È un disco analogico. È un disco registrato in presa diretta. È un disco nato dall’urgenza e dalla leggerezza, dal divertimento e dalla maschera tutta italiana che qui prende la scena, tra ironia e poesia. “L’estate spietata” di Matteo Bonechi come da titolo promette di raccontarci quel che siamo dentro il cemento delle nostre città deserte in agosto. Promette anche di farlo con quel pizzico di velenosa presa in giro che non deve offendere ma che, facendo il verso, sa farci vedere le cose come probabilmente ci erano sfuggite. Poi la dolcezza di uno shuffle, quel sapore alcolico alla Conte e pochissime altre cose… un disco come accadeva un tempo…

 

MATTEO BONECHI COVERParliamo di Jazz. Partiamo da qui: radici e classici da consultare prima di ascoltare questo disco?

Il cantautorato italiano in primis. Molto jazz, in secondo luogo, da Fats Waller ai grandi dello stride piano. Sicuramente Django Reinhardt. Qualche pillola di teatro canzone. Potrei continuare all’infinito.

E poi quel raffinato modo di tradurlo in chiave pop. Che alla fine succede questo… secondo te è uno sminuire l’eleganza del jazz o un arricchire quella del pop?

Quando si tratta di contaminazioni, le strade possono essere diverse a seconda dell’ascoltatore. C’è chi il jazz non lo digerisce, così come il pop. Bisognerebbe ogni tanto allentare questa necessità di definire i generi, anche se capisco faccia molto comodo come strumento di collocazione in generale. In una libreria disordinata non troveremmo mai quello che ci interessa, però forse il caso ci porterebbe verso una direzione che mai avremmo pensato di prendere.

E in tutto questo, quanto conta una figura come Paolo Conte per te?

È naturale che Conte abbia molta importanza, anche perché risulta uno dei pochi grandi ad aver tinto di jazz la canzone italiana dopo gli anni Settanta. Ci hanno provato in diversi, ma lui rimane un punto di riferimento insostituibile nel nostro panorama musicale: un autore che fa genere per conto suo. Tanto che risulta difficile, almeno per me, scrivere e arrangiare un pezzo con sonorità jazz che non richiami anche minimamente l’avvocato.

Disco analogico in tutto e per tutto oppure l’elettronica ha avuto il suo peso?

Il digitale ha sempre il suo peso, a meno che non si registri su nastro e si stampino vinili. Ma nessuno penso abbia le possibilità né la necessità di farlo. Diciamo che però per quanto riguarda le sessioni con la band, queste sono state registrate in presa diretta in tre giorni. Un paio di giorni per le voci e le pochissime sovraincisioni e poi missaggio e master. Non è stata solo una scelta artistica quella della presa diretta, ma anche una necessità logistica. In una settimana abbiamo prodotto il disco da zero.

Ho come l’impressione che sia un disco di passaggio… come a dire: mi divertiva e l’ho fatto. O sbaglio?

Sentivo il bisogno di provare a scavalcare le elucubrazioni delle pre-produzioni infinite che hanno caratterizzato i miei lavori precedenti. Tentare una via più rapida. Per questo ho avuto la fortuna di collaborare con dei musicisti di prim’ordine che hanno costruito intorno a “l’estate spietata” un universo che le sta a pennello, o almeno credo. Però sì, spero per il futuro di assaggiare nuovi e diversi registri.