MARCELLO GIANNINI | Combattimenti di note in chiave funk

Sono uno dei gruppi più interessanti nella scena musicale campana. Mescolano jazz, rock e musica etnica e si divertono a improvvisare in lunghe e “combattute” suite. Il tutto senza perdere di vista le proprie radici. Marcello Giannini presenta gli SLIVOVITZ.

Tornate al Teano Jazz Festival dopo esserci quasi nati. Era il 2006 quando avete vinto il Teano Jazz Factory. Come avete vissuto allora quella esperienza e con che spirito ci tornate ora?
Quella esperienza fu molto importante per noi, eravamo in fase di crescita e alla ricerca di conferme, e vincere quel concorso ci ha motivato a perseverare nel nostro cammino.
Tornare dopo tanti anni al Teano Jazz significa per noi raccogliere i frutti di 8 anni di attività e suonare con una maturità sicuramente diversa.
 

Vorrei che ci parlassi di come si è evoluta la vostra musica attraverso le varie produzioni discografiche.Il primo disco è certamente quello più immediato, quello in cui avete messo in campo tutte le esperienze maturale fin dalla vostra costituzione.Con “Hubris” nascono probabilmente i “moderni” Slivovitz. Vi sono diversi elementi molto significativi. A partire dalla pubblicazione per un’etichetta molto attenta al fenomeno jazz-rock degli anni Settanta; il nome dell’album che rimanda ad una volontà nemmeno tanto celata di volersi misurare alla pari con i grandi maestri, da Zorn a Davis, dagli Area ai Perigeo, dagli Osanna a Napoli Centrale.
La nostra musica è sempre stato un miscuglio di tutti i nostri ascolti musicali, direi che musicalmente siamo onnivori, e all’inizio si sentiva maggiormente questa attitudine.
Non ci ponevamo il problema dello stile o del genere, mettevamo ogni influenza possibile nelle nostre composizioni e ovviamente la musica che ne usciva era più diretta, meno pensata, sicuramente più “leggera”.
Crescendo e studiando ci siamo appassionati più al jazz, al rock e alla musica etnica, senza però mai perdere di vista la nostra passione comune che è la musica funk. Sono convinto che in qualsiasi nostra composizione (o almeno la maggior parte) si senta questa spinta funk, che è un po’ il nostro marchio di fabbrica.
In “Hubris” si sente chiaramente questo cambio di stile e questa vena jazz-rock più marcata e fortunatamente proprio in quel periodo abbiamo conosciuto Leonardo Pavkovic dell’etichetta Moonjune di Newyork, che ci ha scoperti per caso su internet e che da “Hubris” in poi ci ha dato un’enorme mano in termini di visibilità.

L’uso della voce, poi abbandonato nel disco successivo, richiama fortemente proprio Napoli Centrale (penso al pezzo STRESS che sembra nella scia di James Senese).
La nostra passione per il funk o in generale per quel genere alla Napoli Centrale è sempre viva (ci siamo cresciuti con quella musica ) e per noi è un territorio molto divertente su cui lavorare. I pezzi cantati sono un modo per “alleggerire” il nostro lato più “pesante”, quello delle grandi suite, dei pezzi con strutture molto lunghe e articolate. Un modo per ritornare con i piedi per terra e suonare musica più semplice, per non rinnegare le nostre radici (Senese, Sepe, Bisca, 99 Posse e tanti altri).

“Bani Ahead” ha un respiro ancora più internazionale. Una sorta di allontanamento dalle origini. Un suono fortemente europeo che sembra quasi “polemico” nei confronti dell’Italia e di Napoli in particolare.
“Bani ahead” è un pò la sintesi dei primi due lavori: rimane vivo il jazz-rock e l’etnico, ma si sente una nuova ricerca nel rock sperimentale e nella musica free. La voglia di allontanarci da quel suono “napoletano” è stato abbastanza naturale. Io personalmente mi sono confrontato, sia studiandoci che ascoltandoli, con artisti come Tim Berne, Marc Ducret e quella scena europea più sperimentale dell’improvvisazione, però parallelamente ho approfondito il rock classico e quello attuale che da sempre amo.
Questo per quanto riguarda le mie composizioni. Quelle del sassofonista Pietro Santangelo, ad esempio, sono più collegate con i nostri lavori passati, ma con approccio sempre più maturo e direi sempre più zappiano.

Più che il Progressive Rock l’elemento che meglio vi contraddistingue è l’improvvisazione totale. Sembra quella la cosa più stimolante, ispiratrice della vostra volontà di suonare insieme. Musicisti di estrazione e gusti comunque diversi si ritrovano grazie all’improvvisazione. Come la coltivate e soprattutto come la gestite sul palco. Chi la “dirige”?
L’improvvisazione è sempre stata importantissima per noi, perchè scrivendo pezzi molto strutturati dopo un po’ è noioso eseguire le parti sempre nello stesso modo e quindi sfruttiamo l’improvvisazione per uscire e rientrare nelle strutture e divertirci. Tutti sono protagonisti di questo processo che a volte ci si riesce a volte no. Ma questo è il rischio dell’improvvisazione.

Chi sono oggi le vostre fonti di ispirazione?
Come ti ho già detto siamo onnivori musicalmente, ascoltiamo centinaia di dischi dal jazz al pop, all’elettronica, improvvisazione radicale, rock’n’roll, hardcore, punk, etnica, dixieland.

E’ in uscita un quarto lavoro… o sbaglio? Diteci tutto…
Il nuovo disco sarà abbastanza diverso dai precedenti, sarà anche questo una sintesi dei lavori precedenti.
Un mix tra “Hubris” e “Bani ahead”. Un po’ più “prodotto” rispetto a Bani Ahead, ma con un suono meno ‘70. Da un lato composizioni più semplici e immediate, dall’altro composizioni più lunghe e strutturate ma sicuramente con meno sonorità jazz-rock.
Molti pezzi del nuovo disco li suoneremo in anteprima al Teano Jazz Festival, quindi se volete sapere di che si tratta dovete solo venire a sentirci.