Dall’alto anche della sua esperienza in qualità di studioso e filologo, il sassofonista, clarinettista e compositore Gabriele Coen è la più autorevole e felice espressione della tradizione klezmer applicata al linguaggio dell’improvvisazione e della world music. Dalla comparsa sulla scena italiana alla testa dei KlezRoym fino alla consacrazione internazionale con il progetto Jewish Experience, la carriera e i tanti interessi di un artista capace di coniugare il patrimonio musicale ebraico con le sintassi e le nuove frontiere della musica creativa. Di seguito l’intervista con l’artista, protagonista di due imperdibili concerti alla XXII edizione del Teano Jazz Festival.
Vorrei iniziare dal tuo vissuto personale per chiederti quali sono i tuoi legami con le radici ebraiche dal punto di vista familiare, culturale e casomai anche religioso.
Paradossalmente direi che il mio interesse per la musica ebraica non è partito dal mio contesto familiare. Mio padre Massimo Coen, violinista e compositore, pur essendo ebreo e iscritto alla comunità ebraica, non ha mai praticato la religione confessionale, ha sposato una donna non ebrea e ci ha cresciuti senza riferimenti all’ebraismo. Questo nonostante si sia salvato dall’occupazione tedesca fuggendo dalla finestra (è del 1933). Così io la musica ebraica l’ho scoperta per mio conto. Lui sapeva della tradizione musicale etnica, ma non la conosceva né l’aveva mai praticata. Il mio tragitto è stato un po’ più complesso, perché mi sono laureato con una tesi storica che riguardava l’apporto ebraico e arabo alla formazione dell’identità culturale spagnola a cavallo tra medioevo e era moderna – un periodo nel quale le due presenze in Spagna erano molto forti e che proprio per questo hanno prodotto, per reazione, un’identità cattolica molto potente. A me interessava il dialogo delle tre religioni monoteiste attorno al bacino del mediterraneo, allora e, in prospettiva, anche adesso. Così, piano piano ho scoperto che esisteva anche una musica ebraica spagnola, sefardita, e che era possibile anche un recupero di fonti musicali. Che chiaramente mi interessavano nella prospettiva di una loro rielaborazione, perché la mia formazione e il mio interesse erano d’ambito jazzistico: quindi, ricerca di nuovi canovacci armonici per l’improvvisazione, che infatti facevano capolino già in uno dei primi pezzi che ho scritto, Al Andalus, del 1992, che era ispirato alla terra di Andalusia. Il mio approccio all’ebraismo rimane comunque sempre fortemente laico.
Come ti sei avvicinato invece al mondo della musica? Quali influenze e riferimenti hai trovato stimolanti sul piano creativo e su quello strettamente tecnico e stilistico in relazione sia al sassofono sia al clarinetto?
Mi sono avvicinato alla musica in modo molto naturale, essendo mio padre Massimo violinista e compositore. Per quanto da piccolo non fossi particolarmente attratto dalla musica, forse perchè l’associavo alle assenze da casa di mio padre, spesso in giro per concerti. effettivamente i miei genitori hanno provato a far suonare musica ai miei due fratelli mentre con me non ci provarono neanche, visto lo scarso interesse dei miei fratelli. Ciò nonostante da piccolo frequentavo spesso i concerti di musica classica di mio padre, erano comunque esperienze che mi suggestionavano… il palco, le luci, il silenzio prima del suono, gli applausi, il saluto degli amici e del pubblico dopo il concerto. Verso i dodici anni ho iniziato ad approfondire il flauto dolce ma il vero inizio è avvenuto con il sax alto a quindici anni. Mio fratello aveva nel frattempo iniziato a suonare la batteria jazz alla scuola di musica di Testaccio. A casa giravano sempre molti dischi di jazz dove gli strumenti a fiato erano protagonisti. Tra i fiati ho scelto istintivamente il sax, forse lo strumento che più si identifica con la musica afroamericana. Poi con gli anni i gusti e le passioni cambiano, ho scoperto il mondo dei clarinetti e mi sono spostato verso altri tipi di sassofono, in particolare il sax soprano e tenore. In casa si ascoltava molta musica classica ma anche rock “colto” e jazz tramite mio fratello Emanuele. Il jazz e la musica improvvisata in generale mi hanno piano piano conquistato. il mio primo idolo è stato Charlie Parker, finchè sono stato altista. successivamente ho avuto una vera e proprio ossessione per l’universo espressivo di John Coltrane. Sono passato progressivamente al sax soprano e ho iniziato nei primi anni Novanta a mettere in relazione il jazz con le musiche del mondo. Successivamente ho iniziato ad approfondire la musica del Mediterraneo e la musica ebraica in particolare, ho iniziato a suonare anche il flauto, il sax tenore ma sopratutto il clarinetto e ben presto anche il clarinetto basso e altri strumenti a fiato etnici. Il sassofono soprano rimane comunque lo strumento in assoluto che preferisco e che ho maggiormente approfondito. Adoro il suono dolce ma penetrante che può produrre. È inoltre uno strumento che considero ancora vergine rispetto al sax alto o tenore, troppo identificati con il jazz “mainstream”. Per suonare una musica di frontiera è senz’altro ineguagliabile, trasformandosi a volte in un oboe classico, altre vote in una ciaramella o in un oboe indiano A tale proposito vorrei citare sei sopranisti che amo e che continuo ad ascoltare anche per rubarne i segreti del mestiere: John Coltrane, Wayne Shorter, Dave Liebman, Jan Garbarek, John Surman e Paul McCandless.
Solo successivamente ho scoperto l’altro meraviglioso mondo del clarinetto e del clarinetto basso, strumenti estremamente versatili con una forte identità sia nel repertorio classico e contemporaneo che nel jazz, e la musica popolare, in particolare est-europea. Qui i miei riferimenti sono Gabriele Mirabassi, Don Byron ma anche la formidabile Anat Cohen.
Cosa unisce il klezmer, il patrimonio musicale ebraico, al jazz e ad altri linguaggi affini?
Il klezmer e la canzone yiddish rappresentano da sempre una musica di fusione, il canto sinagogale ebraico mescolato con struggenti melodie zingare, con il folclore rumeno e con quello ucraino. Sbarcati nel Nuovo Mondo, i klezmorim furono naturalmente portati a confrontarsi con le altre culture in una dialettica continua tra conservazione della propria identità ed assimilazione alla nuova società americana. Sul piano musicale tutto ciò si traduce in un nuovo tipo di musica che coniuga il sound ebraico con le nuove frontiere sonore offerte dal jazz e dalle altre culture musicali presenti negli Stati Uniti. Esistono dei punti di contatto innegabili tra la musica degli immigrati ebrei e le prime forme di jazz degli afroamericani. I musicisti di entrambe le tradizioni provenivano da ambienti socioeconomici e culturali dominati dallo strapotere dell’America bianca e protestante. Sul piano più strettamente musicale gli organici strumentali sono accomunati da una massiccia presenza di ottoni su cui domina il solismo del clarinetto. Se gli ebrei portarono a casa gli strumenti che avevano imparato a suonare nelle bande delle armate zariste, i musicisti afroamericani degli Stati del Sud si impossessarono di trombe e tromboni abbandonati dopo la fine della Guerra civile americana. Lo stesso approccio vocalizzante, l’uso del vibrato e dei glissati, il gusto per la varietà timbrica caratterizzano questi due mondi musicali, più vicini di quanto si possa immaginare.
All’attività di musicista e compositore unisci anche quella di ricercatore, divulgatore e studioso della tradizione, storia ed evoluzione della musica klezmer, del folk ebraico e della cultura yddish, essendo, tra l’altro autore di due interessanti pubblicazioni sull’argomento quali “Klezmer, la musica popolare ebraica dallo shtetl a John Zorn” edito nel 2000 da Castelvecchi e in seguito nella pubblicazione del saggio “Musica errante. Tra folk e jazz: klezmer e canzone yiddish” edito nel 2009 da Stampa Alternativa, entrambi scritti a quattro mani con Isotta Toso. Che risultati pensi d’aver ottenuto nel corso di queste ricerche e cosa è travasato nel tuo mondo musicale?
Sì il libro è stato un momento molto importante del mio lavoro, quasi un diario di bordo delle mie navigazioni musicali. La scrittura di argomento musicale mi ha sempre attratto e già nei primi anni Novanta collaboravo ad alcune riviste come “Time Out Roma” e “I Fiati” in qualità di giornalista musicale. Inoltre, essendomi laureato in Scienze Politiche, presso la cattedra di Storia Moderna, ho sempre avuto una grande passione per la storia e una certa familiarità con la scrittura. Nel ’98 iniziammo con Isotta Toso, che poi sarebbe diventata mia moglie, a concepire l’idea di questo libro, in cui io mi sarei occupato della parte più prettamente musicale e lei di quella storica e culturale. Uscito per la Castelvecchi Editore nel 2000 il libro ha riscosso da subito grande entusiasmo, essendo tra l’altro l’unico testo in italiano in materia. Purtroppo la Castelvecchi fallì pochi mesi dopo e il libro divenne di difficile reperibilità. Abbiamo dovuto aspettare il 2009 per riproporre il libro completamente rieditato e abbinato ad un CD per Stampa Alternativa. Il libro mantiene un taglio divulgativo e giornalistico. Per certi versi vuole essere uno strumento utile anche a chi si avvicina per la prima volta a questo universo. Nella nuova edizione naturalmente mi sono molto soffermato sul rapporto tra jazz e musica yiddish, che poi è diventato il cuore del mio ultimo disco per la Tzadik.
Che mi dici dell’esperienza pioneristica con i Klezroym?
I Klezroym sono stati il primo gruppo con cui mi sono fatto conoscere e con cui ho raggiunto traguardi importanti (cinque dischi, centinaia di concerti effettuati). Con i Klezroym la formula vincente è una front line di tre fiati (Andrea Pandolfo alla tromba e Pasquale Laino al sax alto e baritono) con cui intrecciamo contrappunti a volte balcanici, a volte jazzistici. Il repertorio è molto accattivante e più facile all’ascolto grazie alla voce di Eva Coen, mia sorella, e Riccardo Manzi che suona anche la chitarra e il bouzuki. La ritmica di Andrea Avena e Leonardo Cesari fa il resto. L’anno prossimo festeggeremo i venti anni di attività con alcune iniziative.
All’interesse di John Zorn si devono gli ultimi due splendidi dischi pubblicati con il marchio Tzadik e intestati al tuo progetto “Jewish Experience”. In special modo come illustreresti e spiegheresti il repertorio dell’ultimo “Yiddish Melodies in Jazz”? Inoltre, che riscontri hai ottenuto a livello nazionale e internazionale per quanto riguarda l’attività concertistica dal vivo?
Dopo un disco molto personale ed emotivamente esplosivo come “Awakening” (2010), che è stato, anche grazie all’entusiasmo di un produttore come John Zorn, una tappa fondamentale nella mia ricerca musicale, volevo che il mio nuovo lavoro fosse all’altezza della sfida continua che Zorn lancia a tutti noi raccolti nel progetto Tzadik con la sempre stimolante dichiarazione di intenti della collana che ci ospita (la Radical Jewish Culture). John Zorn ci invita a proporre una nuova musica ebraica capace di raccontare il passato e allo stesso tempo di proiettarsi verso il Ventunesimo secolo. Ed era da molto tempo che sognavo di poter lavorare ad un progetto che coniugasse le due grandi passioni che hanno animato tutto il mio percorso artistico fino ad oggi, così ho concepito questo disco come un diario di bordo delle mie avventurose scoperte attraverso le geografie sonore della musica ebraica e del suo incontro con il jazz. Con “Yiddish Melodies In Jazz” ho voluto infati raccontare, reinterpretandola e giocando con la cifra stilistica che appartiene a me e ai musicisti che mi accompagnano ancora una volta in questa avventura, una parte importante del jazz moderno, il suo debito segreto alla musicalità ebraica annidata nelle sonorità del mainsteam americano. in particolare ho studiato e stravolto le versioni di brani di origine ebraica di alcuni grandi solisti, dalla Original Dixieland Jazz Band a Shelly Manne, passando attraverso Ella Fitzgerald, Benny Goodman, Cab Calloway, Billie Holiday e molti altri. Lavoro con questi splendidi musicisti ormai da molti anni. Pietro Lussu (pianoforte) in particolare è anche un grande amico da sempre e abbiamo fatto insieme le prime esperienze musicali fin dal nostro debutto al Music Inn di Roma nel 1998 con Matthew Garrison.Lutte Berg, è in assoluto uno dei musicisti con cui preferisco salire sul palco e anche con lui ormai si lavora insieme da oltre quindici anni. Nel progetto Jewish Experience, ma anche nel precedente “Atlante Sonoro”, abbiamo affinato per anni l’intesa tra i due strumenti armonici e credo con orgoglio di aver raggiunto un ottimo equilibrio, grazie anche alla stima e alla compatibilità tra le due personalità. Lutte più esuberante e Pietro con la sua posata eleganza. Il tutto coadiuvato dal gioco di squadra prodotto da Marco Loddo (contrabbasso) e Luca Caponi (batteria). Naturalmente aver inciso due dischi per La Tzadik e John Zorn qualche differenza la fa ma purtroppo a questo interesse diffuso non corrisponde poi la capacità di essere invitati a suonare all’estero viste le difficoltà economiche degli ultimi cinque anni
Al Teano Jazz Festival ti proponi anche con un progetto, in trio, intitolato “Klzemer Night”. Di cosa si tratta di preciso?
Sostanzialmente è la mia formazione ridotta con cui ho il piacere di esibirmi molto spesso negli ultimi anni. La dimensione più intima del trio, con il contrabbasso di Marco Loddo e la chitarra di Lutte Berg, ti consente una grande espressività e la capacità di esprimere tutte le sfumature di questo repertorio, sempre con un occhio all’improvvisazione jazzistica.
Hai anche altri interessi e impegni che ti vedono legato sia alla Piccola Banda Ikona sia al Camera Ensemble. Che puoi dirci al riguardo, quali terreni investigano i due progetti?
Camera Ensemble è un’altra formazione a cui tengo molto, interessante già per il tipo di organico. Si basa sul suono del violoncello – Benny Penazzi, violoncellista di Santa Cecilia – poi la chitarra acustica di Giovanni Palombo, io ai fiati e i tamburi a cornice di Andrea Piccioni. L’idea è quella di far convergere il suono classico del violoncello con quello etnico della chitarra e delle percussioni, con il medio dei fiati. Il repertorio è per lo più originale, ma con ispirazione mediterranea e jazzistica, un po’ alla Oregon. Anche con la Piccola Banda Ikona di Stefano Saletti ho avuto modo negli ultimi dieci anni di continuare ad esplorare i nessi tra musica ebraica, araba e cristiana, facendo decine di concerti in giro per il nostro adorato Mar Mediterraneo.
C’è anche da ricordare e sottolineare che lavori per cinema, televisione, teatro e danza. Tra le tante opere e produzioni quali ricordi con maggior piacere?
L’esperienza più bella è stata lavorare al film di Davide Marengo, “Notturno bus” (2007) assieme a Mario Rivera. Lavorare sulle musiche da film mi piace, perché mi da la possibilità di mescolare piani diversi. L’avevo già fatto con i KlezRoym, con i quali avevo curato le musiche del primo film di Emanuele Crialese, “Once We Were Strangers”, che però – come accade a tanto cinema italiano – da noi quasi non è stato distribuito, nonostante abbia avuto un buon successo in Francia. Nel cinema, al quale sono affezionato per cultura, lavora anche mia sorella, Eva Coen, che poi è anche la cantante dei KlezRoym. Ma mi attrae anche far dialogare la musica con il teatro, perché in generale mi piace molto scrivere la musica, oltre che eseguirla. Così, quando ho tempo, seguito a studiare composizione, arrangiamento, armonia, pianoforte.
Ultimamente hai presentato con un quintetto d’eccezione anche il repertorio di John Zorn. Quale urgenza e necessità ti hanno spinto a tale progetto? Quali compagni di viaggio hai scelto e su quali presupposti hai operato le scelte e la selezione all’interno di un corpus e di un song-book immenso e variegato come quello zorniano?
Per questo progetto ho voluto con me importanti esponenti della scena jazz italiana come il batterista Zeno de Rossi e il contrabbassista Danilo Gallo, musicisti chestimavo già da molto tempo e che sapevo essere zorniani della prima ora. Accanto a loro personalità eclettiche e stimolanti come il violoncellista Benny Penazzi e il fisarmonicista e pianista Luca Venitucci. Un quintetto acustico quindi con forte presenza di archi e di ance (quelle dei miesi strumenti e della fisarmonica!). Abbiamo cercato di ripercorre l’immaginifico ed eclettico mondo zorniano, dal Masada Song Book al più recente “Book Of Angels”, senza trascurare alcune incursioni nel repertorio dei suoi Naked City e nella produzione di colonne sonore di Zorn, i cosidetti Filmworks che rappresentano la vera colonna vertebrale di tutta la sua attività compositiva.
Infine, cosa bolle in pentola e cosa dobbiamo aspettarci da Gabriele Coen nel prossimo futuro?
Sto pensando contemporaneamente a due nuovi progetti molto diversi: il primo è una libera interpretazione del repertorio di Kurt Weill, andando a pescare in tutto il suo prezioso repertorio, non solo l’arcinota “Opera da tre soldi” e “Mahagonny”. Per il progetto Weill ho confermato la stessa formazione dell’omaggio a John Zorn. Il secondo, che invece coinvolge i miei collaboratori del Jewish Experience, è un progetto fatto di dieci brani originali scritti da me che ruotano attorno alla mistica ebraica e alle sonorità che partono dal jazz rock alla Miles Davis.