Si intitola “Solipsistic Horizon” e già da questo ci lascia prefigurare un lavoro non totalmente in mano al futuro, non in modo incondizionato quantomeno. L’orizzonte è governato da una politica che ci vuole solitari e perennemente connessi. Ma in realtà il nuovo disco degli Obici cerca di riferirsi più ad una condizione di intima solitudine, almeno per come l’ho letta. Ed è il suono in bilico tra punk, rock e vedute digitali decisamente industriali, a restituire a questo disco un fascino davvero interessante. E noi come sempre cerchiamo di indagare da vicino.
Parliamo di produzione: dal blues al rock passando per la psichedelia e il progressive. È un disco dalle mille facce… com’è stato progettato?
Per quanto riguarda la scrittura ci siamo lasciati andare alle tante contaminazioni diverse che abbiamo frequentato nella nostra carriera. Per quanto riguarda la produzione avevamo un’idea precisa di come doveva essere strutturato il pacco sonoro e devo dire che Mauro Andreolli ha colto questa idea e l’ha fatta evolvere. Il nostro suono è in gran parte fondato su basso e batteria, gli strumenti con cui sono state scritte, provate e registrate in diretta le basi delle canzoni. Sopra questo è stato ricamato il resto con molti strati sovrapposti. La voce e il testo sono stati collocate alla fine.
Nella produzione quanto avete lasciato all’improvvisazione?
L’improvvisazione c’è stata sicuramente per quanto riguarda alcune scelte legate ai suoni che sono stati realizzati al momento della registrazione e che onestamente non saprei nemmeno riprodurre. Per quanto riguarda la scrittura devo dire che, anche se parte tutto da un’improvvisazione, per arrivare al prodotto finito è servita anche molta razionalità e molto lavoro.
Parlando di strumenti? Ha molto il sapore di un suono analogico tutto questo… sbaglio?
Gli strumenti utilizzati e l’effettistica è tutta assolutamente analogica ed ogni suono che si sente parte da strumenti reali. Anche il pianoforte che si sente in Mount Howitzers, suonato dal nostro chitarrista live Andrea Villi, è un pianoforte a coda che poi è stato ripassato filtrandolo in effettistica analogica e riamplificato con amplificatori valvolari. Questa non è una scelta oltranzista, ma semplicemente una questione di gusto in quanto ritengo che il suono prodotto in questo modo abbia una propria vitalità che col digitale si fa fatica ad ottenere.
L’urbanizzazione spietata, il fallimento, la caduta… ma anche la rinascita e la scalata verso una consapevolezza. Che cosa c’è nel prossimo futuro?
Il titolo del disco parla di un presente di individualismo e di isolamento. Questo può esse inteso come distopico, ma non lo è. Chiaramente, nell’epoca della massima condivisione e connessione, ci ritroviamo in realtà sempre più soli e chiusi in noi stessi. Questo album però parla anche dell’opportunità di ritrovarsi come individui lavorando su sé stessi e della fatica che è necessaria per farlo. Nel futuro spero ci sia più consapevolezza individuale, quindi meno connessioni e più rapporti umani.