Non si può non ricordare, dopo cento anni dalla nascita e a vent’anni dalla sua scomparsa, quel Renato Carusone che poi, probabilmente a causa dei frequentissimi errori di trascrizione anagrafica dell’epoca, al secolo fu meglio conosciuto come Renato Carosone. Resta unico e ineguagliato il ruolo di caposaldo e di precursore, l’atteggiamento visionario, la capacità di dare una svolta e una veste nuova alla canzone napoletana, che rappresentò la sua figura nello spianare la strada all’evoluzione della musica in Italia dopo il ventennio oscuro e la guerra che ne era seguita.
Ancora una volta, questa grande rivoluzione partiva da Napoli, dove Renato era nato nel 1920.
Aveva dimostrato prestissimo interesse e predisposizione per la musica, la sua prima maestra di pianoforte fu la madre stessa che, purtroppo, morì prematuramente. Il padre volle però che continuasse i suoi studi e così fu affidato a diversi maestri dell’epoca e così, a soli quattordici anni, ebbe la sua prima scrittura nel mondo dello spettacolo.
Dopo essersi diplomato in pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, a soli diciassette anni, si imbarcò verso l’Africa del nord, e sbarcò a Massaua, in Eritrea, con un’improbabile compagnia teatrale. Si spostò poi ad Addis Abeba, dove rimase a suonare fino al 1940, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e fu chiamato alle armi e inviato al fronte nella Somalia Italiana.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’esercito degli Stati Uniti, per mantenere alto il morale dei suoi soldati, inviava presso i propri centri di ricreazione grossi quantitativi di fonografi e di un nuovo tipo di dischi, chiamati V-Disc (dischi della vittoria) fabbricati in vinile con una nuova tecnologia che avrebbe poi aperto la strada alla diffusione di massa della musica nel dopoguerra. Sui V-Disc erano incise, appositamente per i soldati al fronte, canzoni e musica ballabile e da ascolto dai maggiori musicisti e cantanti americani. Quindi, attraverso le frequentazioni coi soldati statunitensi, si andavano diffondendo generi musicali “nuovi”, lo swing, il blues, il jazz, il boogie-woogie, il cha cha cha, il rock and roll. Furono probabilmente le migliori opportunità che Renato – come un po’ tutti i musicisti suoi contemporanei che poi si sarebbero avvicinati al jazz – ebbe per conoscere più approfonditamente la musica di George Gershwin, Cole Porter, Duke Ellington, che anche Carosone presto acquisì e fece sua.
Finita la guerra, Carosone tornò in Eritrea, dove divenne direttore artistico di un locale notturno ad Asmara ed ebbe così modo di sperimentare e, grazie al suo talento, mettere in pratica con successo tutto quanto aveva imparato di quei nuovi generi musicali. Nel 1946 tornò in Italia, dove passò qualche anno tra Roma e Napoli, con incerte fortune, finché non fu coinvolto nell’inaugurazione un nuovo locale a Napoli, lo Shaker Club. Per quella serata intendeva formare una nuova band.
Le fortune di Renato Carosone sono indubbiamente riconducibili al suo talento, alle sue grandissime capacità di musicista e di showman, alle sue doti di band leader, ma non possono in nessun modo prescindere dall’affiancamento di altri due grandissimi talenti artistici: il chitarrista olandese Peter Van Wood e il napoletanissimo batterista Gennaro Di Giacomo, detto Gegè, classe 1918, nipote di Salvatore, famosissimo poeta napoletano.
Il Trio che si formerà per l’inaugurazione dello Shaker Club di Napoli rappresenterà il nocciolo delle future affermazioni di Carosone e toccherà l’apice del successo attraverso una di quelle rare alchimie artistiche che, ogni tanto, si verificano in ogni ambito delle espressioni umane.
Come Carosone era divenuto nel tempo un pianista capace di notevoli virtuosismi; anche Van Wood era un chitarrista capace di virtuosismi all’epoca non comuni e probabilmente fu uno dei primi in assoluto a introdurre l’uso delle pedaliere per chitarra con effetti elettronici. «Peter» – racconta nella sua biografia lo stesso Carosone – «era piacente, biondo, aveva un’aria stravagante e cantava in italiano, spagnolo, francese e inglese…». La sua presenza nel gruppo diede luogo a una forma di “globalizzazione” grazie alla quale la napoletanità di Carosone ebbe un sorprendente successo anche in Olanda, negli altri paesi bassi e in molti altri paesi europei.
Gegè di Giacomo, più che un semplice batterista, era un fantasista delle percussioni. Un aneddoto narra che si presentò al provino di Carosone e Van Wood all’Hotel Miramare di Napoli senza la batteria e che avesse dimostrato il suo talento suonando con le sole bacchette su qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro, i tavolini, dei bicchieri parzialmente riempiti in modo da ricavarne tonalità diverse, le gambe delle sedie e quant’altro. Da questa prestazione fantasiosa e spiritosa Carosone capì subito di aver incontrato “il personaggio” singolare di cui aveva bisogno, che sarebbe diventato quel preziosissimo collaboratore e braccio destro a cui non avrebbe potuto rinunciare. «Gegè tu servi a me e io servo a te…» – si dicevano l’un l’altro – «…Senza di te io non posso fare niente e tu non puoi fare niente senza me…»
Alcuni anni dopo Van Wood lasciò il gruppo e partì verso l’America per cercare nuovi stimoli per la propria carriera. Il gruppo di Carosone si allargò con l’alternarsi di diversi nuovi elementi tra cui vale la pena di ricordare, nel 1953, nientemeno che il chitarrista jazz Franco Cerri (!); successivamente svariati musicisti, sempre valentissimi, si alternarono in varie formazioni.
Diversi furono i primati di Renato Carosone e i suoi compagni in quegli anni; era il dopoguerra, la gente aveva voglia di dimenticare le tragedie del passato e di ricostruire un presente e un futuro aspirando al benessere e desiderava trascorrere qualche attimo di spensieratezza.
Con il loro ottimismo e la loro fantasia artistica Renato e i suoi musicisti furono capaci di un primo e inedito esperimento di “fusion”, la melodia classica napoletana – non dimentichiamo che, a quell’epoca, “Canzone Napoletana” era sinonimo di “Canzone Italiana” – con tutto il bagaglio di esperienze acquisite negli anni dell’immediato dopoguerra, dalle influenze etniche “africane” ai ritmi importati dalle Americhe, lo swing, il boogie, il blues, la rumba e il cha cha cha.
Secondo il noto attore e regista americano John Turturro, da sempre innamorato di Napoli e di tutto quanto la riguarda, in particolare dal punto di vista artistico, Carosone è stato il primo “rapper” in assoluto. Difficile dargli torto.
Furono comunque queste le chiavi del successo e delle innovazioni introdott dall’originalità della ricetta di Carosone & Gegè, condita sapientemente da un pizzico di ironia, scanzonata e talvolta irriverente, sempre associata a quel particolare sorriso ammiccante a cui nessuno avrebbe saputo o potuto rimproverare nulla.
Quello stesso sorriso scanzonato, a cui sempre tutto è permesso, ancora oggi lo possiamo ritrovare sulle labbra di due suoi affezionatissimi seguaci, Renzo Arbore e Rosario Fiorello.
Il pubblico veniva “caricato” al massimo dal “grido di battaglia” di Gegè “CantaNapoli…” e partecipava attivamente al concerto che si presentava, nel suo complesso, come uno spettacolo completo.
Pare infatti che una sera a Milano, durante un concerto al Caprice, mentre lavoravano come sempre abilmente al coinvolgimento del pubblico presente, durante l’introduzione del brano La Pansè, Gegè abbia improvvisamente gridato: “Canta Napoli… Napoli in fiore…”.
Da quel momento anticipava ogni brano, bollandolo con un riferimento al senso della canzone: “…Napoli matrimoniale…” per T’è Piaciuta, “…Napoli in farmacia…” per Pigliate ‘Na Pastiglia, “…Napoli petrolifera…” per Caravan Petrol, e così via. Gegè era un vero e proprio “personaggio” più che singolare.
Non sarebbe da escludere che il grande Totò che, negli stessi anni, rivestì per il cinema leggero e di intrattenimento lo stesso ruolo ricostruttivo e rivoluzionario che Carosone e i suoi ebbero nella musica, si sia talvolta ispirato a Gegè nella creazione di qualche suo personaggio esilarante.
Si dovrà attendere, negli anni settanta, la “Neapolitan Power” di James Senese, di Tullio De Piscopo, e subito dopo di Pino Daniele, che è stato considerato una sorta di “erede” naturale del suo spirito innovativo, di Tony Esposito, di Joe Amoruso e Rino Zurzolo, per assistere a un rimescolamento altrettanto rivoluzionario della musica napoletana, con echi e ripercussioni altrettanto incisivi e riconosciuti in tutto il mondo.
Ma tornando all’effetto “novità” del fenomeno Carosone, inquadrato nel contesto di rinascita culturale di quegli anni, proprio il suo gruppo fu protagonista di una serie di primati a testimonianza di tutto il prestigio e il gradimento che era riuscito a conquistarsi in ambito artistico.
Fu il primo ad apparire, il 3 gennaio 1954, a poche ore dai primi vagiti della nascente Rai – Radio Televisione Italiana, in una trasmissione intitolata L’orchestra delle quindici.
Fu il primo dei musicisti “leggeri”, dopo una lunga tournée in Europa, a Cuba e in Brasile, ad essere invitato alla Carnegie Hall di New York dove, mai prima di loro, si erano esibiti soltanto musicisti classici; nel 1960 furono invitati in America al prestigioso Ed Sullivan Show e furono il terzo gruppo italiano ad esibirsi alla TV americana dopo Nilla Pizzi e Domenico Modugno.
Nel 1975 Carosone prenderà parte a L’Ospite delle Due, il primo talk-show della televisione italiana ideato e condotto da Luciano Rispoli, in cui spiegherà i motivi del suo inatteso ritiro dalle scene, di cui diremo dopo.
Tra il 1954 e il 1958 furono incisi i Carosello Carosone, un serie di 7 dischi che raccoglievano tutti i maggiori successi che, prima il Trio e poi il Sestetto di Carosone, avevano collezionato in quegli anni, tra composizioni originali e rivisitazioni di brani già noti.
Tra le composizioni originali ricordiamo Maruzzella, La Pansè, T’è Piaciuta, ‘O Russo E ‘A Rossa, e Pianofortissimo, che metteva in chiara evidenza tutto il virtuosismo pianistico dovuto alla formazione classica di Renato.
Menzione a parte merita Tu Vuò Fà L’Americano, uno dei successi più conosciuti, nato dall’incontro casuale con il poeta Nicola Salerno, in arte Nisa, alla casa discografica Ricordi di cui fu tramite il discografico Mariano Rapetti, padre di quel Giulio divenuto poi famoso come Mogol. Salerno divenne un collaboratore assiduo e un altro degli elementi fondamentali del successo di Carosone. Del duo Nisa-Carosone Pigliate ‘Na Pastiglia e, nel 1957, Torero, che fu tradotta in diverse lingue e rimase per alcune settimane ai primi posti delle classifiche americane.
Tra le rivisitazioni ebbero grande successo Malafemmena, del grande Antonio De Curtis in arte Totò, Scapricciatiello, Anema e Core, La Donna Riccia di Domenico Modugno, ‘E Spingole Frangese, scritta da Salvatore Di Giacomo, Lazzarella e Io, Mammeta e Tu di Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno, magistralmente interpretata da Gegè Di Giacomo, Piccolissima serenata, ‘A sunnambula, ‘A casciaforte.
A cavallo tra i brani originali e quelli rivisitati ci furono poi delle composizioni “ispirate”, come Giuvanne Cu’ ‘A Chitarra, che altro non era che una scrittura, in chiave ironica e in dialetto napoletano, di una canzone ispirara a Johnny Guitar, successo d’oltreoceano. E ancora, a proposito della sua graffiante ironia, stravolse con il suo stile irriverente, E La Barca Tornò Sola, una canzone tristissima e struggente portata al successo a Sanremo da Gino Latilla, trasformandola, con la complicità dell’insostituibile Gegè Di Giacomo, in una irresistibile canzone comica. Anche Charlie Chaplin entrò nel mirino degli stravolgimenti di Carosone con un brano ispirato alla colonna sonora di Luci della ribalta che intitolò Eternamente, altrimenti conosciuto come Arlecchinata.
A un certo punto però, dopo aver creato una casa discografica con annesso un proprio studio di registrazione a Milano ed aver raggiunto l’apice del successo, avvenne un fatto inatteso: alla fine del 1959 Carosone annunciò pubblicamente la sua decisione di ritirarsi dalle scene. Completò i suoi impegni, fin verso la metà del 1960, e poi si ritirò con la moglie nei pressi di Bergamo dove fondò una piccola casa discografica, ma non smise di comporre canzoni con Nisa e si dedicò alla pittura, che era un’altra delle sue passioni.
Il suo affezionatissimo pubblico rimase profondamente dispiaciuto e deluso da questa decisione e dovettero passare ben quindici anni prima che Renato cedesse all’invito di Sergio Bernardini accettando una serata tutta dedicata a lui alla Bussola, con un’orchestra di diciannove musicisti, riprese televisive della Rai e registrazione in contemporanea di un nuovo disco “live”.
Nel corso della sua partecipazione a L’Ospite Delle Due, di Luciano Rispoli, Carosone spiegherà poi che, durante la sua permanenza in America alla fine degli anni ‘50, osservando l’andamento del mercato musicale, dei gusti del pubblico e l’anteprima della moda degli urlatori, aveva presagito come queste novità si sarebbero presto affermate anche in Italia. Avendo quindi lui già raggiunto l’apice del successo, prima di avviarsi sulla via del declino a causa del mutamento dei gusti e delle attenzioni del pubblico, gli era sembrato più dignitoso e appagante chiudere in bellezza abbandonando volontariamente le scene.
Ma il suo ritorno dimostrava la permanenza di uno zoccolo duro di ammiratori che, dopo essere rimasti orfani per anni della sua presenza, del suo stile e del suo humor, continuavano a seguirlo e a stimarlo.
Ci furono per Renato, seppure in tono minore rispetto agli anni d’oro, nuove canzoni, nuovi dischi, nuove tournée in Italia, in America, al Madison Square Garden di New York con il patrocinio di Adriano Aragozzini, in Sudamerica, in Canada, dove fu ospite dell’Orchestra Filarmonica di Toronto, una serie di ospitate, partecipazioni e collaborazioni in diverse trasmissioni televisive e una partecipazione nel 1989 al Festival di Sanremo con una canzone scritta per lui da Claudio Mattone, ‘Na Canzuncella Doce Doce.
Seguirono una mostra della sua pittura e, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, uno spettacolo in suo omaggio al Teatro Mercadante di Napoli, a cui Carosone partecipò attivamente dopo essersi ripreso da un lungo periodo di malattia dovuto ad un aneurisma celebrale. Ospite della serata arrivò direttamente dall’America, a suonare con Carosone ‘O Sole Mio e Tea For Two, nientemeno che il vibrafonista Lionel Hampton, anch’egli ormai ottantaseienne.
Nel 1996 Carosone ricevette il Premio Tenco quale riconoscimento per l’innovazione portata, grazie alla sua produzione musicale, alla canzone napoletana, e tenne un ultimo concerto pubblico a Piazza del Plebiscito, a Napoli, nel 1998.
Scrisse poi, assieme al giornalista Federico Vacalebre, Un Americano a Napoli, la propria autobiografia che pubblicò nel 2000.
Colpito da enfisema polmonare, il 20 maggio 2001, nella sua casa di Roma, Renato Carosone morì nel sonno, lasciando un grande vuoto ma, al tempo stesso, un segno indelebile nel panorama artistico della fine del ‘900, con la sua musica che riesce a mantenere la sua attualità pressoché intatta.
Per il lungo sodalizio artistico e per il profondo legame di amicizia che legò Carosone a Gegè Di Giacomo, protagonista a pari merito di tutti i successi degli anno d’oro, è d’obbligo ricordare che quest’ultimo, costretto su una sedia a rotelle, a causa del suo stato di salute precario, e colpito da profonda depressione, sebbene profondamente addolorato per la scomparsa di Renato, non poté partecipare ai funerali.
Gegè ricevette nel 2003 dalla Regione Campania il Premio Carosone e rimase a vivere nella sua modesta casa di via Poggioreale a Napoli fino alla sua morte, avvenuta l’1 aprile 2005, a ottantasette anni.
(Ph courtesy of Augusto De Luca)