Paolo Fiorentino, artista poliedrico e psicologo, porta in scena il 10 novembre a Napoli un inedito spettacolo di teatro-canzone in cui esplora i temi della libertà, dell’amore e della difficile ricerca della verità. “Sott’ ’a maschera”, in programma all’Auditorium Salvo d’Acquisto, in via Morghen 58 al Vomero, è un lavoro complesso e affascinante. Abbiamo parlato di questo e tanto altro con l’autore, disponibile e travolgente.
foto di BOSK
Partiamo dalla tua formazione musicale?
Per quanto mi riguarda credo sia riduttivo parlare di formazione musicale preferisco parlare di formazione artistica. Pertanto, diventare psicoterapeuta così come aver studiato filosofia, scenografia e drammaturgia ha influito sulla mia identità di musicista. Fare l’artista per me implica una formazione globale. L’arte è un rischio, ma anche un’opportunità di crescita esistenziale, se viene fatto un lavoro su di sé. Dedicarsi solo all’apprendimento di una pratica artistica trascurando la propria personalità non porta lontano.
Come psicoterapeuta ho avuto in terapia molti artisti, affermati e meno noti, scrittori, pittori, musicisti, attori, ballerini ecc. con in quali ho avuto un un’intesa immediata. Molti di loro, per quanto abili nella loro arte, si sentivano bloccati per questioni legate alla loro vita e non riuscivano ad usare l’arte come cura di sè. Non sapevano gestire la loro ‘musa’ ed erano travolti dall’angoscia. Non credo che l’arte debba essere vissuta come un tormento, un destino tragico come accadeva ai romantici o ai musicisti del club dei 27. Pensa ad Amy Winehouse grande cantante con una dote vocale strabiliante che alla fine ha scritto una canzone, Rehab, contro la comunità di riabilitazione che l’aveva accolta per curarla dalle dipendenze. Cosa è successo? Non ha trovato un ascolto nei professionisti che l’hanno accolta? Non ha voluto curarsi per paura di perdere la sua capacità creativa? Molti artisti la pensano in questa maniera. Si affezionano alla sofferenza la usano come carburante per poi rovinarsi la vita. Preferisco gli artisti che fanno dell’arte un momento di evoluzione della loro anima.
Comunque, scusa la digressione. Se vuoi sapere più semplicemente come ho imparato a suonare posso dirti che, come chitarrista, sono prevalentemente un autodidatta. Ho invece approfondito lo studio del canto e della vocalità. La mia prima maestra è stata Genny Sorrenti, voce e leader del gruppo progressive dei Saint Just, al quale in origine partecipava Bob Fix, oggi straordinario ingegnere del suono, che ha masterizzato i miei due dischi. Genny mi ha insegnato i rudimenti tecnici, la respirazione, l’impostazione del diaframma ecc. e lentamente mi ha introdotto al canto lirico che in seguito ho perfezionato.
Che rapporto c’è tra il (Paolo) musicista e lo psicologo? Quanto l’uno ispira (o limita) l’altro?
Sono sempre la stessa persona che vive linguaggi ed esperienze diverse. La psicoterapia è una scienza, ma è anche un’arte che non può essere standardizzata, perché ogni persona è unica e differente da un’altra; allo stesso modo la musica è una cura che produce effetti ansiolitici e antidepressivi. Ci sono studi che lo dimostrano ampiamente. Pensa alla musicoterapia o all’art therapy più in generale. Siamo abituati a immaginare le nostre vite come vite specializzate per raggiungere risultati competitivi e performanti in un ambito particolare. Non possiamo essere persone con più talenti, questo può confondere chi tende a farsi un’immagine stereotipata delle persone. Per me non è così. Ho una personalità eterogenea.
Ciò che tiene insieme, l’artista e il clinico nel mio mondo interno è l’amore per la conoscenza e l’interesse per gli altri. L’arte alimenta la mia pratica clinica e quest’ultima è fonte d’ispirazione soprattutto quando mi confronto con storie di persone che mi sembrano avere un valore quasi universale. Le persone hanno difficoltà ad accettare più aspetti di una persona ed anche io sono stato influenzato da questo pregiudizio. All’inizio è stato difficile mettere insieme queste due dimensioni che in realtà non sono state mai molto distanti. La psicoanalisi è una scienza ma allo stesso tempo e anche un’arte perché la cura non può essere standardizzata e manualizzata. Ogni persona è unica ci vuole una sensibilità estetica quando cerchi di curarla con l’ascolto e le parole. Non è possibile fare entrare in uno schema teorico o in una diagnosi la vita di una persona. Freud lo sapeva bene. A proposito dell’amore, per esempio, diceva: “Chiedetelo ai poeti” quasi a voler suggerire che la vita è un mistero che sfugge alla scienza. Freud parlava della psicoanalisi come una talking cure, ma in realtà non è solo un dialogo narrativo quello che accade tra paziente e psicoanalista.
Il fondamento della psicoanalisi così come della musica è l’ascolto. Ci sono studi che stanno andando in questa direzione in psicoanalisi e in altre forme di psicoterapia. Durante una conversazione terapeutica è necessario saper cogliere i ‘pensieri sonori’ che attraversano il campo relazionale. Se le parole dello psicoterapeuta non “suonano bene” se non ‘toccano emotivamente’ l’altro, la seduta rischia di diventare un chiacchierare a vuoto. Inoltre, bisogna avere un “terzo orecchio” per capire la canzone del paziente, quel ritornello emozionale che organizza il suo carattere.
Il tuo approccio alla musica è curativo, nel senso che serve a sollevarti dalle ansie della vita, o invece le tue composizioni nascono da un animo sereno e libero?
Comporre canzoni e scrivere di teatro, o fare psicoterapia, nasce da una esigenza profonda, dalle gioie e dai dolori della mia vita che sento il bisogno di condividere con gli altri. Quando la storia degli altri risuona con la mia nasce un cambiamento in me e negli altri. Non so spiegarlo bene. Tra arte e psicoterapia cambia il livello di responsabilità etica. Ripeto, per me le due dimensioni creano una sinergia creativa.
Ci racconti delle esperienze musicali trascorse dall’autoproduzione di “DeCantare” fino allo spettacolo “Sott’ ’a maschera”?
Il mio percorso come musicista è stato molto tortuoso, poiché sono molto critico ed esigente verso me stesso. Mi sono fermato a volte per molto tempo lungo la strada artistica attratto dalla vita o per questioni personali. Per quanto “DeCantare” fosse un disco molto apprezzato io sentivo che mancava qualcosa e non l’ho portato avanti. Molti colleghi musicisti e psicologi mi hanno rimproverato. Non dico che non abbiamo ragione, ma io avevo l’esigenza di maturare qualcosa in me. Oggi tutti vogliono visibilità immediata. Bene, io sono l’opposto, mi prendo tempo. Fare arte per me è un modo per approssimarmi alla verità e se l’opera per me non soddisfa questa esigenza, allora mi fermo. Tra questo disco è l’altro ho molto vissuto, ho fatto alcune esperienze con artisti di varia estrazione, finché non ho maturato una nuova visione della canzone anche se molti mi stanno dicendo che colgono una continuità tra il primo e il secondo disco. Questo mi fa molto piacere.
Com’è nata l’idea di questo spettacolo? Cosa ti ha spinto a portare “il teatro nella musica” e a “rappresentare” la tua musica rafforzandola con i visual?
La canzone è un medium fantastico che a volte può raggiungere livelli estetici alti, ma alcuni argomenti come la libertà, e in particolare quella che io chiamo la questione della “carcerazione psichica”, vale a dire di come le persone costruiscono le loro personali prigioni emotive ed esistenziali, richiedevano uno spazio di riflessione più ampio e per questo ho pensato all’inizio ad un musical il cui copione ho dato in lettura a Lello Arena e a Marisa Laurito. Persone disponibili e fantastiche. Con Marisa stavamo pensando di metterlo in scena al Trianon il teatro diretto da lei. Io vedevo lei nella parte di Lady Liberty, ma anche Francesco Cotticelli, un critico teatrale con il quale ne avevo parlato. Tuttavia, i costi del musical erano troppo alti per come avevo immaginato l’allestimento. Per questo abbiamo dovuto rimandare eravamo da poco usciti dalla pandemia e nessun produttore esecutivo voleva rischiare.
Questa volta, tuttavia, non avevo intenzione di fermarmi e da quel copione ho tratto un’egloga, un dialogo teatrale tra due personaggi ambientato in un universo sospeso tra la cultura barocca e il contemporaneo. E’ nato un altro progetto che nella forma è diverso dal musical e che s’ispira al Cantastorie di Ferdinando Russo e all’egloga La coppella di Giovanbattista Basile. S’ispira molto liberamente. Mi preme raccontare la collaborazione tra me e Salvatore Iermano che ha impersonato il pazzariello, è stato uno scambio artistico molto fertile. E’ un attore con grandi potenzialità espressive, in grado di passare dal tragico al comico con grande versatilità. Avrete modo di apprezzarlo. Per quanto riguarda i Visual, ho fatto un incontro fortunato con una pittrice che ha messo la sua ispirazione al servizio del mio lavoro, sia sviluppando l’immagine di copertina del disco che interpretando alcune canzoni con la sua “pittura in movimento”, come la chiamo io. Sto parlando di Giulia Ambriola un’artista romana con la quale abbiamo una buona intesa artistica.
Hai sempre scritto in napoletano o c’è stato un momento di passaggio tra la produzione italiana e quella “in lingua napoletana”?
In passato avevo scritto in napoletano, ma non ne ero del tutto convinto. Chi mi ha spinto a seguire questa strada e stato Roberto Vernetti, che ha intuito una qualità profonda nel mio modo di scrivere. Ha insistito fino a convincermi del tutto. E non mi pento affatto di questa scelta. Naturalmente nelle canzoni il mio napoletano è diverso da quello classico, che invece anche dal punto di vista lessicale è più presente nella parte teatrale dello spettacolo.
Mi sembra che “Sott’ ’a maschera” ti rappresenti in pieno: l’amore per Napoli e per New York, i temi della libertà, dell’amore, del disagio e della ricerca della verità. C’è tutto di te o manca qualcosa?
C’è sempre qualcosa che manca in un lavoro artistico, è impossibile rappresentare tutto, forse è possibile sognare di farlo, ma anche Michelangelo con il suo Mosè ad un certo punto scagliò il suo martello contro la statua esclamando: “perché non parli?”, mostrando una palese insoddisfazione. L’arte si approssima alla verità ma non può rappresentarla totalmente. Ogni opera è un passaggio non è mai un punto d’arrivo. Forse per Michelangelo sì! (ride)
Addentrandoci nello spettacolo, come nasce l’idea di far incontrare una figura iconica come il Pazzariello napoletano e un cantastorie del Seicento? E per quale esigenza? Cosa li lega?
Il pazzariello è la figura dell’imbonitore che emerge nella seconda metà del Settecento, ma per me è il diretto discendente del giullare di corte che troviamo nel XVII secolo dal quale proviene. Ho immaginato che una macchina del tempo avesse risvegliato lui e il suo padrone, un principe napoletano del Seicento scappato dal suo palazzo per fare il cantastorie. Entrambi sono ritornati dal passato per determinare il valore di questa nuova “poteca” della canzone la cui insegna è la Statua della Libertà che indossa la maschera di Pulcinella. Ho voluto mettere in contatto tradizione e contemporaneo, immagine e mito. La Statua della Libertà non rappresenta l’America. New york non è l’America. La statua rappresenta l’archetipo della Grande Madre e Xenia la dea dell’ospitalità e dell’accoglienza. Lady liberty non c’entra con Wall Street, il liberismo e il Vietnam va ben oltre l’americanismo. Lei è amata da tutti i popoli che soffrono di sradicamento culturale. Non ha niente a che vedere con la colonizzazione del mondo da parte dell’occidente.
A partire da questo incontro tra Pulcinella e Lady Liberty nascono alcune considerazioni sul mondo contemporaneo che i due personaggi fanno guardandolo dal passato. Mi preme ricordare che le riprese video sono state fatte nel complesso monumentale seicentesco di Santa Maria della Vita che ora ospita una struttura per senza tetto, homeless, diretto da Antonio Rulli. E’ una struttura incantevole che si trova nel quartiere Sanità, poco distante dal cimitero delle Fontanelle.
In generale, in che epoca è ambientata la narrazione?
E perché un’altra icona come la Statua della Libertà indossa la maschera di Pulcinella?
Molti mi hanno chiesto perché la Lady Liberty indossa la maschera di Pulcinella. Non mi va di dare una risposta chiusa. Il potere di questa immagine invita alla riflessione e sollecita associazioni inedite che lascio allo spettatore. Ho già detto molto. I personaggi sono del Seicento e vivono sospesi in quella dimensione temporale, ma conoscono la Napoli contemporanea e ne discutono.
Tanti nomi importanti hanno concorso alla realizzazione dello spettacolo (napoletani e non), a partire da Piero De Asmundis.
Piero De Asmundis è stato il produttore musicale del mio primo disco, è un caro amico che in questo nuovo lavoro ha svolto la direzione artistica dello spettacolo e ha avuto un ruolo fondamentale e autonomo nella post-produzione. Un musicista di grandi qualità che passa facilmente dal jazz alla canzone d’autore. E’ stato lui ad invitare Daniele Sepe nel mio primo disco in cui ha eseguito due assoli strepitosi in due miei brani L’uva che diventa vino e E’ dolce. Tuttavia, la produzione di “Sott’ ‘a maschera” è di Roberto Vernetti, che ha una lunga esperienza nazionale ed estera. E’ un innovatore nel campo del Sound Design e nel modo di concepire la produzione musicale. Non interviene se non per valorizzare ciò che l’autore ha composto. La produzione di molti artisti ormai noti come Elisa, Malika Ayane, Mahmood, Raiz, Teresa de Sio, Anna Oxa Raiz e tanti altri è stata sua. Ha vinto un David di Donatello come produttore della canzone Arrivederci amore ciao cantata da Caterina Caselli. Siamo diventati molto amici. Le nostre conversazioni telefoniche sono diventate così profonde da immaginare di scrivere un libro su arte, produzione musicale e psicoanalisi. Un libro che descrive la nostra collaborazione, ma che vuole far luce sul senso della creatività.
Però, non posso evitare di ricordare tra i miei amici e collaboratori Claudio Fagnani, esperto nella programmazione e indispensabile consulente musicale durante le fasi della preproduzione a cui spesso ho chiesto di registrare parti di piano e alcune di basso. Claudio è stato di grande aiuto nel lavoro che io e Roberto insieme a lui abbiamo portato avanti.
Chi non riuscisse a venire in teatro il 10 novembre a Napoli dove può ascoltare le nuove canzoni di Paolo Fiorentino?
Per ora solo in digitale sulle varie piattaforme, ma c’è la concreta possibilità che prendano presto la forma di un disco.