Pianista e compositore dalla mente elastica, energico, raffinato e particolarmente sensibile, Nico Morelli è un jazzista pugliese ma parigino d’adozione da circa 20 anni. Attraverso questa piacevole chiacchierata, ricca di contenuti, descrive la gestazione e il mood di “Unfolkettable Two”, sua creatura discografica per la quale sarà protagonista in un tour francese da venerdì 22 febbraio a venerdì primo marzo, ed esemplifica la sua visione della musica.
A quasi tre anni dall’uscita ufficiale, il tuo disco “Unfolkettable Two” continua a mietere successo in giro per l’Italia e l’Europa. Insieme a Barbara Eramo alla voce, Davide Berardi alla voce e alla chitarra, Raffaele Casarano al sax soprano, Camillo Pace al contrabbasso, Mimmo Campanale alla batteria e Vito De Lorenzi alle percussioni, hai dato vita a un album che rappresenta brillantemente l’idea di melting pot musicale, creando un singolare mélange di folk e jazz. Qual è il messaggio artistico e culturale che intendi divulgare attraverso questo tuo interessante progetto discografico?
Il messaggio artistico è quello di fondere due linguaggi diversi: quello del folk e del jazz, che detto così, in maniera semplicistica, significa poco. L’idea è quella di fare un esperimento. Spesso la musica è anche sperimentazione, non necessariamente qualcosa di compiuto. Recentemente ho letto una frase di Herbie Hancock che mi ha colpito da questo punto di vista, con la quale invita jazzisti, e non, a essere pionieri, a non limitarsi a suonare bene solo un unico stile, a copiare o a imitare. Sicuramente è bellissimo suonare alla perfezione, ma non è sufficiente. La mia ambizione, in qualche modo, è cercare appunto di essere pioniere, tentando di realizzare una fusione, per quanto improbabile, fra due generi diversi e tra due culture differenti, unire due storie dissimili come quella del jazz e del folk meridionale. Specialmente con i tempi che corrono, l’intento di aggregare le diversità, a mio avviso, inquadra bene il periodo che stiamo vivendo, in cui assistiamo al separatismo fra i popoli. Quindi, attraverso la musica, si riesce a trasmettere un messaggio di unificazione delle razze e del linguaggio, invece di dividere. Questo è il mio obiettivo principale: essere pionieri e unificare.
Come mai hai scelto di registrare “Unfolkettable Two” con un organico piuttosto nutrito formato da sette elementi?
In realtà il sogno di ogni musicista è registrare con un’orchestra sinfonica. Questo organico sembra nutrito, forse per i tempi attuali, ma al contrario è abbastanza ridotto. È pur vero che oggi, a causa dei costi dei concerti, si è costretti o si preferisce suonare in duo o in trio, ma il desiderio di tutti i musicisti è quello di avere a disposizione una formazione che sia parecchio ampia. Nel mio caso avevo bisogno di alcuni determinati colori, di voci, di un sax che interpretasse dei soli con un colore nuovo, così come vi era la necessità delle percussioni. Ecco perché ho scelto di incidere in settetto.
Di recente hai tenuto svariati concerti, nei quali hai proposto la musica presente in “Unfolkettable Two”, assieme a due strepitosi jazzisti statunitensi del calibro di Darryl Hall al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria. Questi due musicisti americani in che modo si sono calati nel mood di uno stilema che, quantomeno apparentemente, è parecchio distante dal loro universo musicale e precipuamente dal loro linguaggio?
Darryl Hall e Gregory Hutchinson sono due musicisti con la M maiuscola, e sapevo che non sarei rimasto deluso. Quando si parla di veri artisti non esistono più i generi. Sì, parliamo di jazz, ma questa parola non ha un vero significato. Entrambi hanno apprezzato enormemente l’idea di suonare un repertorio a loro poco consono, proprio perché questo era stimolante, piuttosto che ritrovarsi ad affrontare linguaggi già battuti. Ricordo che Greg (Hutchinson, ndr) l’ha vissuta come una sfida, perché per lui le melodie del folk pugliese sono molto affascinanti. Si sono impegnati moltissimo, addirittura Greg Hutchinson ha imparato i brani perfettamente a memoria. I concerti sono stati davvero entusiasmanti, per cui io sono contentissimo di questa collaborazione con loro, che certamente continuerà e darà dei frutti bellissimi.
Dal punto di vista strettamente stilistico, del sound e dell’arrangiamento, come e quanto cambiano i brani del tuo album eseguiti e interpretati con due jazzisti quali Hall e Hutchinson?
Con loro ho suonato alcuni brani di “Unfolkettable Two”, ma anche altri che non fanno parte del CD. Ovviamente il loro approccio è quello jazzistico più profondo, però è proprio questa la cosa bella: ascoltare delle melodie appartenenti al nostro Sud, così lontane dal jazz, intese con un imprinting di matrice jazzistica. Tutto ciò dà luogo a delle sonorità assolutamente originali, con il tipico tocco americano. Questa è stata la chiave di lettura che il contrabbassista e il batterista hanno voluto fornire, ed era proprio quello che io avevo in mente, ossia scardinare certi movimenti tipici del nostro folk o modificare alcuni atteggiamenti tipici del jazz per riproporli e interpretarli con questi nuovi colori, attraverso il modo di Darryl Hall e Gregory Hutchinson di concepire la musica. La bellezza è nel rimescolare le carte, nel rimuovere gli ingredienti tramite i musicisti con i quali si collabora in un progetto, dando vita a nuovi suoni. Non metto in dubbio che suonare jazz nelle intenzioni tradizionali sia bellissimo, perché è una maniera di vedere la musica, ma ci sono anche altri modi di vivere quest’arte.
Da venerdì 22 febbraio a venerdì 1 marzo sarai impegnato in un tour francese, con il tuo “Nico Morelli Italian Trio”, coadiuvato da Camillo Pace al contrabbasso e Mimmo Campanale alla batteria, nel quale proporrai “Unfolkettable Two” al pubblico transalpino. Credi che i jazzofili (e non) francesi saranno sorpresi da questo maliardo sincretismo incardinato su jazz e folk pugliese?
Il pubblico francese è affascinato da questi esperimenti rischiosi e da accostamenti di linguaggi diversi o di culture differenti, forse di più rispetto agli italiani. Io noto una grande curiosità nell’ascoltatore transalpino. Anzi, se proponi un repertorio di jazz classico con proprie composizioni, in stile prettamente americano, non suscita molto interesse. I francesi amano la novità, vogliono vedere un musicista che sia capace di prendersi dei rischi dal punto di vista compositivo e interpretativo. Il pubblico italiano, a volte, lo vedo meno propenso ad accettare commistioni fra generi distanti fra loro, perché si aspetta un concerto più prevedibile. In Francia c’è molta più attitudine ad essere sorpresi durante i live, poiché si preferisce ascoltare qualcosa di non già sentito. Chiaramente non posso generalizzare, ma la mia impressione è questa. Specialmente a Parigi vi sono diverse etnie, ecco perché, probabilmente, c’è una predisposizione diversa all’ascolto. La capitale transalpina pullula di gente che viene da tutte le parti del mondo, per cui, in Francia, si è maggiormente abituati a convivere con altre culture e linguaggi.