Si puo’ ormai affermare con certezza che la rivoluzione ed evoluzione del rock alternativo dell’ultimo decennio stia anche nella riconquista delle radici, nel desiderio di folk, country e blues che permea non solo certo songwriting e “weird pop-rock” dei giorni nostri ma anche quelle che un tempo erano espressioni sonore piu’ estreme e sperimentali. Non e’ un caso, infatti, che alcuni dei dischi piu’ belli e dei progetti piu’ interessanti usciti nell’ultima decade abbiano fatto leva soprattutto su tali ingredienti ed elementi, inseguendo e rivoltando l’Old Time Music vuoi con l’elettronica, vuoi con ordinari armamentari elettrici e/o acustici. Tra coloro che gia’ battevano tali sentieri in tempi lontani e non sospetti (a cavallo tra gli ultimi carboni ardenti del “grunge” e le prime scintille del “post rock”) c’erano proprio i Red Red Meat di Chicago, band del cantante e polistrumentista Tim Rutili che nel 1998 diede vita ai Califone, “solo side-project” divenuto poi principale occupazione di Rutili e gruppo erede dei disciolti Red Red Meat. Destino vuole che passato e presente di Rutili e soci siano adesso sul mercato discografico uno accanto all’altro, avendo la Sub Pop ristampato la scorsa primavera Bunny Gets Paid, terzo album dei Red Red Meat, ed essendo stato appena pubblicato All My Friends Are Funeral Singers, ultimissimo nuovo lavoro dei Califone. L’occasione giusta per cogliere dalla stessa pianta sia le gemme che i deliziosi frutti di un caposaldo di quella scena indie rock che guarda sempre piu’ alla tradizione per poter produrre innovazione.
RED RED MEAT: Bunny Gets Paid (Deluxe Edition)
Sub Pop (2009) – distr. Audioglobe
Voto: 8/10
Pubblicato nel 1995, Bunny Gets Paid e’ fermamente considerato dai tipi della Sub Pop una delle punte di diamante del proprio catalogo. Cio’ spiega la speciale cura applicata a questa ristampa, che oltre a una versione rimasterizzata degli undici pezzi dell’album originale offre in un altro dischetto sette “bonus tracks” tra versioni remissate, demo e brani inediti provenienti dalle medesime session di registrazione. La formula sonora dei Red Red Meat (Tim Rutili, Tim Hurley, Ben Massarella e Brian Deck) si e’ gia’ affrancata dal vigoroso grunge-blues del primo omonimo album (Sub Pop, 1993) e dai fantasmi rollingstoniani era Exile On Main Street che infestavano l’acida paranoia del secondo Jimmywine Majestic (Sub Pop, 1994). In Bunny Gets Paid l’ossessione del blues e la venerazione del folk diventano una lisergica e narcolettica astrazione art rock, una via di mezzo tra la surreale concezione delle dodici battute della Magic Band di Captain Beefheart e la decadente spettralita’ rock dei Velvet Underground di Lou Reed. Il disco sembra prender forma e forza da un sublime equilibrio precario, dove il suono aguzzo e metallico delle corde di chitarra, la voce ubriaca e indolente e il timbro stesso della batteria hanno l’odore acre e amarognolo delle paludi e il colore bruno della ruggine. Rivoli di feedback e grumi di distorsione accompagnano una sfocata melodia di piano, un canto svogliato e una batteria al ralenti in quel deformante e acido capolavoro intitolato Sad Cadillac. Il bordone elettronico ma scheletrico e le pennate soporifere della slide guitar di Carpet Of Horses trasmettono un’intensita’ scovolgente, al limite della bassa fedelta’, Chain Chain Chain sembra rock-blues cucinato in salsa Nirvana, mentre le radici si mescolano a follia e cacofonia in Rosewood, Stax, Volts And Glitt. Non per nulla i Red Red Meat provengono da Chicago, nel loro sound il retaggio e lo spirito del blues (in tutte le sue chiavi e sfumature) sono chiarissimi, aggiornati e rivoltati con il linguaggio del rock piu’ adulto e creativo in quel momento in circolazione (vedi le bellissime Taxidermy Blues In Reverse e Idiot Sun). Tuttavia, e’ nei momenti piu’ sospesi e atmosferici che il gruppo da’ il meglio di se’, quando in ballate languide (Buttered), bradiposi numeri folk-rock (Oxtail) e mantra sperimentali in chiave post rock (Bunny Gets Paid) rivernicia le sonorita’ piu’ in bianco e nero della tradizione con accesi colori allucinogeni. Un disco memorabile ed esteticamente profetico di cio’ che sarebbe accaduto in seguito. Musica splendida, senza data di scadenza, resistentissima alle mode passeggere e all’usura del tempo.
CALIFONE: All My Friends Are Funeral Singers
Dead Oceans (2009) – distr. Goodfellas
Voto: 8/10
In natura come nella musica se le radici sono forti e profonde e’ difficile che la montagna frani a valle. Cio’ spiega perche’ la produzione discografica dei Califone abbia sempre mantenuto livelli di eccelenza artistica sopra la media, connotandosi come una proposta rock e dintorni duttile e originale, capace di traghettare tradizione blues e country-folk nel terzo millennio con tutto il loro splendore di eternita’, classicita’ e straordinaria attualita’. Radici, canoni e modelli che i Califone hanno saputo scardinare, sollecitare e reiventare con mezzi ed espedienti espressivi tra i piu’ vari (elettronica, rumore, ambient, cruda sperimentazione), senza mai smarrire la strada maestra che dalla melodia porta alle piu’ felici manifestazioni del songwriting e della forma-canzone. Con il nuovo All My Friends Are Funeral Singers pero’ i Califone (nella fattispecie Tim Rutili, assieme a Ben Massarella, Jim Becker, Joe Adamic e altri collaboratori) sono andati oltre, confezionando quello che non solo e’ uno dei loro migliori dischi sfornati negli ultimi anni ma anche la colonna sonora di un omonimo film scritto e diretto da Mr. Rutili in persona, con la partecipazione dell’attrice Angela Bettis in qualita’ di protagonista principale. L’insieme generale mostra una freschezza sperimentale di suono, melodia e ritmo davvero incredibile, mantenendo inalterate le peculiarita’ stilistiche a cui i Califone ci hanno finora abituato. La cura per il dettaglio e’ spinta all’eccesso, sottile e quasi maniacale, eppure nulla sembra ridondante. Rugosita’ e ruvidita’ timbriche (elettriche ed elettroniche) si sposano a meraviglia con toni e sovratroni, calcinacci di distorsioni e grumi di rumori, gamme ritmiche ordinarie, sfasate e deformate, nitidezze acustiche e interferenze d’ogni sorta, sorgendo da un arsenale strumentale eccezionalmente ampio e variegato (chitarra slide ed elettrica, basso e batteria, banjo, ukulele e mandolino, tromba e clarinetto, piano, laptop e sintetizzatori, oggetti domestici e field recordings, violino e violoncello, marimba e kalimba, vibrafono e xylofono, campane e percussioni). La voce narcotizzata e strascicata, languorosa e sommessa di Tim Rutili e’ il collante di tutto cio’, un registro tanto bello e versatile che dentro ci senti ugualmente l’epica virilita’ di Leadbelly e il vellutato disincanto moderno di Kurt Cobain. Il pezzo introduttivo, Giving Away The Bride, e’ un trip-folk-blues sciamanico e tribale, una lega sorda e gommosa di rumori e loop hi-tech, dove monotoni accordi di piano accendono luci cinematiche e avveniristiche su colpi di batteria e percussioni che lentamente arrivano sempre piu’ chiari e forti in primo piano. Polish Girsl parte come una ballata folk ma poi si muta in un affascinante numero di pop lisergico. 1928 e’ country-folk soporifero e crepuscolare, una melodia di chitarra acustica insaporita per accumulazione d’ogni sorta di strumenti ed effetti. Si arriva poi ad un altro capolavoro, Funeral Singers, vigorose pennate di chitarra acustica e banjo, voce e ritmo che s’impennano e crescono minuto dopo minuto per darci tutta la genuina potenza e maestosita’ del pop insita nel folk. Bunuel ha, al contrario, una struttura armonica piu’ old style disegnata da fliddle e chitarra acustica, slabbrata e sfregiata con acido elettrico di marca West Coast. Ape-like sembra un pezzo arrivato chissa’ come dai campi di cotone della Luisiana, abilmente screziato di rumori e liquide armonie di marimba. Dal pop-folk trasognato e psichedelico di Evidence (vicina al sentimentalismo ovattato di Neil Young) al sottile motivo acustico e jazzato di Alice Marble Grey il passo e’ breve mentre slide guitar, violini e banjo tempestano la vivace e ancestrale nenia campestre di Salt. Nella parte finale del disco dominano invece la nostalgica visionarita’ popedelica di Krill (dove la voce di Rutili si srotola sui deboli rintocchi di una mbira) e l’anima folk-blues di Better Angels, volta in un surreale raga “soul-rock” da falsetti vocali, marimba, fondali di tastiere e ronzanti feedback di chitarra. Quasi impossibile stancarsi e annoiarsi con un disco di tal fatta, perfetto e immenso prodotto double-face, degno di far vincere ai Califone anche un Oscar come migliore colonna sonora dell’anno.
Links:
Califone: www.califonemusic.com
Sub Pop: www.subpop.com
Dead Oceans: www.deadoceans.com