Rita Marcotulli

Sound Contest: Ciao Rita. Raccontaci come e’ iniziata la tua passione per la musica?

Rita Marcotulli: Ho iniziato a studiare il pianoforte a cinque anni, partendo come quasi tutti con la musica classica. L’amore per il jazz e’ venuto poi spontaneamente, perche’ sin da quand’ero piccola non mi e’ mai piaciuto leggere la musica e suonare le cose scritte.
Per questo motivo il passo decisivo verso il jazz e’ stato brevissimo, anche se in realta’ ho iniziato a suonare musica jazz con Mandrake Son, un percussionista ormai scomparso che suonava in Brasile con Enrico Simonetti e si trasferi’ poi qui in Italia con Irio De Paula.
Da li’ ho intrapreso la strada del jazz, o meglio dell’improvvisazione, come preferisco dire.

SC: Quali sono i musicisti di ambito jazzistico che piu’ ti hanno ispirato agli inizi della carriera?

RM: Le prime cose di jazz le ho ascoltate perche’ vicino casa mia c’erano Roberto Della Grotta, Michele Ascolese, Giampaolo Ascolese, Nicola Stilo, tutti musicisti che operavano prevalentemente in ambito romano e che avevano un gruppo a quel tempo abbastanza noto che si chiamava Spirale.
Siccome non avevano un pianoforte, venivano a casa mia a suonare, ed in quel periodo erano particolarmente appassionati di John Coltrane e della musica modale, sicche’ quando ascoltai per la prima volta queste cose rimasi come stranita, soprattutto perche’ allora io ascoltavo e suonavo musica classica.
Da li’ poi ho iniziato ad andare con loro ai concerti e a scoprire Umbria Jazz, quando negli anni Settanta il festival era ancora itinerante.

SC: Poi alla fine degli anni Ottanta ti sei trasferita in Svezia. Eri attratta dalle sonorita’ nordiche che si erano fatte strada in campo jazzistico a quel tempo?

RM: Assolutamente si’! Ho vissuto in Svezia sei anni, tornando pero’ sovente in Italia anche perche’ li’ il clima non era proprio invitante. Dopo aver scoperto il jazz americano dei grandi, sono stata attratta dalle sonorita’ dell’etichetta ECM che mi hanno aperto davanti un altro mondo, quello dei musicisti europei come Miroslav Vitous, John Surman, Jan Garbarek ed altri.
Siccome sono sempre stata molto amica di Michel Petrucciani, che allora suonava nel quartetto di Charles Lloyd in cui c’era anche Palle Danielsson, ho avuto in questo modo l’opportunità di conoscere il contrabbassista. Ci incontrammo ad una cena a casa mia e da li’ abbiamo stretto una forte amicizia che mi ha spinto a trasferirmi in Scandinavia, una terra che mi ha dato tantissimo e che mi ha permesso di crescere musicalmente.

SC: Sappiamo poi della tua collaborazione con Billy Cobham. Raccontaci qualcosa di quell’esperienza.

RM: Billy Cobham l’ho conosciuto a Roma, se non erro nel 1987, in occasione di un concerto con Roberto Gatto nel quale c’erano appunto due batterie e da li’ fui invitata a suonare nei suoi gruppi. Ricordo che nel 1989 facemmo una lunga tournee che duro’ sei mesi, in Europa ed in America. È stata una grande esperienza anche quella, per quanto la musica che si suonava fosse particolarmente virtuosistica e quindi particolarmente distante da quello che era il mio mondo. In ogni caso lui e’ davvero un grandissimo musicista.

SC: Poi c’e’ stata, e c’e’ tuttora, la collaborazione con Dewey Redman.

RM: Questa collaborazione e’ nata in seguito al lavoro svolto nel quartetto di Michel Benita, formazione nella quale figurava anche Dewey Redman. Dopo quel primo incontro Dewey mi disse che mi avrebbe invitata a suonare nel suo gruppo, cosa alla quale non credevo ma che invece si e’ concretizzata, al punto che ormai sono sei anni che suono con lui nei concerti europei, l’ultima volta la scorsa estate per tre settimane di tourne’e.
Con Dewey in realta’ suoniamo delle cose abbastanza varie, dagli standards alle sue composizioni di stampo piu’ free, anche perche’ lui sostiene di annoiarsi se suona esclusivamente musica d’avanguardia.

SC: Hai un pianismo molto lirico che pero’ si apre spesso a momenti di improvvisazione quasi totale, caratteristiche che ti accomunano a pianisti come Paul Bley e John Taylor, con i quali hai tenuto negli anni scorsi un concerto al Teatro Olimpico di Vicenza. Come nacque quel progetto?

RM: Fu un’esperienza bellissima per la quale inizialmente mi sono sentita un po’ imbarazzata, anche perche’ sapevo di suonare accanto a due grandi maestri. Era un concerto dedicato a Bill Evans e a quel suo disco intitolato Conversations with Myself nel quale ci sono tre pianoforti sovraincisi: suonammo alcuni brani tratti da quel disco ma ci lasciammo anche andare all’improvvisazione, anche perche’ Paul Bley non ama molto provare su strutture gia’ definite.
Ci sono state in quel concerto delle parti in solo per ognuno di noi, altre con due pianoforti ruotando la formazione, altre ancora tutti insieme. È stato un evento unico mai piu’ ripetuto, anche se con John Taylor ho fatto anche un concerto in duo.

SC: Nel 1994 hai registrato un disco intitolato Chancon con Enrico Rava, Richard Galliano ed Enzo Pietropaoli. In quel disco si respira un’aria molto malinconica, pregna di quello spleen che ha caratterizzato certa musica romantica del Novecento europeo. È quella una dimensione nella quale si sente che ti sei sentita particolarmente a tuo agio.

RM: Effettivamente nelle mie composizioni ritrovo molto la malinconia e la nostalgia, e non e’ un caso che mi piaccia particolarmente la musica brasiliana, cosi’ piena di saudade anche se melodica. Poi in quel disco c’e’ Richard Galliano che suona uno strumento particolarmente malinconico, e lo stesso Enrico Rava ha nel suo stile una spiccata liricita’. Tra l’altro in quel disco c’e’ un brano di Richard intitolato appunto “Spleen”, che e’ molto significativo per l’atmosfera che si respira in tutto in disco. Non dimentichiamo pero’ Enzo Pietropaoli, che ha fornito un apporto decisivo per la riuscita del progetto, nel quale lo si sente spesso suonare il contrabbasso con l’archetto.

SC: Poi un paio di anno fa hai realizzato per la Label Bleu un disco intitolato The Woman Next Door, ispirato alla filmografia francese ed in particolare ai lavori di Francois Truffaut.

RM: Per la stessa etichetta avevo gia’ realizzato un disco, intitolato Night Caller, che pero’ in Italia non ha avuto la giusta distribuzione, forse anche perche’ era un lavoro un po’ piu’ difficile, dalla luce molto nordica: non a caso c’erano Jon Christensen alla batteria, Nils Petter Molvaer alla tromba e Tore Brunborg al sassofono, oltre a Michel Benita al contrabbasso.
In quel periodo organizzavamo tra amici la visione di film di vari registi, e tra essi quelli di Alfred Hitchcock ed altri. Devo dire che non conoscevo bene i lavori di Francois Truffaut e quando un mio amico mi ha fatto vedere Ragazzo selvaggio sono rimasta folgorata, e di li’ ne sono seguiti altri come Fahreneit 451 e Baci rubati. Tra l’altro proprio da quest’ultimo film e’ tratta “Que reste-t-il de nos amours” che avevo gia’ registrato proprio in Chancon.
Cio’ che ho fatto in The Woman Next Door e’ stato cercare di riportare in musica le emozioni che avevo provato nel vedere i film di Truffaut, piu’ che provare a ricrearne l’atmosfera.

SC: Hai composto un brano intitolato “Autoritratto”, bellissimo al punto che e’ diventato un po’ uno standard. Tra l’altro Maria Pia De Vito ha scritto sulla tua musica un testo altrettanto bello. Come spieghi il successo di questa tua composizione?

RM: Questo brano ha avuto una genesi abbastanza strana, nel senso che mi avevano proposto di comporre la musica per un film che aveva una storia tremenda e nel quale si respirava un aria malinconica. È effettivamente un brano molto cantabile e che invita anche alla danza, al punto che l’ho suonato anche per la mia collaborazione con la danzatrice americana Teri Weikel.

SC: Come e’ nato il sodalizio con Maria Pia De Vito?

RM: Con Maria Pia De Vito ci conosciamo da tantissimo tempo, cioe’ da quando lei cantava con Eugenio Bennato. Accadde che una volta serviva qualcuno che suonasse il piano in quel gruppo e lei ricordo’ di avermi ascoltato da qualche parte, e cosi’ ci siamo incontrate … ma parliamo di quasi vent’anni fa.
Poi Maria Pia si stabili’ a Roma, per cui ci siamo frequentate per tantissimo tempo, almeno fino a quando non mi sono trasferita in Svezia, ed a quel punto ci siamo un po’ perse di vista; in seguito ci siamo incontrate al mio ritorno per un progetto da realizzare insieme sui new standards, anche se la cosa in realta’ non e’ che ci abbia coinvolto particolarmente.
Poi sentii Maria Pia cantare “Mmiezo ‘o ggrano” e rimasi subito affascinata dalla bellezza di quella melodia, al punto da essere molto felice di portare il progetto in quella direzione, fino a dar vita con lei a Nauplia, registrato nel 1994 pr l’Egea. La cosa che mi piace di piu’ di quel disco e’ che suona come noi; inoltre ci sono alcune composizioni, nate strumentalmente per Night Caller, che mostrano una nuova identita’, e mi riferisco alla title-track, a “Day Caller” ed alla gia’ citata “Autoritratto”, che in Nauplia diventano “Viene notte”, “Scitame sole” e “Come un ritratto”, tutti brani nati in una dimensione nordica per assumere in quel progetto un carattere mediterraneo.

SC: Sono note le tue collaborazioni con cantanti di musica pop, un’usanza sempre piu’ diffusa tra i musicisti di jazz che pero’ qualcuno vede come un compromesso. Cosa ti affascina di più in questi lavori?

RM: Innanzitutto devo dirti che non credo nella gerarchia della musica, nel senso che possiamo definire commerciali cose che hanno una grossa valenza artistica. Ad esempio i Beatles hanno fatto delle cose talmente belle che si possono tranquillamente definire arte. La cosa importante e’ che la musica ti dia delle emozioni, non importa il genere in cui puo’ essere inquadrata. Pino Daniele e’ stato grande per tantissime cose che ha fatto, anche se magari adesso e’ un po’ piu’ commerciale, ma e’ innegabile che abbia inventato uno stile.
Il fatto che qualcuno veda queste collaborazioni come un compromesso e’ un problema esclusivamente italiano, nel senso che negli Stati Uniti i musicisti di area jazz hanno sempre collaborato con cantanti e musicisti di altri generi, senza che nessuno gridasse mai allo scandalo. E poi, secondo me, si tratta di esperienze che vanno comunque fatte, l’importante e’ fare musica con verita’.
Io con Pino Daniele ho imparato tante cose, ad esempio che suonare quella musica significa togliere tante note, diversamente da quanto accade invece nel jazz; e poi devi suonare sapendo che stai accompagnando un cantante e che non devi lasciarti andare a lunghi assolo. Devi provare ad essere un colore in un quadro, non necessariamente l’intero quadro.
Ultimamente ho anche realizzato un lavoro con Nada sulle canzoni di Piero Ciampi. Per chi non l’ha seguita in tutti questi anni, Nada e’ rimasta quella di “Ma che freddo fa”, anche se in realtà e’ un’artista che nel frattempo ha fatto grosse cose, anche come attrice: ha lavorato ad esempio con Dario Fo e Paolo Conte e mostra sempre una fortissima presenza quando e’ sul palco, oltre ad essere un’ottima interprete. Ci siamo conosciute a Sanremo e da lì abbiamo stretto un bel rapporto finche’ non mi ha proposto di fare qualcosa insieme a lei. Io accettai e così mi fece subito vedere dei video meravigliosi di Piero Ciampi, con dei brani bellissimi con l’orchestra che Ciampi aveva scritto per lei.
Inizialmente per questo progetto volevamo mettere su un trio di donne ma, non avendo trovato una strumentista che suonasse bene per quelle cose, abbiamo tirato in ballo Javier Girotto, data anche la sua versatilità e la sua capacità di suonare vari strumenti.

SC: Hai qualche progetto particolare in cantiere?

RM: Sto lavorando al nuovo disco, che credo uscirà ancora per l’etichetta francese Label Bleu, anche se preferisco non dire molto perche’ e’ ancora tutto in preparazione. Sarà sicuramente una cosa un po’ diversa, un connubio tra sonorità acustiche e strumentazioni elettroniche e comunque si ascolteranno momenti lirici e situazioni di totale libertà, come sempre accade nei miei progetti.
Mi ha sempre affascinato la ricerca sulle diverse sonorità del pianoforte, far sì che questo strumento suoni in un altro modo, al punto che spesso metto sulle corde delle collanine, dei sonagli, immaginando ad esempio di trasformare il pianoforte in un sitar.

SC: Un ultima domanda. Qual e’ il musicista con cui sogni di poter suonare?

RM: Bella domanda. Forse con Wayne Shorter, un sassofonista che amo tantissimo, anche se poi devo dire che sotto questo aspetto mi sento abbastanza realizzata perche’ ho avuto la fortuna di suonare con tanti grandissimi musicisti. In realtà non credo neanche si tratti di un sogno.
Ripensandoci bene un sogno ce l’avrei … mi piacerebbe tantissimo suonare con Sting, quello sì che e’ un sogno.


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Rita Marcotulli:
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