Michel Petrucciani – Una meteora nella storia del jazz

Omaggio a Michel Petrucciani a 10 anni dalla scomparsa


Forse sara’ stata colpa della Natura, della cattiva sorte, forse qualcuno dira’ di Dio – creda pure ognuno come preferisce – ma, quel che e’ certo, e’ che, qualunque fosse la causa della sua malattia, raramente aveva prodotto effetti peggiori, mortificandolo – addirittura quasi sbeffeggiandolo – nella struttura fisica. Ma, per una specie di legge di compensazione, la stessa sorte lo aveva dotato con altrettanta generosita’ di grande talento ed intelligenza e di rara forza di spirito. Stiamo parlando di uno dei piu’ grandi geni mai esistiti del pianismo jazz: Michel Petrucciani.


Chi l’ha conosciuto afferma che era cordiale, spiritoso, ironico anche riguardo alle sue condizioni fisiche, ma determinato fino all’inverosimile: non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che per sua – ma paradossalmente anche “nostra” – fortuna capi’, e subito seppe accettare, come la sua vita fosse destinata ad essere una battaglia quotidiana contro la sua invalidita’, contro i giganti del mondo degli uomini “normali”, ostacoli che, come tali, andavano affrontati e vinti, laddove possibile, con intelligenza e determinazione, aggirando i condizionamenti.


“My philosophy” era solito ripetere “is to have a really good time and never to let anything stop me from doing what I want to do.” (La mia filosofia e’ avere le massime soddisfazioni e mai lasciare che qualcosa mi impedisca di fare cio’ che voglio fare.)


Mai rinunciare a nulla, quindi, che potesse esser fatto in qualche modo, nel miglior modo, anche se con difficolta’; le rinunce imposte dalla sua infermita’ sarebbero state ridotte al minimo. Solo in pochi casi, quando fu strettamente necessario dover scendere a compromessi, seppe farlo con la consueta intelligenza, adattando le circostanze alle proprie necessita’ per convivere nel miglior modo possibile con la realta’.


Fu cosi’ fin da quando, ancora bambino – aveva solo quattro anni – vedendo suonare in televisione Duke Ellington, aveva detto ai suoi: ” …anch’io vorrei suonare cosi’…”.


Successivamente chiese ai suoi genitori ed ottenne, in regalo per Natale, un pianoforte che pero’, forse per evitargli la frustrazione della sua inadeguatezza fisica rispetto ad uno strumento che sarebbe risultato ergonomicamente sproporzionato, fu scelto di dimensioni ridottissime, poco piu’ che un giocattolo: Michel, preso un martello, non esito’ a farlo in mille pezzi chiedendo di averne subito uno vero. E suo padre, vista la sua determinazione, lo accontento’. Tanto per rendere un’idea, un pianoforte era grande per lui quasi come un armadio a doppia stagione per chiunque altro. Enorme! E pochi avrebbero scommesso che “uno nelle sue condizioni” potesse dominarlo con una tale naturalezza e con tanta padronanza.


Di musica in genere, a casa sua, ne aveva respirata da sempre, fin da quando era nato nel 1962 ad Orange, in Francia, con la madre Anne, di origine inglese, ed il padre Antoine, detto “Tony”, valente chitarrista jazz, di origini italiane (il nonno era napoletano), ma con il suo nuovo pianoforte inizio’ un percorso di studi classici che pero’, presto, cominciarono a stargli stretti lasciando il posto al jazz.


E da qui prese il via il suo mito; le sue esibizioni, fin dalle prime, non avevano nulla da invidiare a quelle dei piu’ grandi. Certo, al suo piano il padre aveva fatto qualche modifica, delle prolunghe per permettergli di usare anche i pedali, ma la tastiera, lunghissima per le sue braccia, la raggiungeva tutta, seppure con rocamboleschi equilibrismi, a rischio di una rovinosa caduta dallo sgabello (talvolta si teneva alla tastiera con la mano sinistra pur di andare “oltre” con la destra), ma mai il suo tocco risulto’ approssimativo, limitato oppure imperfetto.


La malattia che minava le sue ossa, l’osteogenesi imperfetta, anche detta “malattia delle ossa di cristallo”, che impediva al suo corpo di svilupparsi normalmente, aveva forse miracolosamente risparmiato solo le sue dita, che erano sorprendentemente agili e capaci di abilita’ negate alla maggior parte degli altri comuni mortali. Ascoltandolo, chi non fosse a conoscenza delle sue condizioni, non avrebbe sospettato nulla del suo stato fisico.


Nella positivita’ della musica di Petrucciani c’e’ un prezioso esempio di attaccamento alla vita, un grande dono per tutti, fatto da un uomo che avrebbe avuto mille motivi e tutte le giustificazioni per essere in collera con il suo destino.


Il suo jazz, inizialmente ispirato ai grandi, Erroll Garner, Bill Evans e Duke Ellington, non ha mai trascurato la componente melodica, non ha mai concesso spazio ad eccessi, a virtuosismi gratuiti, a dissonanze graffianti, alla ricerca forsennata di accostamenti stupefacenti, improbabili nello stile o discutibili nel gusto.


Molti, affermano di non gradire la musica jazz, di non riuscire a comprenderla, talvolta – in presenza di alcune ricerche “rocambolesche” o di certi accostamenti “pindarici” – di esserne addirittura infastiditi. Ebbene, a queste persone, consiglierei di ascoltare la musica di Michel Petrucciani: piena, piana, colorata dal tono maggiore, ariosa e solare, piena di luce e di voglia di progredire, spesso punteggiata da quel pizzico di swing o di samba, che infonde una vena di allegria e distensione; un jazz che si lascia ascoltare con facilita’ e naturalezza, che penetra e si diffonde naturalmente, senza sforzo. E poi chiederei loro di rivedere il proprio giudizio sul jazz.


La carriera di Michel era iniziata quando, a soli tredici anni, aveva incontrato il grande trombettista Clark Terry, che era alla ricerca di un pianista. Terry era divertito dal fatto che un ragazzino, che per la sua statura sembrava ancora piu’ piccolo, si fosse proposto di suonare con lui: ma quando li senti’ accordare un blues, rimase di stucco e lo prese immediatamente a suonare con lui. Successivamente il famoso vibrafonista e batterista Kenny Clarke cercava un buon pianista e gli fu proposto Michel: con Clarke incise il suo primo disco.


Innumerevoli sono state poi le collaborazioni con i piu’ grandi personaggi del jazz contemporaneo. Si racconta che, quando – molto presto – divenne il leader dei gruppi che andavano via via formandosi attorno al suo pianismo ed ai suoi innumerevoli progetti musicali, fosse solito dividere i compensi in parti uguali tra i componenti del gruppo, fatto questo abbastanza inusuale negli ambienti musicali, dov’e’ usanza che il band-leader faccia la parte del leone.


Partecipo’ nel 1997 ai festeggiamenti che si tennero a Bologna in occasione del Congresso Eucaristico, dove ebbe l’opportunita’ di esibirsi alla presenza del Papa Giovanni Paolo II.


Pare che Michel, paradossalmente piccolo nel fisico quanto gigantesco nello spirito, nell’arte, nella determinazione e nella generosita’, sapesse che doveva fare tutto quanto possibile – ha inciso 34 dischi – in poco tempo: solo 36 anni, tanti la sorte gliene ha concessi, prima di potarcelo via per sempre il 6 gennaio 1999.


In occasione del decennale dalla sua scomparsa la Egea ha annunciato la ristampa, ad opera della Dreyfus, di due dei suoi capolavori, il Cd Trio in Tokio, con Anthony Jackson e Steve Gadd, e l’album Flamingo, con il grande violinista jazz Stephane Grappelli.


Puo’ sembrare paradossale, ma se per altri si usa l’aggettivo “grande” di lui bisogna dire “enorme”. Se la musica di altri si ascolta con piacere, la sua si impara spontaneamente a memoria; se la musica in genere puo’ dare qualcosa in piu’ alla vita, nella sua musica c’e’ anche una lezione di vita.


Se tanti grandi hanno consolidato la propria arte impiegando un’intera vita, quanto sarebbero ancora cresciute la musica e l’arte di Michel Petrucciani, se solo lui avesse potuto viverla tutta, la sua vita?


Video di Michel Petrucciani:


LITTLE PEACE IN C



SEPTEMBER 2ND



TAKE THE A TRAIN


YOU’VE GOT A FRIEND: Michel Petrucciani e Lucio Dalla


Foto di fonte web