Marco Colonna è senza dubbio uno tra i più interessanti musicisti della sua generazione. Nato a Roma nel 1978, è attivo come polistrumentista, compositore, improvvisatore e scrittore ma in anni più recenti ha scelto di dedicarsi principalmente al clarinetto basso per esplorarne tutte le sfumature possibili ed indagarne le potenzialità ancora inespresse. Dal 2015 il suo nome ha iniziato a comparire nelle classifiche di fine anno dei media, nominato come uno tra i migliori suonatori di strumenti a fiato d’Italia. Dal 2017 appare nella top ten dei migliori musicisti jazz italiani e nel 2019 è al terzo posto, dietro nomi storici come Enrico Rava e Franco D’Andrea. Il suo nuovo progetto è New Ethic Society.
foto di copertina di Alessandro Carpentieri
Come nasce la New Ethic Society?
Il debutto, come New Ethic Society, è stato il 18 dicembre 2021 alla Casa del Jazz di Roma, dove abbiamo presentato questa suite per sestetto dedicata a Thomas Sankara, dal titolo Post Colonial Blues, appena pubblicata su Bandcamp. Il progetto ovviamente parte da prima, come dire, dal fare i conti con una progettualità che aveva bisogno di nuovi stimoli, quella di Noise of Trouble. Poi l’incontro con due giovani musicisti romani, e la conseguente volontà di aprire le porte della “famiglia”, ha dato il La, diciamo così, alla volontà di creare un progetto di più ampio respiro che si è concretizzato in questa suite per sestetto; adesso si sta ponendo il problema di essere catalizzatore di Comunità per diventare anche a livello progettuale una piattaforma di produzione artistica vera e propria, in cui compare anche il video, perché alcuni di noi si occupano anche di fare video produzione con Leg Video. E ci sono tanti lavori che comunque stanno per uscire; quello su Mingus è stato il primo ad essere pubblicato su Bandcamp; siamo tre del sestetto, io, Mario Cianca al basso e Cristian Lombardi alla batteria. A marzo partirà una rassegna, tutti i martedì, dentro gli spazi di Ibidem a Roma nella quale New Ethic Society sarà la base per degli incontri di musica improvvisata. Insomma, stiamo cominciando a costruire, a fare, a mettere l’energia in campo.
Questo vostro progetto nasce quindi da un’esigenza di trovare uno spazio che purtroppo in Italia per la vostra musica, per il tipo di musica che fate, è molto difficile?
Più che per trovare spazio, in realtà per costruirne uno. Questa è l’idea fondante. Prima di tutto uno spazio fra persone che si interroghino in maniera costruttiva sul lavoro comunitario, su differenti tipologie di produzione; e che portino avanti una riflessione sull’improvvisazione che non sia soltanto legata alla sperimentalità del linguaggio, ma che sia poi fondante di un metodo compositivo. Alla fine diventa anche una riflessione sulle possibilità di fare musica improvvisata, di fare musica d’arte improvvisando con l’obiettivo di mantenere alto sia il livello di comunicazione sia il livello di narrazione.
Creare uno spazio, soprattutto in una città, perché al di là di tutto, Roma è una città complessa e due anni di pandemia hanno completamente devastato gli spazi indipendenti, in cui un minimo di presenza di questa musica c’era. Quindi bisogna ricominciare un po’ da capo, bisogna un po’ guardarci in faccia e lavorare duramente, insomma, lavorare per cercare di creare un polo, quantomeno l’idea di uno spazio. Grazie all’aiuto di Ibidem abbiamo uno spazio anche fisico. L’idea è quella di documentare questi incontri, e di pianificare le relazioni, anche stimolare relazioni con il territorio, perché no poi allargarsi anche a livello nazionale.
Quindi in qualche modo l’idea è quella di creare dei momenti in cui si improvvisa e si compone insieme.
Gli incontri saranno gestiti da una persona che ogni volta raduna un gruppo con cui poi fa un set di improvvisazione e quindi propone un concerto il martedì. Quindi non una sessione di improvvisazione, ma proprio un lavoro di organizzazione di un ensemble e una proposta di un gruppo, che non esiste prima e che nasce per quell’occasione.
L’intento è quello, comunque, di documentare tutti questi incontri, per poi valutarne in qualche modo la diffusione, la pubblicazione?
Sì, diciamo che dal punto di vista audio la volontà è quella. Abbiamo aperto questa pagina Bandcamp dedicata alle produzioni musicali a cui si aggiunge un sito web in creazione più votato alle produzioni video. Il primo lavoro è quello del trio che ti ho detto, l’omaggio a Mingus, poi è stato pubblicato un duo mio, con un percussionista di Padova, Francesco Cigana, dal titolo “Shells”: è una registrazione di un anno fa, che era rimasta nel cassetto ma che entra nel progetto in maniera molto emblematica per il modo di improvvisare in maniera compositiva per cui, ci tenevo a farlo uscire all’interno di questo contenitore.
Il terzo, quello del sestetto dedicato a Thomas Sankara, è una forma ibrida fra composizione tradizionale e improvvisazione.
Sta per uscire con Edizioni Kappabit un lavoro molto impegnativo sull’improvvisazione, proprio come semantica, come significato e senso di narrazione. Inoltre, sta per uscire questo omaggio, molto lato a “Le città invisibili” di Calvino. Qui c’è un nonetto che ha registrato tutte le mie partiture grafiche, a cui si associa un testo proprio tecnico, analitico, sull’improvvisazione e si condivide un’intervista a tre musicisti. C’è un lavoro tecnico sulla registrazione, l’improvvisazione in più arti, fra cui la fotografia, con l’intervento anche di Luca D’Agostino e un intervento di improvvisazione in poesia di Lorenzo Mari. Questo è un momento in cui stanno germogliando molti semi che in questi due anni sono stati piantati. New Ethic Society è il “braccio armato”, cioè quel contenitore di esseri umani con cui si può prendere dello spazio, costruire delle relazioni e produrre progetti in una maniera che non sia occasionale, ma che abbia una visione un po’ più a lungo termine.
Questa esigenza che poi è sfociata in questo progetto, come dire, si è acuita, durante il periodo della pandemia, nel senso, se non ci fosse stata la pandemia sarebbe comunque nato? La pandemia ha accelerato in qualche modo i processi che erano già in nuce?
Accelerato non lo so. Molte realtà romane hanno provato a coordinarsi anche durante la pandemia. Io vivo abbastanza ai margini della realtà romana, perché poi non vivo in città, comunque la frequento relativamente poco, anche perchè da dicembre 2020 fino allo scorso giugno sono stato fuori per concerti, per master. Dal mio punto di vista, la pandemia non mi ha dato altro che una riflessione sulla condizione attuale di questo stato di cose. In più c’è il grave problema che la pandemia ha acuito alcune criticità del sistema, definiamolo lavorativo, legato a musicisti di una certa area, perché chiudendo tutti gli spazi indipendenti piccoli con cui comunque si erano create delle relazioni, spazi con cui io ho avuto a che fare negli ultimi 10 anni in maniera massiva con il mio lavoro. Ad un certo punto ci siamo ritrovati completamente scoperti anche dalla possibilità di immaginare dove andare a suonare. Questa cosa realisticamente è problematica, perché comunque le risorse per il Jazz, per la musica improvvisata, si sono addensate all’interno dei contenitori festivalieri che comunque sono contenitori che hanno a che fare con alcune visioni con cui non sempre si è in linea.
Un progetto del genere nasce con l’obiettivo primario di costruire un sistema di produzione indipendente e poi anche un sistema economico indipendente, per cui c’è la volontà di mettersi in relazione con altre realtà che spesso all’interno dell’ambito musicale vengono un po’ tenute lontane o comunque con cui è difficile interfacciarsi.
All’interno di New Ethic Society possiamo parlare anche di “Taliban – L’ombra dei suoi passi”, un progetto a sostegno dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane RAWA, nato all’indomani della presa di Kabul da parte dei talebani. SI tratta di una suite di musica scritta da me e poesie di Alberto Masala, tratte da un libro che lui aveva scritto vent’anni fa proprio per lo stesso motivo; è disponibile su Bandcamp.
Stessa cosa per “Post Colonial Blues”, dove c’è una relazione con la ONLUS “Si Può Fare”, che lavora in Burkina Faso. Cerchiamo di costruire relazioni con le associazioni che lottano, che lavorano in direzioni in qualche modo complementari alle nostre.
L’attitudine è quella di evadere dall’idea del business in quanto tale, per cercare comunque un atteggiamento etico profondo. Non a caso il gruppo si chiama New Ethic Society. Questa volontà è primaria e la pandemia non ha fatto altro che consegnarci l’idea di dover fare, perché non c’è più tempo per aspettare che qualcosa succeda. C’è bisogno di prendere in mano almeno la volontà di azione e rivendicare il diritto all’errore. Rivendicare la possibilità di fare delle cose che magari non portano grandi risultati o quantomeno portano a situazioni problematiche, ma che ci aiutino in qualche modo a trovare una direzione in questo ginepraio, dove le risorse stanno in mano a pochi, dove le direzioni artistiche non sono certo sensibili alle Musiche che comunque si pongono il problema di analizzare il reale in una maniera un po’ più profonda, quindi con risultati più conflittuali, anche dal punto di vista di ricezione da parte del pubblico. E’ una situazione enormemente complicata dal punto di vista di sopravvivenza di uno spirito artistico che si leghi anche all’etica, per cui l’unica possibilità che avevamo era costruire uno spazio con le nostre forze.
Certo, perché si è andata ormai consolidando l’idea che le arti, in questo caso la musica, debbano necessariamente essere consolatorie, non debbano essere scomode, non debbano porre domande, non debbano mettere in discussione la realtà che ci circonda.
Il discorso sulla funzione dell’arte è lungo, complesso, articolato, non è unidirezionale, nel senso che le grandi arti della fine ‘800 e gli inizi del ‘900 erano sicuramente arti di intrattenimento in qualche modo. Nel caso del Jazz, che è una forma incredibile d’arte nata nel ‘900, nasce come forma intrattenitoria in una prima fase, poi prende coscienza di sé e quindi comincia a portare al suo interno alcune istanze che erano più legate agli individui, in quanto membri di una comunità sociale.
È vero che quelle istanze sono state facilmente trasformate in stereotipi commerciali, per cui oggi abbiamo il pubblico di una certa avanguardia che è enormemente conservatore e difficilmente accetta istanze al di fuori di quel tipo di atteggiamento. Questo significa che è un pubblico non completamente cosciente. E quindi anche i musicisti vanno dietro a questo andazzo. Tutto questo sistema porta al consolidamento di alcuni fenomeni, diciamo linguistici, stereotipati e quindi poi uscire fuori da questi stereotipi diventa molto difficile, perché si va in un campo complicato, nel mettere in discussione tutto quanto. Io sono convinto che nell’improvvisazione ci siano le possibilità per scardinare tutto questo, e quindi questo è il mio ambito di competenza, soprattutto anche la mia visione artistica per questo momento; per quanto mi riguarda, è assolutamente un momento di enorme fertilità artistica, ma dall’altra parte anche un momento di forte confronto con la realtà che mi circonda, dove spesso e volentieri l’improvvisazione viene fraintesa e quindi non viene più utilizzata come metodo compositivo, ma come messa in scena di una sorta di libertà, cosa a cui io sinceramente non credo. E’ diventato sempre più complesso trovare uno spazio in cui ci si possa confrontare con degli elementi che non siano puramente letterari, di narrazione di una certo tipo di musica, ma ci si confronti anche dal punto di vista tecnico su alcune cose. Perché è importante, insomma, capire cosa stiamo facendo e perché lo stiamo facendo, come questa cosa abbia senso in questo contesto. Questo è il lavoro che si cerca di portare avanti col confronto, con la produzione, e anche l’errore, perché no, diventa un elemento di valore.
Poi sul discorso che il pubblico possa essere più o meno abituato a un’arte consolatoria, ovvio, l’arte è consolatoria, ma è consolatoria per il mercato, non per le persone. Per cui, insomma, è un cane che si morde la coda.
Perché hai scelto il repertorio di Mingus per il primo lavoro di New Ethic Society?
Io sono solito fare omaggi a delle figure iconiche nella storia del Jazz e non solo. Che poi per me vuol dire relazionarsi a dei materiali, perché sono convinto che la relazione con i materiali apre le possibilità metodologiche di azione su di essi. Per cui prima c’è stato “Minorance” dedicato a Fred Ho nel 2014, poi c’è stato “Dolphy Underlined” in duo con Alexander Hawkins. Poi c’è stato il solo “Offering” su Coltrane.
Mi stuzzicava l’idea di approcciare un materiale come quello mingusiano nel modo più lontano da quella che è la tradizione di interpretazione di quella musica.
Mingus me lo sento vicino dal punto di vista compositivo, semplicemente perché almeno nella sua prima fase, è molto legato alla scuola di Vienna, a Schoenberg, a una visione bella scura, insomma, della composizione, con queste armonie molto articolate, con tante voci. Inoltre, mi ha affascinato sempre la visione psicologica che Mingus ha dato di se stesso. Il centenario è stato l’abbrivio per fare questa cosa, per relazionarmi a quel materiale. In realtà non è un vero e proprio omaggio commemorativo ma è una riflessione molto profonda sulla sua musica; in aggiunta è stato un modo per agire in trio, come era da tempo che volevo fare, su piani differenti, con la batteria che non porta mai il tempo, ma costruisce spazi. La scelta dei pezzi è molto distante da quella mainstream, perché sono andato a cercare pezzi che mi stimolassero dal punto di vista dei materiali sui quali lavorare.
Poi, comunque, ci sono pezzi che suono da una vita come Goodbye Pork pie Hats o Eclipse per esempio, un brano che io adoro, che ho suonato in varie formazioni negli ultimi 15 anni. E’ stato un modo di guardare quel materiale in maniera sicuramente molto personale, che si lega al lavoro iniziato con Dolphy di destrutturazione di ri-immaginazione dei brani.
Alla fine la musica è la nostra, cioè la musica è sicuramente legata ad una metodologia di Improvvisazione che sta diventando sempre più chiara e definita dal punto di vista narrativo semantico in cui la relazione col materiale, è parte fondamentale di questo processo.
Io sono più incline verso i materiali di tipo folklorico perché mi interessano di più rispetto a quelli del repertorio prettamente jazzistico. In alcuni casi, come nel caso di Mingus, è enormemente stimolante, per cui è nato da qui.
Il lavoro non ha caso si intitola “A Portait of Mingus as a Man”, un ritratto di Mingus come uomo, non come musicista, perché era questo interessava veramente
Mi farebbe ora piacere che mi parlassi della tua dimensione solistica. Sulla tua pagina Bandcamp si possono ascoltare tante registrazioni in solo. Come nasce? l’hai sempre fatto oppure si è intensificato durante la pandemia per motivi oggettivi?
Ho iniziato a suonare in solo nel 2012. Non ho mai contato quanti concerti ho fatto in solo, diverse centinaia credo. E’ una progettualità che in qualche modo si è sedimentata da un primo lavoro che adesso non c’è più online, si chiama ”Genetical”, che era legato alla tesi di laurea di un collega, insomma di un amico. È stata una riflessione e una volontà di rimettere insieme dei pezzi, dopo esperienze abbastanza turbolente dell’esistenza ed è un progetto che è attivo sempre. Nel senso che il solo è una parte integrante del mio lavoro come musicista che si lega ad una formazione, almeno una parte della mia formazione basata su interpretazioni di composizioni di musica contemporanea in solo; per cui era come cercare di appropriarsi di quella dimensione attraverso la mia musica, la mia volontà di narrazione. Sono tanti i lavori in solo. Non c’è stata un’accelerazione nella pandemia. Anzi durante la pandemia a un certo punto ho iniziato a scrivere tanta musica per gruppi allargati, alla fine tutto questo lavoro è sfociato poi nel vinile di “Noise of Trouble” dedicato a Sepulveda, e nel lavoro “Attrezzi del mestiere” che è su Bandcamp. Scrivevo un brano e lo registravo ogni giorno, questo è successo per mesi, quindi era una questione di lavoro. Ho scritto quaderni, quadernoni interi di musica, dal duo al nonetto di fiati. Il solo per me è pratica proprio, un metodo, come un’arte marziale, in qualche modo.
Potremmo definirla in qualche modo, una pratica meditativa, nel senso proprio di rapporto con te stesso?
Assolutamente sì. Ed è una pratica difficile da portare dal vivo, ma che per mia fortuna sono riuscito a praticare abbastanza. Ho fatto tanti concerti, anche l’estate scorsa è stata molto positiva da questo punto di vista, in spazi molto belli, tante chiese, grandi basiliche, ma anche spazi industriali, una fabbrica di birra, ad esempio. La mia pratica concertistica è legata a un lavoro che si chiama “Fili”, dedicato a Maria Lai, perché dal punto di vista artistico trovo molto importante il lavoro di Maria Lai, esemplare nell’utilizzo di materiali i più vari possibili nella creazione di forme narrative personali. Perché è un po’ quello che fa un improvvisatore, per cui tendenzialmente molto si lega a quello.
Adesso ho fatto un lavoro di riflessione sugli standard, “Mnemonica”, come mio solito, un lavoro molto meditativo di utilizzo di questi materiali che è anche una pratica che per me è documentale di un lavoro che ormai è più che ventennale. Uso Bandcamp, il mio personale non come un’etichetta, ma come una serie di appunti lasciati lì. E rivendico anche questo, cioè mi piace l’idea di lasciare dei segnali di un percorso, oltre il fatto che comunque dal punto di vista dell’indipendenza produttiva, comunque Bandcamp è una possibilità di rapporto anche economico con chi ti vuole sostenere, per cui è assolutamente funzionale da questo punto di vista, ed è l’unica piattaforma che si è posta il problema di essere solidale con gli artisti, rinunciando alla sua percentuale una volta al mese.
Una volta a settimana veramente all’inizio, poi è diventato una volta al mese e poi comunque una parte dei soldi delle loro percentuali sono andate a finire per le spese legali del Black Lives Matter.
All’interno di questo sistema è la cosa più accettabile. Sicuramente non lo è Spotify e tutte le piattaforme che su abbonamento fanno questo tipo di discorso, perché i musicisti non percepiscono nulla. Le persone non ti seguono, ma cliccano e basta. invece su Bandcamp c’è la speranza che qualcuno ascolti un disco per intero. Io per curiosità vado a verificare e le persone lo fanno.
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