Si intitola “Le memorie dell’acqua” questo primo disco personale di Pierpaolo Marconcini – in arte Lo Yeti. Un disco davvero di valore e di grande prova, poetica quanto musicale, laddove i testi non cercano affatto la rima baciata e il messaggio diretto – anzi in alcuni tratti si rivelano assai ostici e capaci di sfidare l’intelletto con goliardia e curiosità – e le melodie scritte vivono in un equilibrio decisamente solido per quanto precario all’impatto: niente di scontato e niente di elaborato allo stesso tempo. Nella via di mezzo c’è quel filo sottile in cui gioca con comodità Lo Yeti, non osa la trasgressione ma neanche si adagia sugli allori. Il risultato è un disco che scivola, piace, da gusto nel viverlo traccia dopo traccia ma neanche mi lascia con un “già sentito”… qualche richiamo qua e là certamente, ma la personalità dell’autore viene fuori con estrema sicurezza. Un brano come “Uomo” la dice lunga in tutta la sua evoluzione e neanche la beatlessiana “Rita” sa essere prevedibile a priori. Insomma davvero un bellissimo esordio.
Inizierei da una domanda che forse ti hanno fatto in molti. Come si passa dalla grafica alla canzone?
Per me sono due ambiti che coesistono, svegliandomi alla mattina Art Director e arrivando a sera sempre più Yeti; la grafica per me, oltre a essere una passione, è anche un lavoro che quindi riempie la mia vita assieme alla musica.
Ci sono comunque aspetti che si fanno trasversali e che porto sempre con me, declinandoli su entrambe: la curiosità e la ricerca. Come musicista credo sia importante essere sempre coscienti di cosa ci sia intorno, senza rinchiudersi all’interno del proprio creato, cercando un confronto, una ispirazione e un proprio posto coerente nel panorama musicale.
Di più, la grafica è qualcosa che accompagna la musica, serve anche per creare un’immagine e un immaginario coerente e funzionale e a volte risulta essere anche quel qualcosa che ti fa emergere su uno scaffale. Per me quindi non è un passaggio, quanto una commistione.
Che poi voglio lanciarti un’analisi: in fondo la canzone è essa stessa un’immagine…
Esatto, abbiamo bisogno di visualizzarla una storia, di trasformare sensazioni e parole in immagini, dentro di noi.
Ma anche l’inizio, l’incipit creativo, funziona così: quando scrivo metto in parola e in musica immagini e storie che si avviluppano nella mente. Poi ci sono quelle canzoni, che sono talmente grandi da essere delle vere e proprie immagini, manifesti di un momento storico…
Un esordio che non sembra essere venuto fuori con molta matematica… ascoltando il disco cioè ho forte l’idea di una canzone nata più per gioco che per bisogno di essere cantautori… sbaglio?
Nessun calcolo direi. Credo sia nata più da una necessità personale, quasi a esorcizzare diversi momenti e storie della mia vita. Non c’era l’idea di un disco da mettere insieme, non c’erano tempistiche e burocrazia da rispettare, solamente canzoni e parole che venivano fuori da sé e sì, anche per gioco. Ma andando avanti ti ritrovi poi a fare i conti con quello che hai in mano e devi decidere cosa farne…
Oggi credo che questo sia il pregio più grande di questo disco, l’essere nato in maniera molto spontanea, senza vincoli di forma e senza quella necessità di catalogazione, dentro a uno stile piuttosto che a un altro. Questo lo devo soprattutto alle persone che hanno lavorato con me, in primis a Marco Milani, che è parte de Lo yeti e fin dall’inizio ha lavorato con me sui brani, poi a Pierluigi Ballarin, Daniele Calandra e Angelo Epifani ha che prodotto il lavoro finale.
Ma l’acqua non è un elemento che cancella i segni del passato? Memoria e acqua sono elementi assai contrastanti… non trovi?
È proprio questo contrasto che mi interessa, l’ossimoro intrinseco che c’è nell’acqua, il suo saper cancellare e il suo saper trasportare.
Come singolo, avevo bisogno di “lasciare all’acqua”, al suo scorrere, qualcosa che non mi serviva più, esperienze della mia vita e proprio raccontandole e raccontandomele sono riuscito a lasciarle andare, le ho fatte finalmente mie, capite. E magari questa cosa arriveranno a qualcun altro, che avrà voglia di bagnarsi, immergersi.
Che poi come un bufalo sembri mostrarti… come mai? Cosa rappresenta per davvero?
Sono le sfaccettature di una figura, come quella dello yeti, che non ha un riscontro fisico reale, perché è un essere che si concretizza sulla base della nostra esperienza. Le sue sfaccettature cambiano a seconda del nostro vissuto, del nostro percepito. Una rappresentazione manifesta della nostra fantasia insomma.
Per questo mi piace giocare con la sua immagine e declinarla a seconda della necessità, come nel video di “Amore Bufalo”; questa pelliccia bianca bufalina che si fa camice formale bianco da scienziato, tecnico di laboratorio. Mi piace mettere assieme contesti diversi, giocare con i contrasti visivi, come con le parole, distanziando significante e significato.