È un pomeriggio di primavera, di questo lungo periodo di ‘attesa’ da confino casalingo ed il batterista Lorenzo Tucci ci accoglie “virtualmente”, grazie alla tecnologia, nel suo studio: è seduto alla sua batteria, di fronte ha il pianoforte e ci mostra tanti ricordi della sua lunga carriera artistica: manifesti e locandine di dischi e concerti, di festival ed eventi; la sua grandissima collezione di cd ed i dischi d’oro vinti con “Handful Of Soul”, il disco di Mario Biondi. Con grande emozione e rilassati sorrisi, inizia la nostra piacevolissima chiacchierata.
ph di copertina di Paolo Soriani
Lorenzo, quando eri bambino, com’è stato il tuo incontro con la musica?
Il mio é stato un approccio totale, la musica mi é piaciuta subito; per me è stata una cosa innata e naturale, come quella di imparare a camminare. Da piccolo, quando avevo tre anni, cantavo di tutto. Mia madre mi ricorda che andavo in giro per la casa e che cantavo a memoria qualsiasi cosa potessi aver ascoltato in tivù o per radio. In particolare, in tenera età, ricordo che fui letteralmente colpito dal brano di Mina Non Gioco Più, eseguito con il grande Toots Thielemans.
Mio padre aveva una chitarra e suonava, con alcuni amici, in un gruppo folk. Iniziai ad accompagnare il mio canto con la chitarra di mio padre, che mi insegnò, insieme a mio zio, alcuni accordi.
A poco meno di dieci anni, i miei mi comprarono un organo ed iniziai a prendere qualche lezione. Un giorno, quando avevo circa 12 anni, mi misi per la prima volta a sedere dietro ad una batteria e per me scattò subito il colpo di fulmine: una sensazione bellissima, fui pervaso da un forte senso di calore, come un fuoco dentro, e capii subito che “quello era il mio strumento”.
Si ascoltava musica, in casa? Questo genere di musica ti ha in qualche modo influenzato nella scelta?
La musica che ascoltavo in casa era quella dei programmi di varietà trasmessi dalla radio e dalla tivù, Milleluci, Sanremo, Canzonissima ed altri. Mio padre e mio zio suonavano la musica folk, che cantavo insieme ai miei cugini.
Sono stato a lezione di strumento da un maestro, a Lanciano, un paese vicino casa mia, in Abruzzo, poi ho continuato da autodidatta. Facevo molte serate, suonavo anche prima di diventare maggiorenne e il mio repertorio spaziava dal liscio alla musica da ballo, passando per il pop. Contemporaneamente, avevo dei gruppi con cui suonavo fusion e jazz, sperimentando le sonorità del momento. In Abruzzo sono stato fino al 1987; poi ho fatto il servizio militare a Legnago (VR) e suonavo il rullante nella banda militare: anche lì ho arricchito la mia esperienza, perché suonavo anche con alcuni gruppi del posto.
Ci racconti qualcosa di cinque dei tuoi lavori che ritieni più significativi per il percorso artistico intrapreso?
UAO! Allora… il primo è “Sweet Revelation” (ci mostra il disco, n.d.r.), del 1999, la mia prima incisione discografica da leader con il Lorenzo Tucci Quartet: con me suonarono Daniele Scannapieco, Pietro Lussu e Dario Rosciglione.
Poi (prendendo fisicamente il disco, n.d.r.) c’è sicuramente “Drumpet”, il duo tromba e batteria con Fabrizio Bosso; lo nomino perché è un disco molto sperimentale, un concept album; una bella sfida con il mondo esterno ed il feeling che c’era tra me e Fabrizio ha fatto sì che il risultato finale fosse una cosa bella.
Poi mi viene in mente “Luggage” (e ce ne mostra la copertina, n.d.r.), il primo disco del Rosario Giuliani Quartet, al quale fui chiamato a partecipare. Questa preferenza di Giuliani nei miei confronti mi riempí di gioia, perché io concepisco la musica come uno scambio ed è sì bello poter essere leader e scegliere con chi collaborare, ma esser preferiti da un altro musicista per collaborare insieme è un motivo, a maggior ragione, di grandissima soddisfazione. Il disco, fu registrato in Francia nel 2001 e con noi c’erano Pietro Lussu al piano e Joseph Lepore al contrabbasso.
Poi (prende il disco, n.d.r.) c’è “Five For Fun”, degli High Five, del 2007: questo fu un disco importante perché uscì per la prestigiosa etichetta Blue Note, per la quale avevano inciso tutti i mostri sacri del jazz mondiale e ci portò in tournée fino in Giappone, dove vendemmo la bellezza di 30.000 copie!
Sempre per l’etichetta Blue Note (tirando fuori un disco a stampa giapponese di cui ignoravamo del tutto l’esistenza, n.d.r.), da quella tournée venne registrato al Blue Note di Tokyo in diretta e con il pubblico “Live For Fun”, che ci vede in copertina, sulla riva di un fiume, seduti in una fiammante Ferrari rossa….se non sono soddisfazioni queste!!!
Infine, c’è il disco “Touch”, che ha girato tanto, sia in tour che come disco, e che mi ha regalato lo pseudonimo con cui mi identifico adesso… è infatti nato prima come nome del disco… è dal 2009 che mi chiamo così.
C’è qualche collaborazione, tra le tante, che ritieni miliare nella tua esperienza live ed in studio?
Quella in studio è la registrazione del disco “Dameronia – Phil Woods in Italy” (ci mostra anche questo disco, n.d.r.). Woods, molto ermetico nel suo approccio, in studio ci disse due sole parole: “Io registro una sola take per ogni brano, dunque chi è dentro, è dentro e chi è fuori, è fuori!”. Io trovo che questo sia stato un attestato di fiducia, una cosa che trasmette una grande concentrazione creativa, che ti stimola ancora di più a “stare sul pezzo”.
Con me, in studio con Woods, c’erano, in quella occasione, anche Franco D’Andrea, Massimo Moriconi, Rosario Giuliani e Fabrizio Bosso.
La collaborazione live che mi viene in mente è nuovamente questa registrazione dal vivo al Blue Note di Tokyo, “Live For Fun”, con gli High Five Quintet. Tutti i musicisti di jazz, tutti ti dico, avevano un Live in Tokyo nella loro discografia: quindi per noi era una cosa pazzesca fare un live lì, con un disco prodotto dalla etichetta Blue Note che ha realizzato i dischi dei più grandi. Il locale era zeppo di pubblico durante i tre giorni delle registrazioni, ed ogni volta era un pubblico diverso ed il locale era sempre sold out, come accadeva per le grandi star. Abbiamo preso le take migliori delle varie esibizioni ed abbiamo realizzato l’album.
Lorenzo, raccontaci qualche aneddoto relativo a circostanze accadute nella tua esperienza musicale dal vivo.
Dunque… devi sapere che esiste un disco, chiamato “Trumpet Legacy”, che vede la presenza di due trombe, quelle di Flavio Boltro e di Fabrizio Bosso. Con loro mi sono esibito, nel 2014, allo Smoke di New York; c’erano anche Luca Bulgarelli e Luca Mannutza. Lo Smoke è un locale bellissimo e molto accreditato nella Grande Mela; noi partecipavamo ad un festival di Jazz italiano a N.Y.
Facevamo tre set ogni sera, il ritmo era piuttosto serrato, ci esibivamo ogni giorno davanti a tre audience diverse. L’ultima sera, durante l’ultimo set, eravamo veramente distrutti. Io attaccai a suonare con un groove un po’ beat e Boltro, inaspettatamente, incominciò ad urlare ed a cantare talmente forte che noi, spiazzati completamente, non riuscimmo a smettere di ridere per questa scena incredibilmente liberatoria e per dieci minuti circa, credimi, non si capì proprio più niente!
Premetto che il proprietario del locale, americano, quando ci presentava, invece di dire “Le trombe del Re” (il nome del gruppo, n.d.r.), diceva, con accento americano, “Le trombe del Rea” e Boltro attaccava sempre ad urlare: “Sì sì, Danilo Rea!” e noi tutti a ridere!
C’è da aggiungere che il suddetto proprietario, già ci aveva etichettati come Italiani non troppo ligi alle regole: infatti, non si poteva bere, ne’ fumare nel locale, se dovevi esibirti, ma noi, una fumatina o una grappetta nel sottoscala, prima di andare sul palco, ce la facevamo sempre! Quando vide quella scena “anarchica” veramente non sapeva più che pesci prendere!
Un altro episodio live che ricordo con piacere accadde nel 2012: con il mio trio, che vedeva in formazione Claudio Filippini e Luca Bulgarelli, con Bosso ospite, stavo esibendomi in teatro a Lanciano, in provincia di Chieti. Ad un tratto, mentre stavamo suonando, andò via la luce: noi continuammo a suonare come se nulla fosse accaduto, era un brano pieno di energia… ed anche il pubblico, dopo il primo sconcerto, restò fermo in platea, avvolto dal buio quasi totale, con soltanto qualche fioca luce di emergenza accesa. La luce mancò per diversi minuti e noi continuammo a suonare come i pazzi, per un pubblico sempre più incredulo e che applaudí talmente forte, quando tornó la luce, che risultò in un vero e proprio boato, che non ho mai sentito più e chissà se mai avrò l’occasione di risentire.
“Touch” è sicuramente un disco che ha segnato la tua carriera musicale e da qui nasce il tuo soprannome, Touch. Ascoltandolo, è tangibile che il filo conduttore sia il latin-jazz, che sfocia in un perfetto mix di jazz, funk, swing e bossanova. Come è nata l’idea di omaggiare vari importanti autori, seguendo questa fusione di sonorità, create con la collaborazione dei grandi musicisti che ti hanno accompagnato in questo progetto?
Insieme a Luciano Cantone, produttore della Schema Records, ho preso spunto dalla grande orchestra di Kenny Clarke, Francy Boland Big Band (prende il cd e ce lo mostra, n.d.r.). L’idea viene dal fatto che volevo realizzare un tributo a quella grande orchestra e ne sono molto soddisfatto. Il disco, che ebbe una produzione piuttosto onerosa economicamente, venne registrato in studio durante quattro diverse giornate e coloro che vi hanno collaborato, si sono alternati nelle varie giornate: oggi, per un jazzista in particolare, realizzare in una produzione simile, a livello di investimento economico, non sarebbe forse più possibile.
I musicisti che ti accompagnano, sono personalità del jazz più che affermate nel mondo jazzistico nazionale ed internazionale: Luca Mannutza, Fabrizio Bosso, Gianluca Petrella, Daniele Scannapieco, Max Ionata, per citarne alcuni, insieme a due voci: Walter Ricci ed Alice Ricciardi. Quali elementi di valutazione ti hanno spinto a scegliere loro come voci di questo disco?
Alice Ricciardi la conoscevo già bene, è una mia amica da sempre ed ha grande talento. Non ci vuole molto, infatti, a capire se una persona ha talento. Lei è proprio la classica “voce jazz”, quella che volevo per questo lavoro. Walter Ricci lo avevo sentito da giovanissimo e già cantava “da paura”; ha un grande timbro, trasmette un profondo feeling, molto jazz ed era proprio adattissimo al mio progetto.
Come nasce l’idea del progetto Latin Mood, che ha riscosso negli anni – ed ancora oggi – grande successo nel pubblico del jazz e non?
La scintilla dell’idea scoccò in Giovanna Mascetti, la manager di Fabrizio Bosso. Fu lei, nel 2006, a proporre a Fabrizio di fare un progetto insieme a Javier Girotto, per avvicinare due mondi musicali un po’ diversi tra loro. All’epoca, infatti, Girotto era quasi esclusivamente inserito nel mondo del tango e si esibiva, per lo più, con la sua formazione degli Aires Tango. A Giovanna faceva piacere che loro si esibissero in questa formazione come concerto di apertura di un festival jazz che lei organizza a Monza. La formazione iniziale era un quintetto e, oltre a Fabrizio, Javier e me c’ erano Natalio Mangalavite e Luca Bulgarelli; le percussioni di Bruno Marcozzi sono venute in seguito.
Qual è, secondo te, la caratteristica di questo progetto che lo ha reso così gradito dal pubblico?
Io credo che l’elemento vincente sia quello di fare Latin Jazz senza stare a pensare cosa è Jazz e cosa è Latin; così che nessuno dei due generi è ancorato ad una cosa specifica e dà una grande libertà espressiva, cosa che si può realizzare solo suonando con persone aperte mentalmente e di grande spessore artistico, come sono i componenti di questo gruppo.
Passando ad un altro tuo lavoro, “Drumonk”, vediamo che la formazione vede Fabrizio Bosso alla tromba e Pietro Ciancaglini al contrabbasso; come nasce l’idea del titolo “Drumonk”?
Il disco, in realtà, è stato registrato nel 2006 ed è uscito nel 2007 (la data del 2010 riportata su Spotify è quindi erronea, n.d.r.) ed il titolo nasce da una mia idea ed è, come immaginerete, la sintesi del nome Monk con Drums.
Questo lavoro è nato come una scommessa, cioè quella di fare un tributo a Monk senza il pianoforte: l’omaggio, infatti, non lo fai allo strumento, ma al Monk compositore, in modo da rendere il tutto universale e per sempre, non legandolo allo strumento in sé. Per ottenere questo risultato, ho dovuto rendere tutto più scarno ed è stato un buon successo, sia di pubblico, che di critica.
Come nasce l’idea di questo omaggio e quale influenza ha avuto ed ha tuttora Monk nella tua formazione musicale e nella musica che suoni?
Ogni cosa continua ad avere influenza su di noi, anche se è qualcosa che non si ricorda; quello che resta di un libro che si è letto, ma di cui non ti ricordi, si chiama cultura.
Risalta all’occhio, già guardando la formazione, l’assenza del piano e l’introduzione di un fiato come la tromba. Ciò fa comprendere che sia stata fatta una scelta controcorrente, ma non del tutto atipica. Quale è stato quindi il lavoro da te svolto per ricreare una sonorità che ricordasse quella monkiana dell’epoca e che fosse, al tempo stesso, attuale?
Nel lavoro mi mancava l’armonia del pianoforte, che abbiamo colmato con l’interplay tra di noi che, in quel periodo, in particolare, stavamo molto spesso insieme. Se c’è un silenzio in più, non è un problema, si va per sottrazione e lo si fa diventare ugualmente bello.
Una delle più importanti formazioni in cui hai militato, gli High Five Quintet, ha avuto un grande successo come gruppo e, successivamente ha accompagnato e portato al successo Mario Biondi, prima sconosciuto al grande pubblico. Come nacque l’idea di formare il gruppo?
Non ricordo esattamente come nacque il gruppo, posso dirvi che già suonavo con Fabrizio, avevo già suonato con Ciancaglini e avevo incontrato Daniele Scannapieco che ci presentò il pianista Julian Oliver Mazzariello, che ha suonato nel primo album. Purtroppo, a causa di una brutta tendinite, fu costretto a lasciare il gruppo e gli subentrò Luca Mannutza, chiamato da me. Iniziammo a suonare dal vivo ed incidemmo il primo album.
Come si è poi concretizzata, poi, la collaborazione con Biondi?
Fu Luciano Cantone a fare da tramite: ci diede un CD con i brani di Mario Biondi, che, fino a quel momento, non conoscevamo. Lo incontrammo direttamente in studio e registrammo il disco senza alcuna prova preliminare. Il groove di This Is What You Are l’ho cambiato io, riprendendo i classici suoni dei batteristi jazz.
Negli ultimi mesi, tramite i social network, siamo venuti a conoscenza di una reunion del gruppo con anche la partecipazione di Mario Biondi. Ci sono novità musicali, progetti che quindi potremo ascoltare in futuro? L’impronta stilistica sarà quella delle origini, o subirà delle modifiche?
Con Mario tutto potrebbe accadere, perché ci si sente e siamo in ottimi rapporti. Tutto può essere… se si decidesse di lavorare ancora insieme, sicuramente l’impronta stilistica seguirà quella delle origini.
Con un altro dei tuoi lavori, “Tranety”, si fa un ulteriore omaggio ad un musicista che è considerato uno dei padri fondatori del jazz, come lo concepiamo oggi: John Coltrane.
Anche in questo caso, la formazione è in trio con al contrabbasso Luca Bulgarelli ed al pianoforte Claudio Filippini, con assenza, quindi, del sax. Qual è l’idea di omaggiare questi grandi artisti, scegliendo di non includere gli strumenti propri di questi, ma bensì trovando un chiave di lettura differente?
E’ una scelta voluta da me ogni volta, io so già come andrà a finire una cosa, perché ce l’ho già dentro. Se penso ad un suono, già immagino chi può farlo come io l’ho pensato. Qui spezzo una lancia su Bulgarelli, con la sua personalità di grande musicista, che mi ha garantito il risultato voluto. Ed un’altra la spezzo su Filippini, che mi ha garantito la poetica di un Coltrane un po’ inusuale, esaltandola. Quello che volevo far risaltare io era infatti il Coltrane poeta, non quello che ‘urlava’.
Nel disco sono presenti anche due composizioni originali che si incastrano perfettamente nel contesto musicale scelto. Qual è dunque il tuo rapporto con la musica di Coltrane e cosa ti ha spinto ad incidere questo progetto?
Coltrane è un artista poetico al massimo. Wise One e After The Rain hanno dei mood che sono un misto tra lo struggente e lo speranzoso. Di lui mi commuove che vivesse in una sua dimensione che non è giorno e che non è notte, ma che è sempre speranzosa. Ed ecco, appunto, Hope. Perché, non per peccare di immodestia, lì ci stava proprio bene, a mio avviso. Questo pezzo è stato un minuto di mia emotività inciso in musica dieci anni fa, ma attuale come se fosse stato fatto ieri. Quando si scrivono le cose, emozionandosi, queste cose funzionano.
Luca Bulgarelli e Claudio Filippini hanno condiviso con te anche l’importante esperienza fatta a Bangkok nel 2018. Leggendo una tua pagina di diario, riportata su un’importante rivista che descrive il vostro viaggio, è possibile percepire la tua ammirazione su come lì esistesse una realtà musicale, e soprattutto jazzistica, molto differente dai conservatori italiani: un enorme campus organizzato, “dove gli studenti possono essere”, come tu stesso affermi, “fieri di suonare, e vi sono tutti gli strumenti adatti per poter approfondire la materia”.
Essendo tu, oltre che musicista, anche un docente di conservatorio, quale è la tua visione circa il ruolo dei conservatori nella attuale organizzazione sociale e culturale? Ma, soprattutto, cosa è che ancora manca al jazz, genere relativamente recente, come materia di conservatorio, per essere pienamente incluso in una realtà che procede con grande fatica ma che comunque riesce a formare dei grandi talenti apprezzati anche all’ estero?
Fu Claudio Filippini a coinvolgermi nell’esperienza a Bangkok; suonammo brani suoi, ma anche alcuni scritti da me, come Hope ed alcuni brani tratti da “Tranety”. Il festival é davvero una realtà molto importante, con un campus enorme, dove in tantissimi vanno a studiare.
L’Italia, invece, è fatta di tante piccole realtà, non per questo peggiori di quella; per esempio, ti porto l’esempio di un piccolo paese in Puglia, come Rodi Garganico, che ha il suo conservatorio. Ovviamente, una cosa del genere in Thailandia non esiste. In Italia ci sono tante occasioni per suonare e studiare il jazz: del resto, ad esempio, a Roma ci sono vari jazz club, ma nessun rock club; e la cosa vale anche per i festival: ce ne sono tanti di jazz, ma del rock? Non ne conosco.
Certamente, per contro, non potremo mai vedere un concerto di Keith Jarrett su Rai Uno in prima serata, al sabato sera. Ma qui andiamo troppo nel personale, sarebbe come dire che andrebbero accontentati tutti coloro che hanno una passione, non necessariamente musicale, e che vorrebbero vederla in tivù: pensiamo a campionati di scacchi, di bocce e simili.
Dalla realtà italiana sono emersi ed emergono tanti bravi musicisti di jazz, che suonano tanto, fanno dischi e vanno in tour a livello internazionale; viceversa, non mi risulta finora che Bangkok, nonostante le ottime basi che una full immersion di quel tipo possa offrire, abbia finora regalato musicisti chiamati a fare tour mondiali e che suonino ovunque.
Riguardo la situazione complessa che stiamo attraversando in questo periodo, a causa dell’infezione pandemica, cosa pensi si possa attuare e quali iniziative possono essere organizzate, in ambito jazzistico, per risollevare una condizione che, al momento, è drammatica?
Sto cercando di stare sullo strumento, di non perdere la verve tecnica e sto facendo delle ricerche musicali, anche sul pianoforte. Sto cercando di riascoltare alcuni dischi con un’ottica differente e tengo le lezioni online con sei alunni del conservatorio, mantenendo così la continuità didattica. E poi mi dedico a mio figlio, a mia moglie ed alla casa, qualcosa da fare non manca mai e va bene anche così.
Proprio in questo periodo, in cui ci sostiene lo slogan “andrà tutto bene”, ci hai ricordato tramite i social, di un tuo brano di qualche anno fa intitolato Andrá bene. C’è una storia dietro a questo brano?
Andrà bene non ha una storia particolare dietro al suo titolo; è un brano scritto al pianoforte, sull’onda delle emozioni che il pezzo stesso mi fa vivere, quando mi metto nei panni dello spettatore, perché ogni cosa va osservata da più angolazioni. Questo brano è speranzoso, un buon auspicio, un pensiero positivo in generale. Ha delle armonie molto ariose; chiamai Claudio (Filippini, n.d.r.), siamo andati in studio e l’ho fatto registrare e lui l’ha suonato come se lo avesse suonato per anni, come se fosse stato un pezzo suo.
Oltre a lui, cito altri due grandi pianisti, con i quali ho collaborato: Mannutza – preparatissimo, studioso, metodico, tecnicamente infallibile nelle sue performances – e Lussu – classe pianistica e tocco alla Herbie Hancock.
Grazie mille per la bellissima chiacchierata, Lorenzo! E’ stato molto bello poter approfondire alcuni aspetti del tuo viaggio nella musica. Alla prossima occasione!