In vista della sua partecipazione alla XIV edizione del Pomigliano Jazz Festival incontriamo Mario Raja, sassofonista, compositore, arrangiatore, ma soprattutto “direttore di orchestre”… napoletano di nascita, e’ uno dei musicisti piu’ attivi sulla scena nazionale proprio grazie al suo lavoro orchestrale.
S.C.: Al festival di Pomigliano ne dirigerai due. La tua storica Big Bang, che e’ stata una sorta di laboratorio permanente composto dai migliori musicisti italiani, una sorta di “nazionale” dei jazzisti italiani, potremmo dire, con la quale eseguite prevalentemente composizioni originali, anche tue e arrangiate da te. Poi dal 2006 rifondata con i migliori talenti romani e divenuta a tutti gli effetti una sorta di workshop permanente e con cui di recente ti sei dedicato alla musica di Stravinsky.
Che rapporto hai con questa orchestra e cosa si deve aspettare chi scegliera’ di seguirla in concerto?
M.R.: Big Bang e’ praticamente il mio “gruppo del cuore”. Ho formato l’orchestra nel 1988 con tutti i miei amici, che poi erano i migliori musicisti della scena nazionale. Nella prima formazione c’erano Danilo Rea, Roberto Gatto, Maurizio Giammarco, Enzo Pietropaoli, Pietro Tonolo, Danilo Terenzi, Roberto Rossi, Paolo Fresu, Marco Tamburini, Flavio Boltro, Marco Rinalduzzi, Giancarlo Maurino. Dopo poco tempo e’ entrato Piero Leveratto al posto di Pietropaoli e Fresu, che era gia’ impegnatissimo, ha lasciato. Ma bello e’ che sono riuscito a tenere in piedi questa formazione stellare per quasi vent’anni. Anzi l’orchestra dei “vecchi” diciamo che esiste ancora e col nome di “Reunion Big Bang” abbiamo fatto qualche concerto due anni fa.
In orchestra sono passati anche molti giovani all’epoca ancora poco o per niente conosciuti, ma la cui carriera e’ decollata da li’ a poco. Come Chiara Civello, Stefano Di Battista e Gabriele Mirabassi.
Il problema di quel gruppo era che ognuno abitava in citta’ diverse ed era difficile riunirsi per le prove. Anche se erano tutti veramente disponibili. Ricordo sedute di prove in cui la gente arrivava in treno o in nave e poi dormivano tutti accampati a casa mia…
L’orchestra attuale e’ nata, invece, dall’intenzione di avere un gruppo che provasse piu’ regolarmente. I “giovani talenti” romani sono ormai dei lanciatissimi padri di famiglia, come Daniele Tittarelli che suona ormai con tutti e che ricordo minorenne in un’orchestra che ho diretto in Val d’Aosta per un pò di anni.
Potendo provare abbiamo cominciato a lavorare su partiture complesse. Ho sempre adorato Stravinsky. Mi aveva poi colpito il racconto di Charles Mingus, che riferiva di una telefonata in cui Charlie Parker aveva improvvisato a lungo sul disco della “Berceuse” dall'”Uccello di Fuoco”.
Col tempo i pezzi di Stravinsky sono stati sempre piu’ manipolati e fatti nostri. Al punto di aver poi abbandonato l’dea di fare degli arrangiamenti e di aver costruito un repertorio di mie composizioni originali, alcune ispirate al mondo di Stravinsky, altre dalla pratica di insieme della band. Anche in previsione di una prossima registrazione per l’etichetta “Itinera”.
Chi vorra’ venire a sentirci sicuramente non si dovra’ aspettare una classica big band di jazz. A parte il repertorio, il gruppo oggi e’ caratterizzato dal suono di due chitarristi (uno rock e uno jazz) e da quello di Margherita Pace, cantante lirica straordinariamente flessibile.
S.C.: Nell’ambito dello stesso festival sara’ di scena anche l’Orchestra Napoletana del Jazz, di recente formazione, composta dai migliori musicisti campani e che dirigi dal 2006. E che in poco tempo e’ maturata davvero molto nel suono e nel collettivo. E immagino che sia tu che i tuoi musicisti abbiate piena consapevolezza di questa trasformazione.
M.R.: Mi pare proprio di si. Come dicevi prima sono napoletano di nascita. Per me l’esperienza con l’ONJ e’ una specie di ritorno a casa, una cosa che sentivo di dover fare da tempo. E sono io il primo a divertirmi per il fatto di essermi messo a risentire le canzoni classiche che mio padre adorava e che io avevo fuggito per ascoltare il bebop.
Nella band il clima e’ esilarante. C’e’ un’energia palpabile e un grande rispetto reciproco. E poi anche qui sono tutti vecchi amici, per cui ritrovarsi e’ come una festa.
Devo dire che la presenza di Onofrio Piccolo [direttore artistico del Pomigliano Jazz Festival, n.d.r.] dietro questo progetto e’ fondamentale. Far funzionare un’orchestra e’ sempre difficile, ma una di tutte stelle e’ straordinario. E poi con Onofrio discutiamo tutta la direzione artistica, dalla scelta dei pezzi a quella dei solisti. Il merito di questa operazione e’ in gran parte suo.
S.C.: Tra gli ospiti di quest’anno anche Joe Lovano con il quale hai collaborato proprio in ambito orchestrale. Come e’ nata la collaborazione con l’ONJ?
M.R.: Con Lovano sono amico dal 1982. Me lo aveva presentato a New York Mel Lewis, con cui avevo suonato in Italia. Allora lui si stava cominciando a far conoscere a livello internazionale ed era reduce dal primo tour mondiale con Paul Motian. In questi anni siamo rimasti in contatto e di solito quando e’ in Italia mi viene a trovare.
Nel 1996 abbiamo registrato il disco “Miss Etna”, in cui dirigo la veneziana “Keptorchestra“. E’ un disco di composizioni sue arrangiate per big band. Avevamo fatto un paio di concerti e prodotto il disco live.
Quando con Onofrio abbiamo discusso su un ospite internazionale per la serata finale di Pomigliano Jazz la scelta di Lovano e’ stata facile. Lui tiene molto alle sue origini italiane, alcuni anni fa ha inciso un disco dedicato a Caruso e alla musica napoletana. Gli faremo suonare qualche “standard” napoletano debitamente riarrangiato e anche le mie versioni della “Canzone di Zeza” e di “Tammurriata nera”
S.C.: Immagino che la tua scrittura debba tener conto della personalita’ dei musicisti che formano un’orchestra. Devi tenere bene in mente i pregi e le caratteristiche di ognuno nell’arrangiamento per far funzionare il complesso. Quanto e’ complicato tutto questo?
M.R.: Il mio “maestro” assoluto in questo e’ Duke Ellington. Un musicista che non finisce di sorprendermi anche se lo ascolto regolarmente da circa quarant’anni! Lui nelle partiture non scriveva il nome dello strumento, ma quello del musicista che lo suonava. E’ un’indicazione cosi’ semplice e cosi’ chiara che il minimo che si possa fare e’ seguirla.
E sei fai cosi’ tutto diventa semplice, e’ come se il musicista stesso ti suggerisca cosa vuole suonare.
S.C.: Questo lavoro, pero’, ti ha permesso di raggiungere una maturita’ e una consapevolezza dei tuoi mezzi notevole.
M.R.: In realta’ piu’ passa il tempo piu’ divento lento e autocritico. Alcuni anni fa arrivavo a scrivere anche tre arrangiamenti in un giorno. Oggi non sono mai contento, faccio un sacco di modifiche e ci metto decisamente piu’ tempo. Forse ho raggiunto una maggiore originalita’, ma a prezzo di un certo stress.
S.C.: Poi c’e’ l’estremo opposto, cioe’ il tuo amore per i piccoli ensemble, i duo e i trii. Mi viene in mente quello con Marvi La Spina che abbiamo sentito l’anno scorso ad Ischia e poi lo storico rapporto con Bruno Tommaso che con Napoli ha avuto una “relazione” intensa e ha lasciato un buon ricordo fondando qualche anno fa l’orchestra jazz del Conservatorio.
Cos’e’? un modo per rilassarti o per riflettere o per studiare soluzioni da riprendere con organici piu’ ampi?
M.R.: Il sax e’ il mio primo amore. Anche se scrivere e dirigere mi piace moltissimo non c’e’ niente di davvero emozionante come suonare. Da vari anni passo la maggior parte del mio tempo a scrivere musica, ma non posso rinunciare a studiare lo strumento tutti i giorni.
Bruno e’ stato il mio primo maestro. Andavo da lui a studiare teoria e armonia e mi ha sempre molto incoraggiato.
Il trio con Bruno e Marvi e’ una specie di gioco. Tre arrangiatori che suonano insieme in un gruppo sostanzialmente di improvvisazione. Adesso purtroppo Bruno non sta suonando per problemi di salute. Aspettando che torni a farlo suono in duo e anche col mio quartetto con la ritmica di Big Bang.