Il pianista partenopeo Michele Campanella e il sassofonista argentino Javier Girotto, ospiti del Pomigliano Jazz Festival 2014, daranno vita ad un incontro molto speciale: il progetto “Musique sans frontières”, dove affronteranno la musica di Claude Debussy e Maurice Ravel, due dei massimi esponenti dell’impressionismo musicale francese.
Abbiamo intervistato il Maestro Campanella, cercando di esplorare il suo universo musicale.
In occasione del Pomigliano Jazz Festival 2014, lei presenterà insieme al sassofonista argentino Javier Girotto, il progetto “Musique sans frontières”. Com’è nata questa idea?
Il progetto nasce da un’idea di Javier Girotto. Ci siamo incontrati in occasione di un mio concerto al Parco della Musica di Roma. Conoscevo Javier di nome, ma non lo avevo mai incontrato di persona. Mi ha espresso il desiderio di voler suonare con me, avvicinandosi alla musica classica senza toccarla e senza deformarla, attraverso un lavoro di improvvisazione. Naturalmente per me si è trattata di un’idea assolutamente nuova; non avevo mai pensato ad una cosa di questo genere. L’ho accolta con grande entusiasmo, nel senso che per me fare musica è comunque fare sperimentazione. Ci siamo incontrati e abbiamo cominciato a lavorare: abbiamo affrontato un territorio nuovo, e quindi ci siamo dovuti adattare l’uno all’altro. Abbiamo dovuto prendere le misure, capire cosa poteva fare lui sulla mia musica e cosa io potevo “concedergli”, perché in realtà io non faccio niente che non sia scritto. Viceversa lui è libero di improvvisare sulla musica, appunto senza toccarla. La scommessa è proprio questa: sovrascrivere la musica di Debussy e Ravel: qualcosa di talmente interessante da non far dimenticare l’originale, ma piuttosto aggiungere bellezza all’originale. E’ una grande sfida, ma non è una cosa così semplice.
Com’è maturata la scelta dei due musicisti francesi, Ravel e Debussy?
La scelta del repertorio su cui costruire il progetto è stata mia. Ci sono alcune musiche sulle quali non si può intervenire; non si possono sovrascrivere le composizioni di Beethoven o quelle di Chopin, non ha senso. Ci sono altre musiche che offrono spazi di intervento: musiche fatte più di colore che di melodia.
Ragionando in questo modo, ho formulato una serie di proposte a Javier, il quale anche per esclusione ha scelto i brani di Ravel e Debussy. C’è da dire poi che nessuno ha mai affrontato questi autori nel campo della musica jazz: molto spesso si affrontano Bach, Scarlatti, ma la musica barocca è completamente diversa. Un tipo di repertorio, quindi, assolutamente inedito per il jazz. Nella musica dei due autori francesi ho intercettato alcuni elementi ritmici e soprattutto armonici che permettono un intervento creativo.
Per me è come suonare nella mia normale attività; per Javier, invece, è sempre una scommessa. Ogni volta sono curioso di ascoltare cosa inventa; ogni volta è una creazione diversa, in linea con lo spirito del jazz.
E’ in preparazione un lavoro discografico del progetto? A quando l’uscita?
L’esibizione che si svolgerà per il Pomigliano Jazz Festival 2014, costituisce il battesimo del progetto; proseguiremo poi con altri concerti.
Il disco è già stato inciso e uscirà fra poche settimane per l’etichetta Cam Jazz; sono molto soddisfatto delle incisioni, anche se il lavoro discografico è completamente diverso dalle esibizioni dal vivo.
Qual è il suo rapporto con la musica jazz e più in generale con la musica improvvisata?
Sono d’accordo con il concetto di musica improvvisata: in realtà ormai identificare con precisione la musica jazz è cosa assai difficile.
Nutro profonda ammirazione per questo universo musicale: la mia formazione accademica di Conservatorio, risalente a circa 50 anni fa, era completamente lontana dall’ambito jazzistico. Oggi ci sono cattedre specifiche dedicate al jazz; all’epoca, parlare di questo tipo di musica era considerato “blasfemo”. Io improvvisavo, ma la mia era musica che somigliava più a Verdi che a Duke Ellington. Rimango sempre stupito, dalla fantasia, dalla bravura, dalla creatività dei musicisti jazz. Da parte mia, dunque, grande ammirazione, ma anche un certo senso di estraneità.
Che cos’è per lei l’interpretazione?
Una cosa difficilissima da spiegare, persino ai miei studenti. Spesso è difficile illustrare anche a chi suona lo spazio riservato alla libertà e quello riservato alla fedeltà. Ecco, libertà e fedeltà, sono due parole chiave.
La fedeltà, secondo me, quella che mi è stata insegnata da Vincenzo Vitale, fa parte di una tradizione ormai italiana: da Arturo Toscanini a Benedetti Michelangeli la fedeltà rispetto al testo, costituisce un punto fermo. Essere fedeli al testo, vuol dire limitarsi a quello che c’è scritto, ma la maggior parte non è scritto. Questo perché, da parte degli autori dell’epoca, e da parte dei compositori contemporanei, non era possibile e non è possibile scrivere tutto. Un esempio che può rappresentare bene il concetto è quello di alcuni termini, che sono pane quotidiano per i musicisti: forte e piano, allegro e adagio. Queste parole non significano niente, perché per una persona l’adagio è una cosa, per un’altra assume un significato diverso. Non è solo una questione di volume, non si tratta solo di velocità. E’ una cosa molto più sofisticata: in una partitura di Ferruccio Busoni esiste un forte dolce. Ecco, questa indicazione molto interessante, mi dice che il forte non deve essere inteso come forte nel senso di aggressivo, bensì può essere anche un forte pieno e dolce, in contrasto con quella che è la consuetudine. Nello stesso tempo il piano non deve essere molle, dolciastro, ma può essere un piano pieno di tensione. Le ho riportato questo esempio per dirle come l’interpretazione ha un margine enorme di discrezionalità, e nello stesso tempo però ha bisogno di punti di riferimento. Se si suona Beethoven si sa bene di non dover utilizzare gli stilemi ed il linguaggio che si riferiscono a Prokofiev o a Rachmaninov. C’è quindi un importante lavoro di approfondimento che dura tutta la vita, e nello stesso tempo c’è un grande spazio di creatività, sempre però rispettando il testo.
Lei ha più volte parlato del rapporto tra musicista e pubblico. Cosa si aspetta dal pubblico che ascolterà questo suo nuovo progetto?
E’ una bella domanda questa! In realtà non sappiamo ancora se questo progetto potrà essere proposto all’interno di stagioni di musica classica, oppure nell’ambito di festival jazz. Non ho un’idea ben chiara: glielo dico pieno di dubbi, pieno di incertezze. Da una parte il pubblico del jazz potrà rimanere sconcertato dai brani che andrò a suonare, perché non è abituato e quindi potrà stupirsi; dall’altra, proporre una cosa del genere all’interno di sale da concerto dove si esegue un repertorio “classico” potrà destare quanto meno incomprensione. Siamo quindi tra l’incudine e il martello. Non immagina quanto sia curioso di capire come sarà accolto il disco, e come andranno i concerti. Io mi aspetto di tutto: disprezzo, e al contempo entusiasmo; insomma reazioni molto contrastanti.
Come percepisce il panorama musicale italiano?
Ci sono delle cose estremamente contrastanti: c’è una nuova generazione di musicisti molto valida. Per anni sono stato uno dei più giovani pianisti italiani, e dietro di me c’era il vuoto. Oggi invece ci sono decine e decine di ottimi pianisti. Abbiamo avuto una generazione molto interessante; spero si possa andare avanti in questa direzione, anche se, secondo me, con la recente riforma dei Conservatori, si è commesso un grave errore. Gli allievi dei Conservatori non hanno abbastanza tempo per studiare il proprio strumento; questo perché hanno troppe altre materie su cui concentrarsi. Credo che questo errore verrà pagato molto duramente nel corso degli anni futuri.
L’Italia è un paese nel quale ci sono tante contraddizioni: un paese pieno di idee, pieno di persone di talento, ricchissimo di iniziative, che però continuamente affannano, perché ci sono delle realtà istituzionali vergognose, per cui chi lavora non sa neanche se avrà un aiuto dallo Stato, dalla Regione o dal Comune di riferimento. Lo saprà solo dopo aver finito il proprio lavoro. Questa incertezza ormai cronica, rende naturalmente la vita difficile per tutti, per chi suona, ma anche per chi organizza eventi, concerti.
Per questo motivo sono orgoglioso, da campano, di apprendere che Pomigliano Jazz sia considerato, pur tra tante difficoltà, una delle principali realtà jazzistiche del nostro paese.
Che progetti ha per il futuro?
Con Javier ci auguriamo di poter portare in giro il progetto “Musique sans frontiere” non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, soprattutto dopo l’uscita del disco.
Un altro progetto è quello in cui io dirigo l’orchestra dal pianoforte, con un repertorio mai eseguito in questo modo. Nello specifico, si tratta del “Concerto n.2 per piano e orchestra” di Brahms. Cosa che ho già sperimentato con l’Orchestra della Toscana e che realizzerò con altre orchestre.
Ho poi in programma un evento che coinvolge Moni Ovadia e l’attrice Anna Bonaiuto: una serata di melologhi, composizioni di Strauss e di Liszt, con testi recitati e commentati musicalmente al pianoforte. Una cosa molto particolare che si esegue spesso, ma mai a due voci. Per la prima volta, su mia proposta, questi testi saranno recitati non solo da una voce, ma in maniera più teatrale da due voci: una maschile e una femminile. Anche qui siamo di fronte ad un progetto di frontiera.
Michele Campanella e Javier Girotto
17 luglio 2014 – ore 21:00
Palazzo Mediceo – via Palazzo del Principe – Ottaviano