Titolo emblematico per raccontare l’esclusione tanto chiacchierata del cantautore calabrese Michelangelo Giordano dall’ultimo Festival di Sanremo nonostante i voti gli abbiano dato ragione. E dall’esclusione di certo non si resta immobili ed ecco la sua risposta, con un disco d’esordio che grida a quel ritorno alle origini e ai valori ormai perduti, quasi come fosse la sfida e la denuncia contro un sistema “corrotto” in varie forme, i molti aspetti e a tutti i livelli. Il disco si intitola “Le strade popolari” – manco a dirlo – un concentrato di folk popolare italiano che prende origine dal vissuto della provincia. In rete il video ufficiale del primo singolo estratto: “Chi bussa alla porta”. Ironico il punto di vista di Giordano sulla crisi che soffocano i giovani.
“Le strade popolari” quali sono secondo te? Le hai percorse?
Le strade popolari sono quelle della gente che lotta con coraggio, dignità ed onestà contro mille avversità; sono le strade di chi, oggi, deve arrivare a fatica a fine mese con mille euro o anche meno; sono quelle strade che ho percorso tra le vie di alcune terre abbandonate dalle istituzioni. Le strade popolari, però, sono sempre piene di sogni e di speranza.
Ultimamente c’è molta attenzione e ritorno alle origini e alle tradizioni. Il tuo disco lo fa a pieno. Secondo te per quale motivo?
Anche io ho notato questa tendenza ed è stata un’immensa gioia, quasi un premio alla mia caparbietà e spontaneità, perché quando è iniziata la produzione d questo progetto non ho voluto assolutamente scendere a patti con quelle che erano le esigenze e le richieste di mercato del momento. Credo che la gente abbia voglia di riscoprire le tradizioni per riassaporare il legame genuino con le proprie origini sbiadite da una selvaggia globalizzazione.
Secondo te è la musica che deve raggiungere il pubblico o il contrario?
Oggi c’è talmente tanta distrazione che rischia di passare inosservata anche una cosa estremamente interessante. Per esempio, Youtube è una grande risorsa per noi artisti, ma c’è talmente tanta carne sul fuoco che diventa quasi impossibile che il pubblico possa individuarti. Proprio per questo le strategie di marketing, oggi, si focalizzano sull’individuazione di un determinato target piuttosto che alla massa. Se sai a chi vuoi e puoi comunicare il tuo messaggio, forse è meglio provare a raggiungerli piuttosto che aspettare che bussino alla tua porta.
La tua scrittura accoglie anche molto dialetto. Un dialetto usato per sottolineare il concetto oppure è usato come – appunto – un tornare alle origini?
Non sono io che lo scelgo, ma è proprio il dialetto che s’impone su determinate melodie che compongo o su determinate tematiche che decido di trattare. Durante una composizione, mi capita ogni tanto di trovarmi ad un bivio, dove la scelta obbligata diventa quella del dialetto per dare maggiore chiarezza e sincerità al messaggio. E poi il dialetto ha una musicalità incredibile.
Nel brano “Lungo il cornicione” cerchi di raccontare il mondo che vedi appunto da un cornicione. Dunque: che mondo vedi?
Vedo un mondo un po’ affannato da una corsa frenetica e inarrestabile che rischia di travolgere, tralasciare e dimenticare le cose veramente importanti. Siamo sempre sotto pressione con una società che insegue una produzione sempre più elevata nella ricerca di una competitività che spesso poi risulta essere fallimentare. E in tutta questa frenesia si tende a perdere il rapporto umano, ci si dimentica spesso di un abbraccio, di una parola di conforto o di uno sguardo sincero. Ho voluto descrivere la mia visione da un cornicione perché questa condizione di costante precarietà, di equilibrio instabile a cui siamo sottoposti, mi ricorda proprio una camminata in bilico su un cornicione.
E da quel cornicione, secondo te, vedi un mondo capace di accogliere la musica di un esordio come può essere il tuo oppure è un tempo diverso questo in cui ci troviamo?
Dall’alto di quel cornicione, nella situazione attuale, c’è una concreta possibilità di cadere, ma farò di tutto per essere un bravo equilibrista.