La sua tromba e la sua musica l’hanno reso un’icona del jazz italiano e internazionale. Alla testa del suo magico quintetto e sulla scorta di una quantità incredibile di progetti, incontri e collaborazioni Paolo Fresu celebra oggi trent’anni di successi e traguardi conseguiti in ambiti diversi che vanno dal jazz al cinema d’autore, dalla musica classica alla creazione e direzione di uno dei festival più importanti della sua amatissima Sardegna.
Paolo, ripercorriamo brevemente i primi passi della tua carriera. Hai iniziato con la banda del paese …
Sì, ho iniziato a undici anni con la banda del mio paese, a Berchidda, una banda con cui suono ancora oggi quando mi capita di ritornare. Dalla banda sono passato ai complessini che suonavano ai matrimoni e alle feste in giro per la Sardegna. Da lì è arrivato il jazz negli anni Settanta. Ho iniziato a inserirmi nella scena nel 1979 e a partire dal 1982 ero già musicista professionista. Avevo fatto un paio di seminari a Siena come allievo poi dal 1985 sono anch’io diventato docente negli stessi corsi. È stata una carriera abbastanza agevole e veloce. In quel periodo non c’erano molti trombettisti, a parte Rava, Valdambrini, Sergio Fanni, Nunzio Rotondo e qualche altro della vecchia generazione. Il nuovo era dato solo da giovani come me e Flavio Boltro. Quindi è stato un percorso neanche tanto difficoltoso, pensando anche che provenivo da un piccolo paese isolato della Sardegna. C’è stata tanta fortuna, ma anche tanta passione e volontà personale.
Stai festeggiando e celebrando il trentennale del tuo quintetto con un nuovo disco e un tour internazionale. Che ricordi hai dei primi momenti di quest’avventura e cosa, secondo te, rende questo progetto unico e ancora così speciale?
Trent’anni sono ovviamente tantissimi, credo che la nostra sia una delle formazioni più longeve del jazz europeo, o forse la più longeva in assoluto se consideriamo che dal 1984 siamo partiti io, Roberto, Attilio, Ettore e Tino e ancora adesso siamo gli stessi cinque che stasera suoneremo qui in Francia al festival di Vienne. Quindi è un compleanno molto importante, che reca con sé molti significati. Pensandoci bene riflette anche un po’ la parabola della mia carriera. Io trent’anni fa ho iniziato con loro e proseguo a suonarci pur tra i mille progetti diversi che ho e che mi tengono impegnato. L’ho sempre considerata una formazione importante, con una storia dietro. C’è stima, amicizia, molto rispetto, siamo cresciuti assieme praticamente. Io e Cipelli abbiamo fatto conoscenza a Siena nel 1982. Gli altri musicisti li abbiamo incontrati un po’ per caso e po’ per strada, come Tino Tracanna e Attilio Zanchi, che abbiamo incrociato in un Autogrill in autostrada. Con Fioravanti ci suonavo invece da po’ grazie a Paolo Damiani che ci aveva messo insieme nel quintetto con Gianluigi Trovesi e Giancarlo Schiaffini. All’epoca avevo voglia di mettere in piedi un gruppo a mio nome e suonare la mia musica anche se in realtà il gruppo è stato cofondato insieme a Roberto Cipelli. E dunque è nato il quintetto di Paolo Freso con l’idea di suonare composizioni originali e gli standard che amavamo. Il primo disco si chiamava “Ostinato” e tranne una versione di ‘Round About Midnight presentava già tutte composizioni nostre. Questo la dice lunga dell’idea che avevamo di gruppo, di lavorare su un progetto che fosse il più possibile articolato, di mettere, mattone su mattone, in piedi un grande edificio. Tutto considerato alla fine ci siamo riusciti, abbiamo fatto decine di dischi e girato il mondo, ma soprattutto continuiamo a suonare e ancora ci divertiamo molto. Credo che questa sia una cosa fondamentale. Probabilmente la prima pietra che abbiamo posato trent’anni fa l’abbiamo messa nel posto giusto, altrimenti, come spesso accade, quando le pietre non sono collocate a dovere, o non sono di materiale buono, il palazzo poi inevitabilmente crolla.
Quali sono gli album e le produzioni del quintetto che porti con te nel cuore e quali sono poi diventati dei best seller?
Mah, direi “Ostinato”, il nostro primo disco del 1985. È quello che ho ancora nel cuore. Non è certo quello che ha venduto tantissimo ma è stato il primo prodotto discografico a mio nome. Soprattutto la prima produzione per la Splasc(H), perché la nostra attività si divide tra la Splasc(H) fino al 1995, se non erro, e tra la produzione francese, prima con la Owl, poi con la BMG. In mezzo c’è stata la Blue Note e infine siamo passati alle pubblicazioni italiane con la Tuk Music, la mia etichetta. Credo che i best seller siano stati già alcuni Splasc(H), probabilmente “Ossi di seppia”, che era un disco in cui incontravamo anche Gianluigi Trovesi, un lavoro che ha funzionato molto bene e che ha aperto un’idea nuova all’interno del quintetto. Quello che ci ha dato più soddisfazione è invece un disco della Owl che si chiamava “Night On The City”, grazie al quale ho guadagnato il Django d’Or nel 1997 come miglior jazzista europeo, stranamente, perché fu registrato un po’ per scherzo. Eravamo riuniti per una session di registrazione. Dopo cena siano andati in studio, abbiamo aperto le piste e abbiamo iniziato a suonare senza fermarci e quindi è nato questo lavoro che era fresco forse proprio perché dietro non aveva nessuna idea o pretesa d’essere qualcosa di particolare. Hanno funzionato bene anche i due dischi che abbiamo fatto per la BMG. Il primo si chiamava “Wanderlust” e c’era dentro anche un musicista belga, Erwin Vann, il secondo, “Mélos”, era un disco di canzoni e di melodie dove suonavamo non solo standard ma anche brani di nostri colleghi come Enrico Rava, Aldo Romano, Peter Waters, Antonello Salis e così via. Poi direi anche alcuni dischi prodotti con la mia etichetta, come il doppio “Songlines / Night & Blue” – dove suoniamo tutti brani che hanno nel titolo la parola “night” e la parola “blue” – e anche quest’ultimo “i30!”, che sta andando bene sul mercato. Però ci sono anche dei lavori intermedi, tipo “7/8”, che era la colonna sonora di un film sul jazz e il fascismo, oppure delle collaborazioni, come quelle con Ivano Fossati e Ornella Vanoni. Ora che ci penso, aggiungerei anche il “Live in Montpellier” della Splasc(H), che nel 1990 mi fece guadagnare il primo posto nel Top Jazz come miglior musicista italiano, miglior disco e miglior gruppo. Diciamo che ogni disco ha comunque una sua storia, alcuni ci hanno dato grandi soddisfazioni in relazione al gradimento del pubblico mentre altri ci hanno procurato piaceri più personali dal punto di vista professionale e musicale.
Nel tuo modo di concepire la composizione e l’improvvisazione sembri attribuire molta importanza ai concetti del suono e del silenzio. Come commenteresti quest’impressione?
Sì, è esattamente così. Nel senso che io baso tutto il lavoro sul gruppo, sull’interplay, sulla nostra capacità di ascoltarci. Nella nostra musica ci sono molti spazi e dunque molti silenzi, ci sono anche momenti dove la musica si mostra con voce forte, però tutto procede con un andamento un po’ ondoso, con quest’idea di andare dal vuoto al pieno attraverso l’ascolto reciproco. Quando suoniamo dal vivo non stiliamo mai una scaletta, almeno da venticinque anni a questa parte. Saliamo sul palco, io inizio a suonare e gli altri seguono. Un po’ come faceva Miles Davis negli anni Cinquanta e Sessanta. Non inventiamo, pertanto, niente di nuovo. Per suonare bene e fare al meglio questo lavoro devi avere un’ottima conoscenza reciproca, molta stima e fiducia in chi ti suona accanto. Per questo io cerco di lavorare con lo stesso gruppo per molti anni. Solamente se c’è quest’idea la musica non conta più nel suo specifico genere. Non importa che si suoni un mio pezzo, o quello di un collega, uno standard jazz piuttosto che un brano pop. Quello che importa è “come” suoni quella cosa, e questo puoi farlo solamente se hai impostato un’idea di musica che fa sì che poi ci sia quella che in gergo chiamiamo “cifra stilistica”. I concetti di suono e silenzio restano per me fondamentali anche al di fuori del mio gruppo principale, sono i concetti che metto in atto quando suono con il Devil Quartet, oppure quando suono con Uri Caine o con qualsiasi altro. Il quintetto è stato comunque il primo laboratorio dove ho potuto sperimentare un po’ tutte queste cose, esplorarle e farle interagire. Perciò mi ritengo molto fortunato.
Dal punto di vista tecnico-strumentale, che tipo di peculiarità hanno per te la tromba, il flicorno o l’uso della sordina? Cosa ti induce a optare per uno strumento piuttosto che per un altro, ad alternare, cioè, questi modi espressivi?
Intanto partiamo col dire che sono tre strumenti completamente diversi. Forse non dico niente di nuovo, ma per me la tromba con la sordina è uno strumento completamente diverso. Ho studiato per mesi e mesi il suono di Miles cercando di avere quell’idea di suono. Pertanto le considero tre idee di suono molto differenti. Ciò che faccio con il flicorno non lo potrei fare con la tromba, mentre ciò che faccio con la tromba non lo potrei fare con la tromba e la sordina. Quindi scelgo, diciamo, rispetto al momento. In genere quando inizio a suonare un pezzo non decido preventivamente con quale strumento eseguirlo, piuttosto, a seconda dello strumento che prendo la musica va in una direzione piuttosto che in un’altra. Per esempio, non suonerei mai un pezzo velocissimo con la sordina. Con essa suonerei invece delle ballad o cose più rilassate. Con il flicorno spesso uso l’elettronica. Cioè, ogni strumento suggerisce, di fatto, il suo percorso. Però poi il percorso della musica è dettato dagli strumenti che hanno insita, dentro sé, una certa idea di suono, come dicevo prima. Come pure, quando uso l’elettronica non ho dei “preset”, dei classici pedalini con cui si preordinano gli effetti, mi piace invece molto usare lo strumento in modo imprevedibile. Gli strumenti sono come il guidatore che guida la macchina. La macchina può essere sempre la stessa, però a seconda del conducente può avere un modo di procedere differente e andare anche per strade diverse dal solito. In pratica potrei benissimo dire che utilizzo quattro strumenti: la tromba, il flicorno, la sordina e l’elettronica. Elettronica che considero un valore aggiunto importante e che penso ugualmente alla stregua di un altro strumento. Tutto ciò mi permette di avere una gamma di registri, timbri e colori molto ampia e di rendere la mia musica più ricca e più interessante.
(fine parte prima) …