PERE UBU
Carnival Of Souls
Fire Records
2014
Nonostante diversi titoli siano desunti dalla trama e dalle ambientazioni del cult movie, “Carnival Of Souls” è tutt’altro che un pedissequo omaggio in chiave di colonna sorona . Si tratta invece di una raccolta di canzoni e suoni che attingono dalla vena surrealmente eccentrica e poetica di Thomas, parole e idee musicali riorganizzate per dar vita a strutture crude e lancinanti, atmosfere inquietanti ed enigmatiche, interludi obliquamente visionari oppure liricamente sentimentali. Il risultato complessivo è molto più che soddisfacente, anzi verrebbe la tentazione di affermare che si tratti del miglior disco dei Pere Ubu ascoltato nell’ultimo decennio, quello che riporta il gruppo di Cleveland ai fasti di un discorso “avant rock” dai tratti ispidi e grotteschi, infettato da invenzioni acustiche, rumori elettrici ed effetti elettronici deviati e disturbanti, un processo dove fantasia e realtà, voce e parole raggiungono l’estasi perfetta nella loro concezione musicale.
Che il gruppo sia in palla lo si avverte chiaramente già in Golden Surf II, brano che apre una nuova “danza moderna” all’insegna di un motorik tremebondo segnato da basso e batteria, sibilante e tagliente nei giochi di theremin che si perdono tra i vortici dell’elettronica e dei sintetizzatori, un post-punk chitarristicamente sfrenato e ritmicamente tribale, un cortocircuito noise-pop-rock provocato da stop-and-go al cardiopalma, il tutto splendidamente telecomandato dall’isterico e allarmante falsetto di Thomas, incommensurabile come sempre a tirar fuori un duplice interprete dal corpo di un unico cantante.
Tra le tracce più astratte, claustrofobiche e atmosfericamente contorte, segnate anche dal cameristico magnetismo del clarinetto e da una tensione vocalmente psicodrammatica che a tratti rasenta la follia, troviamo a poca distanza l’una dall’altra Drag The River e Dr. Faustus, separate tra loro da quel bel capolavoro di “chamber pop” languidamente intriso di noir e rumore che risponde al titolo di Visions Of The Moon. E se Carnival sembra la versione spettrale di un brano che rasenta nel mood e nel timbro vocale lo stile di un Tom Waits postmodermo, Irene è invece una delle più toccanti “love song” e dolci ninnananne mai uscite dalla voce e dalla penna di Thomas, un pezzo che per la sua sospesa e onirica sperimentalità sarebbe piaciuto tantissimo al Lou Reed e al John Cale di “Songs For Drella”.
La varietà del disco riserva, tuttavia, ancora bei momenti, per esempio il cabaret rock affogato nel jazz di Road To Utah, che trova il suo vertice strumentale nelle spirali dell’organo e nelle irregolari evoluzioni del clarinetto, l’aspra e schizofrenica cantilena post-punk di Bus Station (che nel testo riutilizza qualche strofa di Irene) e in chiusura di programma i dodici minuti free art rock di Brother Ray, uno sciamanico distillato à la Captain Beefheart che conduce la tensione a culminare nel sinistro suono di catene striscianti prima del supplizio finale. In conclusione un album che conferma l’inscalfibilità di un mito dei nostri giorni e il suo euforico recupero creativo.
Voto: 7,5/10
Genere: Alternative Rock / New Wave / Art Rock / Post-Punk
Musicisti:
David Thomas – vocals, synthesizer
Keith Moliné – guitar
Robert Wheeler – synthesizers, theremin
Gagarin – electronics
Darryl Boon – clarinet
Michele Temple – bass
Steve Mehlman – drums, percussion, backing vocals
Brani:
01. Golden Surf II
02. Drag The River
03. Visions Of The Moon
04. Dr. Faustus
05. Bus Station
06. Road To Utah
07. Carnival
08. Irene
09. Brother Ray
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