PAT METHENY
From this Place
Nonesuch records
2020
Questo è peraltro annunciato nelle note come un “culmine” e un lavoro che si “attendeva da gran tempo di realizzare”, annotando quale ulteriore premessa e motivazione la presa di coscienza circa la deriva politica che il Paese aveva intrapreso con la “fiducia” verso la corrente amministrazione (in ciò preceduto da lavori tematici già realizzati da vari omologhi, tra cui i compagni di band Antonio Sanchez o Cuong Vu).
Già dal primo titolo Undefined America sembrerebbe riprendersi la tradizione “politica” dei titoli (fin dai tempi della popolare This is not America, passando per Is this America? all’indomani del devastante uragano Katrina), diversamente rappresentata, più avanti nella raccolta, dall’intimistica e spoglia The Past in Us. Tale introduzione strumentale, se si esplicita in forma sulle prime destrutturata, va poi aggregandosi con modalità ancora molto vicino a quanto si è costituito nei non sempre adamantini anni Geffen della produzione methenyana, particolarmente del Pat Metheny Group: e l’attuale controparte della band è soggetta a revisione profonda in termini di line-up, che conserva il batterista delle ultime fasi, ma la più stridente differenza (e ragione comparativa) viene sottolineata dall’evento cronologicamente corrispondente all’uscita del disco, ossia la recente scomparsa del tastierista Lyle Mays, il sodale verosimilmente più determinate ed influente nelle differenti fisionomie del gruppo (ed unico partner ad accompagnare Metheny nell’ibrida, preparatoria esperienza ECM “Watercolors”, o nel “debutto” alla corte di Joni Mitchell). Del polivalente fantasista di tastiere a arrangiamenti viene insomma definitivamente a mancare il peculiare colorismo (con tutte le possibili valutazioni di qualità) di una band ricostituitasi entro un sound complessivamente più “austero e concreto” già a partire dalla promettente svolta sancita dalla prima Unity Band (molto debitoria verso il talento solistico dell’allora solista di sax Chris Potter) orientata su morfologie più seriose e strettamente jazzistiche, ma che non ha mantenuto le ambizioni innovative per riportarsi oggi verso i più identificabili stilemi methenyani.
Solarizzazione e paesaggismo, come da tema, sono dunque più spettacolarmente rappresentati nella galoppante Everything Explained , che poco possiede di “epifanico” oltre al titolo, ed in cui ancora si stenta a ravvisare fermenti di novità, così come nella carnosa “materia” musicale di Same River, nell’agile passo di Pathmaker o nell’orchestrato intimismo di The Past in Us, in cui si mostra funzionale l’austera voce del pianoforte, in interplay con corde acustiche ed armonica, pervenendo verso il finale ad un momento di epidermico maggior pathos quale l’eponima From This Place in cui le voci, graziate da tiepido ruolo interpretativo, fanno giustizia dei falsetti della (nefasta) coppia Blamires-Ledford almeno per un’intensità non attinta dai vecchi vocalist del gruppo (avvicendati in varie fasi da più convincenti contributi di Pedro Aznar o Richard Bona), ma a tale momento non riusciamo a tributare un carattere molto diverso dalla retorica da commento sonoro della produzione hollywoodiana più rassicurante (ma era nelle premesse), palesando un complessivo bilancio blandamente enfatico e nuovamente estetizzante.
La prestazione di Pat Metheny non assurge a qualche inedita brillanza, persistendo nella medietà di quanto già palesato in precedenza e, quanto alla consensuale band, l’idioma a corde basse di Linda May Oh è scultoreo a sufficienza ma forse non possiede la completezza armonica ed il ruolo di determinante motore ritmico di Steve Rodby (ancora presente con ruolo di produttore), così come la grintosa e tellurica batteria di Antonio Sanchez non è connotata della leggerezza di tocco alla Danny Gottlieb, più idonea a conferire più ariosità a certi passaggi, rilevando dell’eccellente pianista britannico Gwilym Simcock l’efficace pertinenza di ruolo ma non la fluida dinamizzazione di sound e gli innesti di colore propri dello scomparso Mays, pur rilevando anche il limitato senso dei raffronti con il passato, essendo il profilo degli attuali comprimari adeguatamente solido, e funzionale ad un’operazione ben congegnata ma che manca nei fatti delle attese “mirabilia”; quanto all’orchestrazione, probabilmente intesa nell’immaginario USA come implementazione di soundscape (e conferimento di autorevolezza) nei fatti ne espande la quota retorica, e nella fruizione di Metheny, tutte le volte che questi sia cimentato con tale formula (in primis con “Secret Story”, sulla carta contributivo al grande filone “Americana”, nei fatti riccamente auto-referenziale) non diremmo che abbia attinto a importanti (o necessari) segni distintivi.
Alle fine dei giochi, sembra ulteriormente appannarsi la freschezza ed un po’ il nitore della fisionomia in musica del sempre popolarissimo e seguito Metheny, e non condotto a compimento quanto anticipato (e promesso) dalle note e, oltre a ridimensionarne la comoda indignazione ideologica (che la dice ulteriormente lunga circa il valore delle “fronde” global), se a questa nuova uscita proprio si voglia attribuire un ruolo diremmo che, più che da fluidificante, questa funga da “addensante” in testa alla sua già variegata discografia, stante la corposità del complessivo sound, come detto, ma ce ne tiene un po’ distante il generale sospetto che nei suoi ribaditi tópoi si faccia vettore di un trasversale americanismo di cui in atto non potremmo dichiararci del tutto estimatori né ancor meno tributari.
Musicisti:
Pat Metheny, chitarre
Gwilym Simcock, pianoforte
Antonio Sanchez, batteria
Linda May Han Oh, contrabbasso
con
Gregoire Maret, armonica
Luis Conte, percussioni
MeShell NdegeOcello, basso elettrico
Hollywood Studio Symphony Band & Orchestra
Brani:
01. America Undefined 13:22
02. Wide and Far 8:27
03. You Are 6:13
04. Same River 6:43
05. Pathmaker 8:19
06. The Past in Us 6:23
07. Everything Explained 6:52
08. From This Place 4:40
09. Sixty-Six 9:38
10. Love May Take Awhile 5:57
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