappa del viaggio non significa che è da lì che ho intenzione di ripartire. Nel momento in cui ho iniziato ad avere la visione d’insieme dell’album, nel momento in cui ho capito dove mi stavo dirigendo, ho semplicemente ritenuto che “Outer Space” fosse il brano più adatto per concludere il “viaggio”.
Sicuramente sono sempre stato, e sicuramente sarò, molto ben disposto a sperimentare, ma in generale credo che i suoni elettronici siano piuttosto adatti per descrivere un mondo in cui io mi riconosco molto meno. Quando ho scritto “Outer Space” vivevo a Londra, e probabilmente il fascino della grande città ha esercitato la sua influenza. Ma in questo momento non credo di voler cambiare rotta in modo così repentino. C’è da dire poi che l’ambiente urbano ed industrializzato raccontato nel video da Paolo Tocco è una possibile chiave di lettura del brano molto efficace.
Il brano, però, come indica il titolo, vuole raccontare una parte dello spazio dove quasi tutto sembra fermarsi, dove il tempo sembra non trascorrere.
“Outer Space”… diciamolo subito: tutto suonato live? Raccontiamo quanto è particolare questa esecuzione.
Sì, tecnicamente credo sia piuttosto interessante, soprattutto per l’uso dell’e-bow in contemporanea all’arpeggio. Dal vivo sono praticamente in grado di eseguire il brano così come è stato inciso. In particolare con il pollice della mano destra eseguo la melodia sviluppata sulle corde basse, mentre sulla seconda corda eseguo l’accompagnamento per mezzo dell’e-bow. Nel corso del brano poi uso effetti a pedale e capotasto mobile per ottenere il resto.
Oggi, guardandolo dall’esterno, “Maka” è una giusta prosecuzione del tuo percorso oppure è un disco totalmente diverso? La tua strada si è rivoluzionata o si è evoluta?
Penso che Maka sia il percorso più naturale che potevo seguire dall’uscita di “Green” ad oggi. E personalmente riesco ad apprezzare questo percorso anche nelle singole tracce del disco.