Che il jazz sia storicamente figlio di un Melting Pot stilistico è una verità incontrovertibile. Che questo genere musicale sia frutto di un sincretismo culturale è altrettanto vero. Ma quando si utilizza impropriamente la definizione «jazz» per includere altri generi musicali che, per oggettive caratteristiche ben definite risultano essere parecchio distanti appunto dal jazz, si commette un errore madornale. Soprattutto negli ultimi anni, a tal proposito, pullulano festival con la denominazione «jazz» che c’entrano con questo genere come lo zucchero a velo sulle tagliatelle al ragù. Un esempio paradigmatico sul tema è il Montreaux Jazz Festival 2022, fra i più prestigiosi a livello internazionale, che nell’edizione di quest’anno ha ospitato artisti come Gianna Nannini e i Måneskin, manco fossero Ella Fitzgerald e i Jazz Messengers. Con tutto il rispetto per la carriera della Nannini e per il successo finora ottenuto dai Måneskin, rappresentano un’estetica musicale distante anni luce dal jazz, motivo per cui la loro presenza in un festival storico, così importante come quello di Montreaux, è totalmente inconcepibile, insensata e artisticamente irrispettosa nei confronti del mondo jazzistico. Prospettiva che cambia se la si guarda nell’ottica di ottenere il maggior numero possibile di ascoltatori, visto e considerato la popolarità di Gianna Nannini e dei Måneskin, quindi una sorta di operazione commerciale volta a un notevole riscontro di pubblico, ma che va a discapito del jazz.
Sia chiaro, il Montreaux Jazz Festival è solo l’esempio più eclatante, ma esistono (purtroppo!) molti festival “jazz” in Italia che, già da diversi anni, ospitano cantanti pop o cantautori inserendoli nei loro programmi come se fossero jazzisti della prima ora, solo perché accompagnati da musicisti jazz. A onor del vero, vi sono tanti esempi “nobili” di canzoni (anche italiane) destrutturate e trattate a mo’ di standard della tradizione jazzistica, che risultano davvero interessanti. Ma in realtà, nella maggior parte dei casi, i jazzisti che condividono il palco con famosi cantanti pop o cantautori, non fanno altro che suonare esattamente come se fossero musicisti pop, quindi costretti a tarpare la propria creatività improvvisativa. Pertanto, sarebbe molto più intellettualmente onesto da parte di alcuni direttori artistici modificare la definizione «jazz festival» dai loro festival sostituendola con «music festival», in modo tale da non dare adito a conseguenti polemiche.
Ma il jazz, soprattutto negli ultimi anni, fa tendenza – per cui è molto più accattivante usare a sproposito questa espressione per cercare di avvicinare una platea eterogenea che si illude di ascoltare questo genere quando – al contrario – non è assolutamente così. Spesso, anche fra i jazzofili, si parla proprio del jazz come un genere musicale ormai morto, estinto. E questo, sfortunatamente, è a causa di scelte scellerate di certi direttori artistici che si ostinano a intitolare «jazz festival» le rassegne che stridono con il significato autentico di questo termine. Herbie Hancock, ad esempio, per citare una leggenda vivente, rappresenta la quintessenza della contaminazione fra il jazz e altri generi musicali, basti pensare alle sue collaborazioni con artisti del calibro di John Mayer, Sting, Christina Aguilera, Paul Simon, Annie Lennox (e non solo) nel suo disco “Possibilities”, ma in quel caso la matrice jazzistica è comunque sempre viva e presente, messa in risalto specialmente dal suo inconfondibile pianismo. Oggigiorno, invece, si assiste a un accrocco di musicisti e stili che non hanno né capo né coda. Cosa buona e giusta, dunque, sarebbe se i cantanti pop e i cantautori si esibissero in rassegne dedicate specificamente a quel genere di musica, ma soprattutto sarebbe ora che nei festival jazz, quelli con la “J” maiuscola, si desse spazio a tanti (anche giovani) talenti che parlano il “jazzese”, perché se questo genere musicale non è ancora morto, è pur vero che non gode di ottima salute proprio per colpa di alcuni organizzatori e determinati direttori artistici che per incompetenza o per mero interesse economico, contribuiscono a una becera promiscuità che nuoce al vero jazzista e al jazzista vero. “A buon intenditor, poche parole”.