Tra i maggiori talenti italiani del nuovo chitarrismo jazz, Giovanni Francesca coniuga nella sua scrittura e nella sua tecnica stilistica tutta la versatilità delle sue esperienze e influenze. Nel brillante discorso portanto avanti con i suoi progetti e con le sue collaborazioni l’auspicata ipotesi di un luminoso futuro ha lasciato ormai posto a una solida certezza.
Giovanni, vuoi raccontarci come ti sei avvicinato alla chitarra e alla musica? Quali sono stati gli ascolti e i maestri formativi dei primi tempi?
Ho iniziato a suonare la chitarra a nove anni circa stimolato da mio padre, chitarrista e appassionato di musica, ma la mia prima esperienza con questo strumento è durata solo pochi mesi, suonare la chitarra non rientrava fra le mie priorità in quel periodo. La passione vera e propria è nata all’età di sedici anni, quasi per gioco, spingendomi, giorno dopo giorno, ad elaborare una specie di “dipendenza” verso la chitarra. Nel 1995 sono entrato in Conservatorio e parallelamente suonavo tantissimo rock. Trascorrevo le giornate ascoltando Led Zeppelin, Deep Purple, Hendrix, King Crimson e molti altri gruppi storici, imitavo i miei chitarristi preferiti e mi capitava spesso di suonare musica leggera in piccoli gruppi di piano bar.
Hai suonato, inciso e collaborato con due giganti della canzone italiana come Mino Reitano e Al Bano Carrisi. Il pop e la musica mainstream sono stati una palestra importante per quali fattori?
Durante gli otto anni passati con Mino Reitano ho avuto molte soddisfazioni. Sono stati anni molto importanti dal punto di vista strettamente professionale, ho suonato in splendidi teatri e sale da concerto in America, Australia, Canada e in giro per l’Italia, ho partecipato a svariate trasmissioni televisive e collaborato con bravissimi musicisti. Avevo appena vent’anni, ma ho assaporato fino in fondo il senso dell’essere musicista al servizio di qualcuno, del dare importanza a cose che erano lontane dalla mia indole musicale. Sera dopo sera, ogni volta in un luogo diverso a suonare una musica che non ti rispecchiava, ma sempre pronto a fare del tuo meglio e a dare il massimo per la buona riuscita del concerto. Con Al Bano invece il lavoro si è svolto soprattutto in studio, quindi era richiesta la capacità di essere versatili e creativi. Ricordo una notte in cui registrammo e mi chiese una chitarra alla Paco De Lucia che tra l’altro aveva già registrato in un suo disco. Ovviamente il paragone è impensabile ma ricordo che riuscii comunque ad accontentarlo e a ricevere i suoi complimenti.
Sarebbe corretto affermare che in seguito quell’influenza si è evoluta insieme al jazz con il progetto Rosso Rubino e nell’ancor più interessante album “Per quanto vi prego” del collettivo La Costituente? Cosa potresti dire e aggiungere in merito?
La passione per il jazz è nata un po’ prima dell’esperienza Rosso Rubino. Il progetto Rosso Rubino è stato una parentesi molto bella, fatta soprattutto di grandi risate e di una amichevole convivenza che ci ha portato, naturalmente, a scrivere dei brani d’autore, anzi direi a musicare i fantastici testi di Lorenzo Catillo. In seguito l’organico si è trasformato, forse anche a causa della mancanza del live, e si è giunti al collettivo La Costituente, del quale ho fatto parte soprattutto come compositore.
Per quanto riguarda il jazz e i suoni limitrofi al genere puoi invece vantare esperienze al fianco di Antonello Salis, Luca Aquino, Ack Van Rooyen, Maria Pia De Vito, Javier Girotto, Luca Bulgarelli, Mirko Signorile, Raffaele Casarano e Marco Zurzolo. Quali tra queste hanno più inciso e sono risultate più stimolanti per la tua crescita come strumentista, compositore e arrangiatore?
Ogni tipo di collaborazione ti lascia qualcosa su cui meditare e in qualche modo riesce a mettere a fuoco quali sono i tuoi punti di forza e le tue carenze. Ricordo di una sera a Roma, in cui dovetti fare un solo dopo Javier Girotto che aveva appena fatto un intervento molto bello e particolare. Sul momento pensai che sarebbe stata dura, quindi dovetti cambiare rapidamente approccio cercando di suonare qualcosa che sarebbe andata in contrasto a quello che aveva appena fatto Girotto. Alla fine andò bene ed il pubblico apprezzò. Ero teso anche quando feci l’arrangiamento di No Surprises, per la splendida voce di Maria Pia De Vito, nell’album “Lunaria” di Luca Aquino. Avevo paura di fare qualcosa fuori luogo e lontano dal suo modo di cantare perché volevo comunque inserire la mia visione musicale. Non mi feci condizionare e andai, istintivamente, per la mia strada. Ne è venuta fuori una versione molto particolare e apprezzata, grazie all’incantevole voce di Maria Pia e ai personali interventi di Luca. Ricordo positivamente tutti gli incontri fatti finora e spero di farne tanti altri.
Il tuo suono attinge da molti ambiti e si spinge anche verso contesti e linguaggi più articolati quali la libera improvvisazione, l’avant rock e l’elettronica. Una peculiarità che si rende più manifesta nel tuo ruolo all’interno del Telegraph Trio, messo in piedi con il bassista elettrico Dario Miranda e il batterista Aldo Galasso. Quali presupposti sono all’origine di questa formazione e quali altri contributi discografici possiamo aspettarci dopo l’ottimo “Telegraph”, pubblicato tempo fa con il rinomato marchio Leo?
Il trio Telegraph è uno dei progetti di cui vado più fiero. E’ il frutto di anni e anni passati insieme a suonare e a confrontarsi, partendo dall’idea che il suono comune della band fosse più importante della singolare e autonoma iniziativa personale. Inoltre il legame di amicizia che ci unisce da tempo è stato fondamentale per elaborare una musica basata soprattutto sull’improvvisazione, sull’ascolto e sull’estemporaneità. L’unico rammarico è che con un progetto così non riusciamo a trovare molti posti dove poter suonare, il pubblico non è abituato all’inatteso, l’imprevisto e il “diverso” continua a spaventare. Stiamo comunque lavorando al secondo disco, che sarà più “strano” del primo e vedrà un grande ospite di cui non voglio anticiparti il nome.
Sei stato e penso resti ancora un punto di forza del nuovo e ultimo quartetto del trombonista Alessandro Tedesco. Che rapporto vi lega e come espleti o consideri il tuo ruolo all’interno di questa formazione?
Considero Alessandro un ottimo musicista e mi sento a mio agio e libero di esprimermi quando suono nel suo quartetto, inoltre i suoni brani rappresentano un terreno fertile su cui fare sperimentazioni timbriche e armoniche. Quando mi ha contattato, ha espresso l’esigenza di voler cercare un sound più personale attraverso anche l’uso della chitarra in modo non convenzionale, almeno per il jazz, con effetti e sovrapposizioni di suoni. Questo approccio è quello che perseguo già da tempo e non è stato difficile, per me, contribuire al suono del suo quartetto.
Parliamo di “Genesi”, il disco come leader con cui hai debuttato nel 2012 grazie al marchio di qualità Auand. L’album è stato ben accolto da quasi tutta la critica specializzata e ti ha rivelato quale astro nascente della chitarra avant jazz nazionale. Da quali urgenze e influenze estetiche nacque “Genesi” e in che modo pensi ti abbia aiutato a crescere sul piano tecnico e compositivo?
Sono lusingato per le parole che mi ha rivolto la critica, in realtà io sento che ho ancora molto su cui lavorare e cerco di farlo con umiltà e dedizione, nonostante la fatica quotidiana e le trasformazioni che, fortunatamente, ti riserva la vita. “Genesi” è un disco ricco di contaminazioni, senza un processo compositivo unitario, nel senso che i brani li ho scritti in periodi diversi, ma con un’idea di sound concreta e reale. La difficoltà più grande è stata realizzare quell’idea di sound nonostante le differenze di scrittura e fondamentale è stato il contributo dei musicisti che vi hanno suonato. È stato soprattutto un lavoro di ricerca ma molto significativo e liberatorio. Sono felice che sia stato selezionato fra i migliori 100 dischi di jazz ai Jazzit Award del 2012.
Voci di corridoio dicono che il successore di “Genesi” si ormai in dirittura d’arrivo e che vi siano coinvolti, in qualche modo, anche Fabrizio Bosso e Rita Marcotulli. Quali rivoluzioni e sorprese ci riserverà il tuo nuovo album? Come s’intitola e per quale etichetta sarà pubblicato? Sono poi in vista altri progetti e collaborazioni?
Il nuovo disco è abbastanza diverso da “Genesi”, in primo luogo perché i brani li ho scritti già con l’idea di realizzare questo album e poi perché sono partito da un organico più piccolo, chitarra-violino-basso-batteria, che ha suonato in modo stabile in tutti i pezzi. Ho eliminato un po’ di elettronica concentrandomi soprattutto sugli arrangiamenti e sul mio modo di suonare. La vena compositiva di base penso sia rimasta la stessa, ma ho cercato di privilegiare il suono reale della band più che l’elaborazione dei suoni in studio. Sono molto contento del contributo di Marcotulli e Bosso, hanno impreziosito l’album rispettando e sforzandosi di capire l’idea che avevo in testa, così come hanno fatto gli altri miei compagni Dario Miranda, Aldo Galasso, Raffaele Tiseo e Alessandro Tedesco. Ancora non ho deciso il titolo dell’album così come la maggior parte dei titoli sono provvisori, non mi sento particolarmente ispirato a fare questo tipo di scelte infatti le lascio alla fine e mi faccio consigliare volentieri. L’etichetta penso sarà ancora una volta l’Auand di Marco Valente. Per quanto riguarda altri progetti, io e il bassista Dario Miranda stiamo pensando di registrare un disco in duo.
Tempo fa riflettevo sul fatto di quanto sia ormai cresciuta e agguerrita la scena musicale beneventana grazie a giovani e validi artisti come te, Luca Aquino, Alessandro Tedesco, Dario Miranda, Aldo Galasso e infiltrati come Carmine Ioanna. Lo spirito di collaborazione è anche forte oltre che praticamente frequente, inoltre un ruolo fondamentale continua a svolgerlo in termini di aggregazione il centro sociale Il Depistaggio. Che ne pensi? Quali altri musicisti del giro ci sarebbero da scoprire?
La scena musicale beneventana è ricca di talenti che nel tempo si sono confrontati e hanno instaurato rapporti di collaborazione. Negli ultimi tempi però non sento molta complicità fra i musicisti beneventani, forse perché ci sono sempre meno spazi dove poter suonare. Noto spesso l’assenza dei musicisti locali nei festival e nelle rassegne del luogo, e la presenza quando c’è, si limita ad una piccola esibizione spesso non retribuita. Questo non accade in altri posti, nei quali riscontro molta più unione e senso di appartenenza. Il Depistaggio per anni è stato un importante punto di riferimento per la musica, continua ad esserlo ma con molte difficoltà vista la mancanza, ormai radicata, di finanziamenti e la totale assenza dell’amministrazione locale. Un musicista beneventano che mi sento di segnalare è Antonello Rapuano, un grande pianista dotato di competenza e sensibilità.
Quali artisti e dischi internazionali ti hanno maggiormente colpito tra gli ascolti fatti di recente?
Ci sono musicisti affermati da tempo in continua evoluzione e giovani artisti con una visione assolutamente personale e interessante. Penso al nuovo trio di Jeff Ballard, al duo Mehldau-Guiliana, al chitarrista Nir Felder, a Dream Logic di Eivind Aarset e Jan Bang e al Trio Libero. A volte però riascolto i grandi del passato, tipo Davis o Hendrix, tanto per fare dei nomi e mi rendo conto di quante verità e bellezza eterna ci abbiano regalato.
Infine, che opinione hai dello stato e dell’ambiente del nuovo jazz italiano, quello suonato dalle nuove leve? C’è un pubblico competente e giovane a cui rivolgersi, critici attenti, e soprattutto ci sono spazi e opportunità per esprimersi, tipo festival, rassegne e club?
Ci sono giovani musicisti strepitosi. Uno che mi ha colpito particolarmente in quanto ad originalità e spessore musicale è Francesco Ponticelli, infatti non vedo l’ora di ascoltare il suo nuovo lavoro. Per quanto riguarda il pubblico, penso che se hai davanti normali appassionati o critici, comunque dotati di un minimo di curiosità e competenza, il tuo lavoro sarà apprezzato se risulterà sincero e scrupoloso, a prescindere da quella che è la tua proposta. Disastrosa, invece, è la situazione dei concerti. La difficoltà a trovare opportunità per suonare è demotivante. Che si tratti di club o festival, le dinamiche sono sempre le stesse: se conosci suoni, altrimenti non ti rispondono nemmeno. L’unica eccezione che ho potuto verificare ultimamente è proprio il Teano Jazz Festival.