MULTIBOX | La fusion di Andrea Cappi in “Eleven Tokens”

Parliamo di fusion nel senso più romantico del termine più che cercando di aderire a stereotipi e genere discografici. Andrea Cappi pubblica il primo disco di questo gruppo riunitosi nella primavera del 2020, in piena pandemia. Sono i Multibox e questo è il loro primo disco davvero interessante dal titolo “Eleven Tokens” dentro cui si rendono protagonisti anche Emiliano Vernizzi al sax tenore ed effetti, Riccardo Cocetti alla batteria e Stefano Galassi al basso. Fusion dunque da intendersi come mescolanza, come incontro, come libertà espressiva che trova ampio spazio nelle lunghe improvvisazioni. E dalle matrici di funk, di pop e di rock alle più accurate soluzioni di jazz senza lasciar di conto quel suono sintetizzato che lo stesso Cappi mostra con leggerissima eleganza.

 

 

Parliamo di produzione. In questo mondo musicale che inevitabilmente ci viene da riassumere come “Jazz”, il live è tutto sin dalla ripresa dei suoni, vero? Come avete lavorato in questo tempo di restrizioni?

Come sappiamo in questo tempo di restrizioni è diventato sempre più difficile fare musica dal vivo. Già in epoca recente, precedente al covid, la situazione non era semplice e molti locali e contesti che proponevano musica “non mainstream” faticavano e vivevano grazie al supporto di pochi irriducibili consumatori e qualche ente “illuminato” che li sosteneva. Il covid ha semplicemente accelerato quello che era un trend già in corso. Penso che la cosa più importante sia il recupero del pubblico innanzitutto. Vista la scarsa attività della dimensione live, bisogna cercare di lavorare, come musicisti o docenti di musica, sull’offrire stimoli per l’ascolto e la ricerca musicale.

 

E parlando di live, l’improvvisazione che ruolo ha per te? Accogli quella che viene in sede di ripresa, oppure scegli su diverse take quella che al momento porta con se un valore più alto?

Normalmente facciamo 2-3 takes dello stesso brano e scegliamo la migliore. La discriminante per la scelta potrebbe non è essere quella riferita alla qualità degli assoli ma in generale a come suona complessivamente la traccia: esposizione del tema, dinamiche, interplay tra i musicisti e così via. In questo progetto l’improvvisazione è importante, ma non ha un ruolo predominante. Essa serve più che altro a creare momenti di libertà e sorpresa che interrompano i motivi esposti nelle parti scritte. Direi che vi sia una sorta di democrazia tra parti scritte, momenti di stasi con manipolazioni sonore e loop collettivi e parti improvvisate.

 

Beh vorrei restare su questo tema perché è assai dibattuto nel jazz. Improvvisare significa anche qualcosa che nasce al momento e che non deve essere violentato o amministrato da qualche decisione o scelta. Tu in generale come la vivi e che peso le dai?

L’improvvisazione nasce da una sintesi tra elementi studiati e assorbiti nel tempo e istintività creata sull’onda emozionale del momento. Ad esempio, il musicista che vuole improvvisare si allena spesso su frasi e cerca di esporle in tutte le tonalità e i modi possibili. Queste frasi possono avere peculiarità ritmiche, e quindi offrire elementi interessanti da quel punto di vista, oppure melodiche/liriche, oppure ancora riferirsi al linguaggio di un particolare musicista o genere musicale. É come avere di fronte un vocabolario e ogni giorno imparare una parola nuova. Alla fine, nel momento in cui si improvvisa si attinge da tutto questo materiale, per ognuno diverso a seconda delle proprie scelte/gusti, e si concateno le cellule studiate, un po’ muovendosi su canovacci preparati in precedenza e un po’ in maniera completamente estemporanea. Io sono sempre stato attratto da questo concetto, giocoso e al contempo coinvolgente, e dai musicisti che riescono a sublimarlo in maniera completamente naturale.

Belli i suoni di sax, più classici invece i tuoi suoni che sembri ricalcare le scene pacate di un certo Metheny, se mi permetti il paragone con le opportune differenze. Cosa mi dici?

Non so a quale album tu faccia riferimento nello specifico della grande discografia di Pat Metheny. Posso immaginare ad alcuni lavori del Pat Metheny Group, che ho ascoltato e apprezzato molto, come ad esempio “Offramp” o altri con formazioni diverse, come “Watercolors”, sempre con a fianco il pianista Lile Mays. Credo che, pur essendo il sound generale e la fusion di Metheny abbastanza lontana da noi, siano presenti nel nostro disco elementi strutturali e atmosfere “pop-rock” vicine ai lavori di questo grandissimo musicista.

 

E dunque: ispirazioni? A chi devi molto per la nascita di queste scritture? 

Negli ultimi tempi ho ascoltato tanta musica diversa, soprattutto appartenente al mondo della jazz e fusion contemporanea e della musica elettronica. Phronesis, Now vs Now, Reid Anderson, Hudson Mohawke, Aphex twin, Autechre per fare qualche nome… ma in generale è un disco che sintetizza implicitamente elementi assorbiti negli anni tramite l’esperienza live e compositiva all’interno di situazioni musicali anche molto distanti tra loro.