Diego Librando
Il jazz a Napoli dal dopoguerra agli anni Sessanta
Alfredo Guida Editore
2004
… ovvero:
visto il progressivo e metodico tentativo di cancellare nelle nuove generazioni il senso della Storia, riteniamo sia giunto il momento di iniziare a sistematizzare lo studio della straordinaria vicenda storica riguardante la nascita della musica jazz in Italia.
Negli anni immediatamente dopo la seconda guerra mondiale (per i piu’ giovani che mi staranno leggendo dico loro che sto parlando del periodo che va dal maggio del 1945 in poi) la situazione delle generazioni dei quattordicenni quindicenni sedicenni era molto particolare e forse qualche parola va spesa per poter meglio comprendere quali erano i meccanismi quotidiani che si presentavano a questi ragazzi, che per un pelo non erano stati direttamente coinvolti nella follia della guerra, e che, pur non avendola combattuta, avevano sofferto moltissimo gli ultimi sei sette anni della loro giovane vita, nel senso che, avendo dovuto vivere in un mondo di grandi che li riempivano quasi sempre di menzogne e che, avendo contemporaneamente dovuto vivere una fottutissima e dannata qualita’ della vita (fame, bombardamenti, ristrettezze economiche), finalmente iniziavano a percepire che la normalita’ non era quella dalla quale stavano uscendo, ma quella nella quale, quasi senza accorgersene, stavano entrando in punta di piedi.
Vale dunque la pena di provare ad inquadrare e a ricordare i tempi che si presentavano a questi ragazzi. Le paure e le angosce dovute alla guerra che si era fatta sentire in modi diversi, ancorche’ pesantissimi, su tutto il territorio nazionale erano terminate. La fame (avete capito bene, la fame) cominciava ad essere meno malignamente presente e quindi ci si cominciava a guardare intorno con piu’ serenita’ e con piu’ curiosita’, avendo come prima percezione il fatto che la curiosita’ era strettamente collegata ad una sensazione che molti dei ragazzi di cui sto parlando sentivano nascere rapidamente dentro di loro in maniera confusa ma ribollente, in maniera eccitante. La sensazione di cui sto parlando che veniva fuori dalle normalissime ed umanissime curiosita’ che i nostri amici stavano provando tutti, comunque, anche se in modi e con tempi diversi, era la sensazione della liberta’. Liberta’ di chiedere, di parlare, di sapere, di conoscere, di muoversi sul proprio territorio, di ascoltare opinioni e fatti diversi fra loro, di poter finalmente vedere film fino ad allora sconosciuti, di poter cominciare a frequentare l’altro sesso senza divieti assurdi di orari, senza timori di essere colti da qualche allarme antiaereo o, nel peggiore dei casi, da qualche bombardamento o da qualche rastrellamento.
Insomma questi ragazzi cominciavano a guardarsi attorno, e piu’ i giorni passavano, piu’ le curiosita’ aumentavano, piu’ gli orizzonti si aprivano, piu’ bella, molto molto piu’ bella, appariva la vita quotidiana. E poi, finalmente, ognuno poteva liberamente dire la propria opinione e quindi ognuno poteva ascoltare le opinioni altrui senza nessun rischio, senza nessun legaccio, senza nessun divieto. Si’ amici miei, erano anni formidabili quelli dell’immediato dopoguerra, le privazioni stavano cedendo il passo ad una qualita’ della vita che era assolutamente entusiasmante e piena di risvolti inimmaginabili fino a pochi mesi prima. La voglia di vivere e capire era in assoluto la forza che con piu’ violenza irrompeva negli animi di tutti, anche di quelli un poco piu’ grandicelli dei nostri amici quindicenni o giu’ di li’, che, fortunati loro, erano riusciti a tornare vivi dall’inferno della guerra. Non dimentichero’ mai la gioia di vivere, la tenerezza, la disponibilita’, la competenza della vita, la capacita’ di non parlare di cose brutte e di parlare soltanto di cose liete, leggere, frizzanti, di un nostro amico di famiglia Raoul che, per il solo fatto di avere sei o sette anni piu’ di me, era tornato a piedi a Bari, sano e salvo, da Buchenwald. La cosa che ricordo con infinita tenerezza e che contemporaneamente mi impressiono’ molto fu la sua magrezza spaventosa, sara’ certamente stato sotto i quaranta chili. Ma, fortunatamente, era uno dei pochi sopravvissuti che ce l’aveva fatta, e in pochi mesi riprese colori e peso.
I giovani avevano dunque tutto da inventarsi, tutto da scoprire, tutto da progettare. Importante per loro fu l’irrompere sulla scena cittadina del grande cinema americano e francese. Finalmente si iniziava a “vedere” come vivevano gli altri in altre parti del mondo. E l’Italia come era fatta? La radio era uno strumento tecnologico che non tutti avevano, quelle anteguerra di cui si disponeva nelle famiglie, spesso andavano in avaria, si bruciava qualche valvola, si spezzava il cordino che faceva scorrere il cursore sul vetro illuminato dove erano scritte le stazioni radio europee, nomi magici che ci facevano sognare, Roma, Hilversum, Madrid…. Ma l’Italia come era fatta? Non era per nulla facile andare a vedere come erano fatte Milano, Roma, Palermo, Napoli, Catania, Venezia. Soldi per viaggiare non ce n’erano, in piu’ allora i treni molto faticosamente stavano rimettendosi in giro per l’Italia, le locomotive erano ancora a vapore. Andare da Bari a Napoli era un’impresa, ci volevano oltre dodici ore e si arrivava a Napoli con gli occhi rossi di scorie del fumo della locomotiva che te le trovavi anche sotto la camicia.
Ma era anche un’impresa andare nei paesi vicini, le corriere stavano rimettendo in sesto le loro percorrenze; ricordo che per andare e venire da Bari a Palese, una diecina di chilometri in tutto, andava via quasi un’intera giornata. Malgrado tutte queste difficolta’ di spostamento e di informarsi, qualcuno aveva iniziato ad interessarsi di jazz, ad interessarsi di quella musica straordinaria che era arrivata al seguito delle truppe americane e che qualche volta era stata contrabbandata dall’EIAR con titoli e nomi tradotti in un improbabile italiano. A queste difficolta’ oggettive si aggiungeva il problema di sapere che succedeva nelle altre citta’.
Al cinematografo i primi cinegiornali, le prime “Settimane Incom”, ci facevano intravedere brani di vita di Roma, Napoli, Palermo, Milano. Non avevamo altri punti di riferimento. E frattanto, come per incanto, nelle grandi citta’ iniziavano a mettersi insieme appassionati di jazz e cominciavano a costituire i primissimi club che generalmente si chiamavano “hot club”. Si cominciava a discutere di “stile New Orleans” e “stile Dixieland” e si iniziava ad essere informati dell’esistenza di gruppi musicali e di musicisti jazz che stavano cominciando a fiorire a Palermo, Bari, Napoli, Bologna, Milano. Le informazioni viaggiavano come i fiumi carsici, erano sotterranee, le verifiche erano faticosissime. Il telefono era ancora uno strumento che non tutti avevano in casa. Malgrado tutto cio’, il jazz sbocciava tumultuosamente inizialmente nelle grandi citta’, diventando cosi’ un fenomeno metropolitano. Conoscere i nomi di jazzisti italiani era gia’ un’impresa molto difficoltosa, mentre, paradossalmente erano molto piu’ noti per le giovanissime generazioni i nomi dei musicisti americani, Louis Armstrong, Benny Goodman, Duke Ellington, Cab Calloway, Count Basie, nomi ai quali, come si e’ dianzi detto, si andavano molto faticosamente (per via delle difficolta’ di avere informazioni al riguardo) aggiungendo quelli di Claudio Locascio a Palermo, Lucio Reale a Napoli, Carlo Loffredo a Roma, Giampiero Boneschi, Franco Cerri, Aurelio Ciarallo, Alberto Collatina, Gil Cuppini, Nino Impallomeni, i fratelli Reverberi, il grande Gorni Kramer, Dino Piana e tanti altri. Andare a Milano, per noi ragazzi del sud era impresa praticamente disperata, molti anni dopo, ci saremmo accorti che sarebbe stato molto piu’ facile andare sulla luna negli anni ottanta novanta che a Milano nell’immediato dopoguerra.
Ebbene, in tutto questo fiorire di immense difficolta’, contemporaneamente, e con grande vigoria peraltro, nacquero circoli del jazz chiamati hot club a Napoli, a Bologna, a Milano mentre in altre citta’ quali Bari, Modena, Salerno, si riunirono insieme gruppi di appassionati che, come accadeva negli hot club nati nelle grandi citta’, ascoltavano e iniziavano a suonare questa musica straordinaria che proveniva da oltre oceano e che procurava brividi misteriosissimi in chi la eseguiva e in chi l’ascoltava.
Chi scrive non dimentichera’ mai l’atmosfera collettiva che si respiro’ una sera in un mitico concerto tenuto a Bari, alla Fiera del Levante, dalla Roman New Orleans Jazz Band. Mai piu’ in nessun altro luogo ci sarebbe stata una coscienza collettiva jazzistica come quella di quella particolarissima sera in cui la musica, la fisicita’ dei presenti che si accalcavano sotto il palco, gli applausi alla fine di ogni assolo, la tensione gagliarda di tutti i presenti, stavano caratterizzando un evento talmente straordinario. Ricordo l’epicita’ del fenomeno, epicita’ che difficilmente e’ riscontrabile ai giorni nostri. Niente da paragonare ai fenomeni collettivi contemporanei degli stadi riempiti da Vasco Rossi.
Allora ogni strumentista era contemporaneamente conosciuto e sconosciuto dai giovanissimi ed entusiasti spettatori. Il personaggio che aleggiava su tutto il pubblico presente nel grandissimo padiglione dell’auto nella Fiera del Levante, era la grande Musica, la Musica jazz; ognuno dei presenti in quel momento si era fatto batteria, pianoforte, tromba, trombone, contrabasso, clarinetto e saltava da uno strumento all’altro, costruendosi lui il suo proprio assolo, assolo eseguito con il linguaggio jazz che si era faticosamente “studiato” nelle lunghissime sedute di ascolto che avevano preceduto quel mitico concerto. Gia’, perche’ qui sto parlando di una bellissima abitudine che riscontro in tutto il territorio nazionale dell’immediato dopoguerra. Su tutto il territorio italiano ci fu infatti una fioritura impressionante di luoghi, locali, case private di appassionati , club, dove, per lo meno una volta la settimana si tenevano delle sedute di ascolto della musica jazz, per ascoltare, studiare, imparare, comparare fra loro, brani che erano diventati il pane quotidiano di queste straordinarie generazioni di giovani. Si faceva a gara nell’ascoltare lo stesso brano suonato da diversi musicisti, si paragonavano gli assoli e, quasi contemporaneamente si era testimoni dei grandi cambiamenti stilistici che in America si stavano facendo largo nel passaggio dallo swing al be bop, tenendo un occhio di riguardo al jazz cosiddetto tradizionale che gia’ allora aveva i suoi detrattori e i suoi simpatizzanti. Questo arrovellarsi a fronte di stili, stilemi, correnti culturali musicali, maniere di pensare la musica completamente diversi fra loro era il segno tangibile della curiosita’ della passione, del senso della storia che intrigavano quelle straordinarie generazioni (alle quali appartengo) con particolare furore. Sto parlando della passione, dell’amore per la conoscenza, della contezza di appartenere ad un particolarissimo periodo storico dove finalmente si potevano inquadrare fenomeni di livello mondiale, dove si poteva fare paragoni e dove si potevano comparare qualita’ della vita totalmente diverse fra loro, riuscendo persino a progettare propri futuri prossimi e nuovi tipi di societa’.
In questi giorni ho avuto il piacere di leggere un gran bel libro di storia scritto da un giovane studioso napoletano che si chiama Diego Librando. Il titolo del libro e’ “Il jazz a Napoli, dal dopoguerra agli anni sessanta” edito da Guida, Napoli. Come ben si comprende dal titolo, questo libro narra con ricchezza di particolari e di riscontri come sia nata a Napoli la musica jazz immediatamente a ridosso della fine della seconda guerra mondiale. Individuare i momenti in cui e’ arrivata in Italia questa grande forma d’arte del secolo appena trascorso e’ operazione assolutamente meritoria e di grande interesse. Era ora che si iniziasse sistematicamente a scrivere sull’argomento. Questi lavori riferentisi a varie citta’ italiane, senza nessun dubbio stanno iniziando a concorrere a mettere le basi per una grande e importante storia del jazz in Italia.
Il libro del quale sto parlando e’ basato su una ricco documentazione storica e su interviste estremamente indicative del periodo storico. In questi giorni e’ uscito un altro libro sulla nascita del jazz in un’altra grande citta’ del sud, Bari. E’ di grande interesse notare come certi fenomeni storici e certi meccanismi di divulgazione del fenomeno stesso siano assolutamente identici e comparabili. Un fatto comune a queste fioriture nelle grandi aree metropolitane era dato, per esempio, dalla circolazione fra i giovani dei V Disc che facevano parte della dotazione personale di ogni soldato alleato sbarcato in Italia. V sta per “Victory”. Sono stati indubbiamente un veicolo incredibile e straordinario per far circolare con grande rapidita’ il jazz in Europa. Non sarebbe male che un giorno, visto che stiamo parlando dell’Europa, qualcuno studiasse a fondo come in Francia, per esempio, il jazz avesse avuto contributi diversi, sto pensando all’intreccio straordinario della musica afroamericana con i meccanismi sonori aggiunti a questa musica con grandissimo talento dal mitico Django Reinhardt. Ma torniamo a Napoli. Mi preme assolutamente far notare una caratteristica estremamente importante del periodo che e’ stato lumeggiato da Diego Librando. Se il jazz si e’ propagato rapidamente nei grandi centri urbani e’ stato per due ragioni fondamentali: le sedute di ascolto fra appassionati e la conseguente creazione di hot club che riunivano tutti i musicisti e gli appassionati di questa nuovissima forma d’arte musicale. Un fatto comune e spontaneo a molte citta’ italiane fu la voglia delle nuove generazioni di riunirsi per ascoltare, magari lo stesso brano suonato da musicisti diversi, e poi analizzarlo con metodo, con passione, con competenza, con grande entusiasmo, mettendo in moto dei meccanismi di conoscenza che facevano onore a chi li esercitava. La creazione di club o circoli o associazioni, che all’epoca erano tutti conosciuti come hot club, metteva in movimento questi meccanismi di conoscenza e di approfondimento che hanno avuto dagli anni cinquanta agli anni sessanta una diffusione travolgente e capillare in moltissime aree metropolitane. Il Circolo Napoletano del Jazz ha organizzato in quel periodo delle jam session e dei concerti da leccarsi i baffi. Un’altra caratteristica comune a diverse aree metropolitane, per esempio, purtroppo era data dallo scarso interesse che la stampa locale dava a un tale fenomeno culturale. Le giovanissime generazioni e quelle immediatamente a ridosso avevano indubbiamente la vista piu’ lunga degli allora reggitori e manipolatori dei mezzi di informazione di massa. A proposito del bel concerto a Napoli di Lionel Hampton al Teatro Mediterraneo nell’aprile del 1956, Librando, nel suo bel libro, scrive “…Come nel caso del concerto di Armstrong, la stampa si ‘dimentico” della manifestazione…” e piu’ avanti continua “…Nonostante la scarsa attenzione della stampa…”. E, ancora, si legge, a pagina 85, “…il concerto in maggio del trombettista americano Chet Baker. Evidentemente la stampa cittadina era distratta da cose piu’ importanti…”. La stessa cosa accadeva in un’altra grande citta’ del meridione, Bari, citta’ che, dal punti di vista giornalistico, in quegli stessi anni non ha praticamente quasi mai tenuto al corrente i suoi lettori su tutto quello che si muoveva nel campo della cultura musicale giovanile a livello jazzistico. Una cosa molto importante si puo’ notare, leggendo il bel libro di Diego Librando, e’ la notevole carica propulsiva che il CNJ, Circolo Napoletano del Jazz, ha dato negli anni fra il 1950 e il 1960 alla cultura musicale della capitale partenopea.
Completano il libro interviste a personaggi dell’ambiente musicale napoletano e non, personaggi che sono assolutamente emblematici della cultura del momento e della passione che attraversava orizzontalmente il grande continente giovanile napoletano.
Penso con grande nostalgia al momento magico, del quale sono stato diretto testimone anche io, momento oltre che magico anche di grande civilta’ culturale, nel quale in due straordinarie citta’ del sud, come peraltro accadeva anche in altri centri, si riunivano con grande passione gruppi di giovani che analizzavano e sezionavano fino allo spasimo dischi di musica jazz, contribuendo cosi’ a formare sia i nuovi esecutori di questa musica straordinaria, che i nuovi lettori/critici/storici/appassionati di questo fenomeno cosi’ intrigante.
Penso con una rabbia profonda alla reazione assurda che, alcuni mesi fa, ebbero alcuni miei amici neomusicisti jazz ai quali avevo proposto di dedicare magari un paio di ore la settimana per ascoltare un pò di musica jazz. Fui guardato come si potrebbe guardare un povero mentecatto mentale che sta straparlando di non so cosa.
A parte questa malinconica considerazione che mi viene pensando a quello che e’ stato e a quello che oggi e’, mi permetto di consigliare la lettura di questo gran bel libro di Diego Librando, con la speranza che, un giorno non lontano, le varie storie, metropolitane e non, del jazz in italia, finalmente possano confluire in una grande storia del jazz in Italia, storia della quale, a mio parere ormai se ne sente la necessita’, vuoi per il grande rispetto che dobbiamo alla Storia in generale, vuoi per evitare che una stagione creativa magnifica nel campo della musica italiana, venga seppellita sotto una montagna di anonime e soprattutto inutili banalita’.
Il libro si chiama “Il jazz a Napoli, dal dopoguerra agli anni Sessanta”, l’autore e’ Diego Librando, l’editore e’ Alfredo Guida di Napoli, pagg.178, € 14,20. Vale la pena di leggerlo.
Link:
Guida Editori: www.guidaeditori.it