Al centro della memoria, viaggiando nei suoi meandri per ricucire assieme la vita che accade attorno. “Diamo di vita” non è solo un disco, il nuovo disco di Massimo Priviero. È la celebrazione dell’uomo e del suo divenire, delle sue radici e del suo futuro. È un disco di resistenza e di speranza. Attorno a tutto questo, vive il grande bisogno di riconoscersi… ed il suo è un suono di folk e di rock che non si smentisce mai.
Un altro dipinto nostalgico di memoria e di futuro. Secondo te questo disco guarda al passato o al futuro?
Nostalgia è termine improprio e mi appartiene poco. Il termine giusto è “ricordo”. Un diario di vita è inevitabilmente segnato dal ricordo. Sono passaggi di esistenza. Sono foto. Sono piccoli film se vuoi. Passato e futuro si mescolano. Il nostro passato ci appartiene e segna il nostro presente iniziando a scrivere il nostro futuro.
E a tal proposito parliamo di produzione: non hai mai cercato strade rivolte sfacciatamente al futuro? Quindi nuove tecnologie o simili?
Uso la tecnologia che mi serve e che ritengo utile. Non esiste alcuna strada “sfacciatamente rivolta al futuro” ma ovvio che è solo una mia visione e una mia opinione. Non esiste moda, non esiste una direzione, non esiste modalità migliore o peggiore. Esisti tu e il tuo linguaggio, il tuo suono, la tua voce, a volte se ti riesce la tua poesia. Quel che si aggiunge sopra conta poco. E, tornando alla tua domanda, il futuro è spesso già ieri.
La dimensione del rock per te che significa e che posto occupa nella tua canzone? Perché io trovo che questo disco si apra con un brano decisamente rock… cosa ne pensi?
Il termine rock, tanto più se usato da solo, ha smesso di avere un senso almeno da trent’anni. Forse ci serve ancora per timbrare qualcosa. Ci semplifica anche e questo lo capisco. Per quel che mi riguarda l’ho sempre accompagnato alla parola autore. Diciamo rock d’autore. Questo detto in generale. Ma giusto, per me, più di tutto parlare di musica d’autore. Il resto viene dopo. Poi, restando al tuo gioco, se una canzone acustica di otto minuti con un finale orchestrale sia più “rock” di tanto altro più aderente a stilemi che appunto per comodità chiamiamo rock, sono anche d’accordo con te. Mi viene in mente quando anni fa un giornalista scrisse di una canzone mia che parlava di alpini italiani sul fronte russo in una guerra di settanta anni fa. Scrisse che era molto più “rock” di una foto fatta a degli sfigati in un bar. Mi colpì molto. Ma credo avesse parecchia ragione.
Esiste un momento preciso della tua vita che ha ispirato questo disco? Che lo ha richiesto, lo ha reso urgente?
È un album che girava in testa per molto tempo. Anche prima di altri. Una specie di autobiografia ma anche di biografia scattata ad una generazione che vive e ha vissuto in modo parallelo al mio. Il mio viaggio di vita tradotto con la musica comincia ad essere lungo e arriva il momento in cui il famoso e ipotetico cerchio si chiude, anche se forse sei tu che ti illudi di chiuderlo. Vale tutto. Ci sarebbe anche dell’altro da dire a questo riguardo, ma forse non è ancora il momento. Vivo da tempo in modo assai laterale rispetto a quel che accade nel mondo. Sono felice di questo, pur talvolta nella mia fragilità. La forza di vivere che c’è più o meno sempre in quel che scrivo si salva spesso proprio nel mio modo di stare al mondo parecchio in disparte. Nel senso che subisco il suono inutile di una radiolina commerciale solo quando vado a un supermercato a far la spesa. Che accendo una televisione in modo assai minimalista. Che mi servo dei social solo per comunicare a chi mi è vicino dove sono e quel che faccio. Prendili come degli esempi di un modo di stare al mondo naturalmente.
Lo riascolti mai? Che cosa ti dice oggi che l’hai portato a casa?
Tendo sempre a riascoltare quel che faccio solo a distanza di tempo e a mente più fredda ovviamente. Diciamo che tra un anno saprò rispondere meglio alla tua domanda. In caso, ti dirò con molto piacere come mi arriva.