E’ uscito “Nemesi”, secondo disco dell’Illogic Trio, formazione salernitana, che si caratterizza per il coraggio delle sue scelte artistiche e la qualità delle sua musica. Si distingue dal resto della “scuola salernitana” per i suoi chiari riferimenti all’area nord-europea; ciò li rende decisamente contemporanei e innovativi. La loro scrittura è complessa ed articolata senza però rinunciare alla melodia che rende l’ascolto decisamente godibile, anche grazie ad un sound decisamente personale. Abbiamo incontrato il pianista Lucio D’amato per farci raccontare un po’ della loro storia.
Come nasce l’Illogic Trio?
Il trio nasce nel 2011, quest’anno festeggiamo i 10 anni. Nasce come spesso succede per una casualità. Io ed un amico bassista ci siamo incontrati per sviluppare una sua idea. dopo quel primo incontro, gli ho proposto di aggiungere come terzo strumento la batteria, che mi sembrava perfetto per lo sviluppo di quella particolare musica. Per me è stata la prima esperienza come trio, ci stavo girando intorno da tempo, senza mai osare, perché per me il trio è il culmine del fare musica strumentale, anche rispetto ai miei gusti musicali. Avevo una sorta di timore reverenziale. anche il nome è nato un po’ per caso. Abbiamo fatto le prime registrazioni utilizzando un software che si chiama Logic. Quando abbiamo ascoltato le prime registrazioni, ci siamo detti che nonostante il nome del programma la musica ci sembrava tutt’altro che logica, quindi da qui è nato Illogic trio. Ugo, elemento essenziale del trio, è subentrato nel 2013. Nel corso degli anni ci siamo sempre messi in gioco, abbiamo partecipato a un bel po’ di jazz contest in giro per l’Italia quando in realtà non avevamo ancora né l’esperienza né un repertorio tale da poterci definire un progetto vero e proprio. Però poi abbiamo ricevuto risposte incoraggianti dal pubblico in merito alla strada che stavamo percorrendo. Abbiamo capito che stavamo facendo bene, perché si percepiva come qualcosa di originale. Il nostro primo disco dal titolo “Start” ci è stato prodotto come premio di un jazz contest che abbiamo vinto (Fara Music Contest), ma rispetto a “Nemesi”, sono come il giorno e la notte. Innanzitutto perché a mio avviso, come ti dicevo. Non eravamo ancora pronti in quel momento.
Nel corso degli anni comunque ci è stata sempre riconosciuta dal pubblico e dalla critica una componente prog, non so se anche per te è così.
Devo ammettere che in “Nemesi” c’è questa componente, ma sembra essere naturale, non cercata. Come tutta la musica che c’è nel disco; è molto energica, molto “vera”, non c’è costruzione artefatta. C’è molta consapevolezza.
Concordo con te. Anche il processo della formazione dei brani è un percorso a suo modo “Illogico”. Immagina un panetto che poi deve essere lavorato e poi deve lievitare; per esempio c’è un brano del disco che si chiama Reichtrico: la prima idea di questo brano è nata nel 2013; in realtà anche per altri brani è successo, è proprio il nostro processo creativo che prevede la trasformazione continua dei brani. Il modo che abbiamo noi di scrivere la musica è attraverso la non scrittura: c’è la condivisione di un’idea che comincia a circolare tra di noi, in rarissimi casi la bozza è qualcosa di scritto, può in alcuni casi essere una registrazione. E’ un po’ come se questa idea finisse in una sorta di tritacarne dove la musica entra e poi esce, anche dopo anni completamente trasformata, magari l’esatto opposto dell’idea iniziale. Forse è anche questo processo che ci ha portato a scegliere la parola Nemesi.
Tu citavi la componente energetica, uno dei punti è proprio questa energia che però è data dal suono, non attraverso magari una frase che tende ad emergere dal resto; i momenti più energetici della nostra musica sono quelli collettivi. Questa cosa ci alimenta già durante le prove poi quando la trasmettiamo ad un pubblico arriva, non riesci a contenerla. Noi siamo la musica che suoniamo. La nostra di fatto è composizione condivisa.
Infatti anche il nome dei gruppo è un nome condiviso, non c’è un titolare del trio, un band leader.
Esatto! perché il leader del gruppo è l’idea, è la musica. Se dovessi avvertire che questa condivisione dovesse venire a mancare, io mi farei da parte, non con l’idea di farla finire, ma di evolverla.
Quando avete compreso che “Nemesi” aveva trovato un senso compiuto?
L’abbiamo capito durante la pandemia. Questo disco l’abbiamo registrato a fine gennaio 2020, credimi, pur non avendo idea di quello che sarebbe successo, c’era la percezione che qualcosa non andasse. Gli artisti a volte ce l’hanno questa sensibilità, che poi trasferiscono in quello che realizzano.
Infatti il significato di questo disco, che è poi diventato “Nemesi”, è stato postumo alla registrazione; con la pandemia abbiamo realizzato che tutte le tracce del disco in realtà sono dei pezzi di un puzzle che si è composto sotto i nostri occhi. Il puzzle è un racconto che riguarda noi, il nostro vissuto dell’ultimo anno e mezzo; perché si parla della dualità, dello scontro interiore tra gli opposti, il negativo ed il positivo che c’è dentro ognuno di noi. La luce e l’ombra, l’ottimismo e il pessimismo. I titoli dei brani erano già stati scelti, poi hanno assunto il loro significato in accordo con il concept di tutto il disco. E quindi è stata la Musica a dirci quello che doveva essere. Il titolo del disco è stata in ordine cronologico l’ultima cosa.
Prima mi accennavi al trio di Keith Jarrett come ad uno dei tuoi punti di riferimento, ascoltando il disco mi ha rimandato alle sonorità del nord Europa, al trio di Esbjörn Svensson, a quella stessa carica di energia ed innovazione.
Assolutamente si. E’ un altro degli ascolti della mia formazione. Così come il Bad Plus trio, dove si ascolta un’energia pazzesca con delle dinamiche che sono tipiche del rock. Io e Ugo siamo andati ad ascoltarli dal vivo.
il Bad Plus si è cimentato in repertori molto poco jazzistici, proponendo composizioni originali a riarrangiamenti di brani rock, non sentendo la necessità di doversi confrontare, così come fate voi, con il repertorio degli standard jazz. Voi come siete arrivati a questo? come vi siete posti nei confronti del repertorio classico del jazz?
Tutti e tre veniamo da un percorso di studi di musica classica, poi è arrivato il virus del jazz. Io ho studiato classica da privatista, poi sono entrato in conservatorio per il quinquennio di jazz. Mi sono avvicinato al jazz attraverso un componente che non è, come spesso accade, l’improvvisazione, ma l’armonia. Il mio paradigma è quello armonico, vale a dire, come deve suonare la musica. Questa è sempre stata una costante per me. Nel nostro percorso abbiamo fatto esperienze in altre formazioni, come turnisti, dove abbiamo suonato e studiato hard-bop, be-bop. Un’esperienza che mi è stata molto utile per capire alcune dinamiche del trio è stata quella di suonare in un tributo a Thelonious Monk, sicuramente uno tra i più “Illogici” della storia della musica del Novecento. anche Ugo ha esperienze simili, lui ha collaborato con tanti artisti della scena jazzistica campana.
Il jazz è una materia, una lingua dinamica, in perenne movimento; per noi è stato naturale prendere questa strada. Io continuo a studiare gli standard, ma per puro piacere.
L’Italia è un paese che a livello jazzistico vive un po’ troppo sui retaggi del jazz del passato, il fatto cioè di sentire forte il riferimento alla musica afroamericana, al mainstream, come se fosse un dogma, mentre in altri paesi non è così. Il messaggio di Miles era chiaro: dovete sporcarvi le mani se volete lasciare il segno.
Il messaggio è riuscito a trasferirlo, perché i musicisti che hanno suonato con lui lo hanno fatto proprio. Penso ai i Weather Report, a mio avviso una della band più influenti della storia del Jazz. Ancora adesso quando si ascolta la loro musica senti chiaramente che quello che loro vogliono dire è: noi contaminiamo, vediamo la ricerca dove ci porta! Ed è una band, un collettivo, non “il quartetto di” o “il trio di”. Noi non rinneghiamo il passato ma il Jazz è cosa viva, si evolve, noi vogliamo nel nostro piccolo, contribuire a questa evoluzione. Per noi è la Musica ad essere al centro noi siamo un suo strumento, un portale attraverso il quale la musica entra in un modo e poi ne esce diversa.
Prendiamo ad esempio Tigran Hamasyan, il pianista armeno, lui prende le sue radici, quelle della sua vita non le radici del Jazz, che si sente che ha studiato, e racconta la sua storia. Sta tutto qui. Per lasciare un segno, ho bisogno di parlare della mia storia, non di quella di qualcun altro.
Adesso mi dicevi che vi state concentrando su questo lavoro di ricerca di non luoghi.
Noi abbiamo questa idea del non-luogo, di aprire alla musica spazi nuovi, evitando luoghi deputati ai festival ed ai concerti, come le arene, i teatri, dove è difficile entrare, o perché saturi o perché la nostra musica non viene ritenuta “adatta” a quei luoghi. Per l’estate infatti stiamo valutando di suonare in case private, giardini, lo spiazzo di un belvedere su una montagna, potrebbe essere un bosco, un luogo in armonia con la musica che proponiamo.
Abbiamo iniziato con degli House Concert con un format che abbiamo definito “live-ing” della durata di un paio d’ore. Chi ospita in concerto non ha fini di lucro, è un appassionato. E’ co-organizzatore dell’evento insieme ai musicisti. La maggior parte delle persone saranno suoi “ospiti”, persone da lui invitate. la formula prevede un breve aperitivo prima di iniziare, se c’è la possibilità, si da spazio ad associazioni ONLUS, di presentare un proprio progetto. Poi segue il concerto che dura un’ora. Non c’è biglietto a prezzo fissato, ma un’offerta libera, come se fosse una micro campagna di crowdfunding estemporanea.
Nel 2019 siamo riusciti a fare tre date con questa modalità poi è arrivato l’Armageddon e si è fermato tutto.
La cosa più entusiasmante che ho notato è che a questi eventi c’è un’attenzione totale, le persone vengono ad ascoltarti con consapevolezza.
Lucio D’Amato, piano | Gabriele Pagliano, double bass | Ugo Rodolico, drums
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