Petra Magoni è un’inesauribile miniera di idee. Istintiva, vulcanica, elegantemente ironica e provocatoria, conquista il pubblico che assiste ai concerti grazie alla sua sensualità timbrica, alla toccante e pervasiva gestione della dinamica, al pathos con cui fa salire vertiginosamente la febbre emozionale di coloro che godono delle sue interpretazioni. La cantante toscana, spassosa nell’empatizzare con gli ascoltatori attraverso una contagiosa umanità, è un’artista a tutto tondo di larghissime vedute, dalla magnetica presenza scenica che rappresenta una fra le sue maggiori virtù, qualità che la contraddistingue da trent’anni sui palchi di tutto il mondo. Venerdì 6 dicembre, presso la “Sala Maffeiana”, in occasione della stagione concertistica 2024-2025 organizzata dalla Società Amici della Musica di Verona, sarà accompagnata da Andrea Dindo, pianista di rara raffinatezza dall’eccellente preparazione tecnica e dalla spiccata sensibilità espressiva, nel progetto intitolato “Canzoni in Bianco e Nero”. Un caloroso tributo, questo, a tre giganti della musica: Kurt Weill, George Gershwin e Cole Porter.

 

PETRA MAGONI

“Canzoni in Bianco e Nero” è il titolo suggestivo del tuo progetto in duo con Andrea Dindo. Per definizione, questi due colori sono acromatici: il primo rappresenta principalmente la purezza, il secondo è sinonimo soprattutto di eleganza e fascino. Questi colori, tradotti in musica, sono riconducibili al mood dei brani presenti in repertorio?

“Canzoni in Bianco e Nero” mi è venuto in mente pensando al fatto che, nell’epoca in cui furono scritti quei brani, le immagini erano proprio in bianco e nero, così come le fotografie. Insomma, eravamo molto più abituati a questi due colori. Inoltre, il pianoforte ha i tasti bianchi e neri. Quindi, trattandosi di un duo con il pianista Andrea Dindo, ho pensato che “Canzoni in Bianco e Nero”, più che per i colori in sé, potesse avere un senso innanzitutto per il periodo da cui provengono; dove le immagini non erano a colori. Forse, in quei tempi, neanche la musica si riusciva a immaginare a colori.

A proposito di repertorio, questo progetto è improntato sulle composizioni di Kurt Weill, George Gershwin e Cole Porter. Sotto quale preciso aspetto senti di essere affine a queste tre figure iconiche?

Andrea Dindo e io partiamo da Kurt Weill proprio per il suo percorso artistico, che mi ha incuriosito molto e che probabilmente mi rappresenta. Lui cambiava stile compositivo in base all’ambiente in cui viveva, ma anche io amo adattare la vocalità a seconda del progetto in cui mi ritrovo in quel momento. Però, il fatto di modificare totalmente il modo di comporre è una cosa più unica che rara. Weill ha iniziato dal cabaret berlinese, poi a causa delle persecuzioni naziste si è trasferito per un breve periodo in Francia, successivamente a Londra fino a stabilirsi a New York, dove ha scritto dei veri e propri standard che lo accomunano a George Gershwin e Cole Porter. Dunque, l’associazione di idee è stata questa: partire da Kurt Weill per arrivare a Gershwin e Porter. Il musicista di origine tedesca era camaleontico, perché riusciva ad assorbire la musica e a farsi influenzare nella scrittura dei suoi brani proprio rispettivamente al luogo in cui viveva. Credo che questo non riesca a tutti. Anzi, probabilmente a nessuno.

Dal punto di vista stilistico e interpretativo, secondo quale idea sono stati rivisitati i brani di questi leggendari musicisti?

In realtà non ci sono dei grandissimi cambiamenti, perché Andrea Dindo è un pianista classico che legge le partiture. Alcune variazioni le apporto io, a cui lui si è abituato. Ma le prime volte si spaventava un po’ (ride, ndr). Quando ho cantato e suonato le corde direttamente nel pianoforte, lui si è fatto prendere dallo spavento (ride, ndr). La mia interpretazione la fornisco ovviamente seguendo i testi, ma è una mia interpretazione personale. Però, sotto l’aspetto pianistico e delle melodie, rimane tutto piuttosto fedele alle composizioni originali.

PETRA MAGONI
Petra Magoni – foto di Maurizio Sparesato

 

Andrea Dindo, pianista di classe cristallina proveniente dalla musica colta, è stilisticamente agli antipodi rispetto a te, almeno in teoria. Tu, a differenza sua, sei una musicista molto più poliedrica, senza alcuna preclusione di sorta verso altri generi. Fra te e lui vale il concetto degli opposti che si attraggono?

Faccio una piccola premessa: se non ci fosse stato il lockdown, il nostro primo concerto con questo progetto si sarebbe tenuto proprio in quel periodo. Poi, per ovvi motivi, quella data saltò. Da quel momento abbiamo iniziato a parlare, trovandoci d’accordo su tanti argomenti. Quindi è nata prima un’amicizia e una comunanza di vedute. Ad ogni modo, dipende sempre dai casi della vita, dagli incontri: se non avessi incontrato certi musicisti non avrei fatto quello che sto facendo adesso. Così come lui, che proviene da un percorso classico. Ma ora ha incontrato me, ed essendo persona e musicista estremamente intelligente, aperta, è diventato amico di Andrea Ra, un bassista punk; loro davvero virtualmente agli antipodi. In realtà scatta qualcosa che ti consente di sentirti più vicino rispetto a musicisti del tuo stesso stile. Certo, almeno all’inizio, ovviamente non è stato facile. Questo perché per me, a volte, era un po’ imbarazzante dargli dei suggerimenti, avendo davanti un maestro del suo livello, concertista di caratura nazionale e internazionale. Lui, al contrario, ha apprezzato molto soprattutto quando gli ho offerto degli spunti, piccoli accorgimenti che per chi lavora in ambito jazzistico o in contesti di musica improvvisata, come nel mio caso, sono logicamente normali. Lui reagiva sorprendendosi, stupendosi. Questo era molto bello. Adesso, proprio grazie alla sua intelligenza, siamo più in sintonia, ci capiamo meglio quando improvviso; ogni tanto si cimenta anche lui con qualche guizzo improvvisativo. Perciò, si diverte pure lui, perché non c’è tutta quella staticità tipica della musica colta. Una volta si arrotolò le maniche della camicia e disse: «come sono rock». Per lui essere «rock» significava già solo arrotolarsi le maniche della camicia.

Il duo, non soltanto quello con Andrea Dindo, è una dimensione che ti appartiene in modo particolare. Ma più in generale, qual è la caratteristica di questo tipo di formazione che ti affascina maggiormente?

Il duo mi piace perché è un dialogo. Se dialoghi con persone che la pensano esattamente come te, c’è poco da imparare, poco da dirsi. Magari dialogando con qualcuno, musicalmente parlando, lontano dal tuo pensiero, si riescono a trovare nuovi spunti; si cresce artisticamente e umanamente.

Oltre a essere colleghi, come hai già spiegato, tra lui e te c’è un sincero rapporto di amicizia che dura da tempo. Tu, per sentirti pienamente a tuo agio sul palco insieme a lui e, in genere assieme ad altri musicisti, ritieni che la simbiosi umana e artistica debba viaggiare necessariamente sulla stessa lunghezza d’onda?

Non potrei mai suonare con qualcuno per il quale provo antipatia, con cui ho litigato, con il quale non vado d’accordo. La musica si fa insieme. E per creare accordi non si può essere in disaccordo (sorride, ndr).

Venerdì 6 dicembre alle 20:30, presso la “Sala Maffeiana” di Verona, condividerai il palco proprio con Dindo per “Canzoni in Bianco e Nero”. Se volessi invitare al concerto anche coloro che non sono profondi conoscitori di Weill, Gershwin e Porter, cosa diresti per invogliarli a partecipare?

Proprio perché non conoscono questi grandi compositori, direi loro di venire al concerto. Questo perché è bello andare a vedere ciò che non si conosce. Pertanto li invito ad ascoltare, visto che sicuramente si tratta di bella musica.