Al fianco di James Brown e poi di George Clinton ha architettato e diretto l’epica rivoluzionaria del Funk. Con il suo trombone e le sue eccezionali doti di compositore, produttore e arrangiatore Fred Wesley ha trasformato in oro parte del Jazz e la Black Music in tutte le sue possibili e incredibili forme.
Da quando hai iniziato a suonare come si è evoluta, secondo te, la black music nel corso degli anni?
Quando ho iniziato a suonare la musica era fatta con l’immaginazione, che proveniva in modo diretto dalla mente di una persona, con influenze che noi avevamo ricevuto dai nostri padri e che questi, a loro volta, avevano preso da gente venuta ancor prima. Il modo in cui io le ho ricevute è stato attraverso l’ascolto di gente come Ray Charles e gruppi come la Bobby Blue Band, artisti di questo tipo grazie ai quali ho sviluppato e creato poi la mia musica. Oggi però la moda sembra essere quella di ascoltare la musica degli altri e di copiarla, lo chiamano “campionamento”. Copi direttamente le idee e le invenzioni degli altri, le usi come basi e ci metti altra musica attorno.
Quando hai iniziato a suonare e chi sono stati i tuoi modelli di riferimento per quanto riguarda il trombone? Hai anche imparato a suonare altri strumenti?
Il trombone ho iniziato a studiarlo e a suonarlo all’età di tredici anni. Le mie più importanti influenze di partenza sono state quelle di J.J. Johnson, Curtis Fuller, Frank Rosolino e Carl Fontana, vale a dire i grandi trombonisti jazz degli anni Cinquanta e Sessanta. Però dall’età di tre anni già suonavo il piano e successivamente ho appreso come suonare lo xilofono, il triangolo, i cembali e la batteria. Ancora dopo mi sono applicato al contrabbasso e al basso elettrico. Avevo l’abitudine di trafficare e armeggiare con tutti gli strumenti che mi trovano intorno ma il trombone è stato fin da subito l’unico di cui sentivo realmente la necessità, quello che m’incantò non appena ebbi modo di ascoltarlo e di suonarlo.
Hai visto passare davanti ai tuoi occhi gran parte della storia del jazz e della black music, storie di cui anche tu sei diventato protagonista avendo fatto parte di molte formazioni e suonato con un numero impressionante di grandissimi artisti e musicisti. Ad ogni modo, ti andrebbe di raccontare qualcosa di speciale e interessante su James Brown e sui diversi periodi in cui hai suonato nelle sue band? Come ti è capitato di diventare il suo arrangiatore e, soprattutto, com’era lavorare al suo fianco?
Posso dirti qualcosa di speciale su James Brown. Lui è stato l’artista “nuovo” giunto improvvisamente sulla scena, un autentico innovatore, uno che non faceva le cose come le facevano gli altri, e cosa più importante, uno tra i pochi che non ha mai copiato nessuno. Chiedi come io sia diventato il suo arrangiatore? Bene. Lui aveva appena firmato un accordo con la Polydor e in base a questo contratto doveva registrare e pubblicare un certo numero di album ogni anno. Così mi scelse come suo braccio destro e mi diede un sacco di lavoro da fare, cose su cui sperimentare, con la musica e con i musicisti delle sue band di studio. Lui canticchiava o mi accennava qualcosa e io dovevo partire da quello. Perciò ho dovuto sperimentare e imparare molto. Ho imparato come si registra e come si produce un disco, sotto la sua guida, naturalmente, ma la maggior parte della faccenda si risolveva a come fare certe cose che lui poi approvava o disapprovava. Mi trovavo praticamente seduto al posto del guidatore e mi sento fortunato ad esserci stato per il tempo in cui è durato.
E invece cosa puoi dirmi riguardo al periodo in cui hai collaborato e suonato con George Clinton nel gruppo dei Parliament e in quello dei Funkadelic?
Quello è stato il mio periodo “free”. George Clinton mi disse di fare qualcosa di realmente “cattivo” con la sezione fiati, perciò io aggiungevo i fiati alle sue tracce ritmiche, già di loro fantastiche. Qualche volta capitava che io aggiungessi i fiati prima ancora che fossero pronte le parti vocali o che lui avesse completato le basi strumentali ritmiche. Perciò il mio lavoro con lui fu certamente creativo ma molto più semplice e indipendente. Ho continuato a fare esperimenti, ma di altro tipo e solo attinenti alla sezione dei fiati.
Quali sono adesso i tuoi rapporti con William Bootsy Collins? Vi mantenete ancora in contatto?
Vedo Bootsy solo di tanto in tanto. Lui ha la sua band. Sono stato con lui quando guidava la Rubber Band. È stata una grande formazione con cui sono stati fatti dei bellissimi concerti. Ti ripeto, non ci vediamo più tanto spesso ultimamente, ma fa ancora grande musica con un’ottima band. Rimane comunque un mio carissimo amico.
Cosa ti ha spinto a entrare nell’orchestra di Count Basie e a mutare le tue attitudini e il tuo stile per un ambito più spiccatamente jazz?
Beh, all’epoca aveva già fatto qualsiasi cosa potessi fare con il funky. Avevo completato i miei esperimenti e le miei indagini in quel campo e così Count Basie arrivò e mi offrì un lavoro. Quando lo fece io esclamai solo: “Cosa?!”. Ero stupefatto. Fu una grande opportunità per ritornare alle mie origini, alle esperienze fatte con le big band. Sai bene che ho suonato con le big band militari durante il mio servizio sotto l’esercito. Ero elettrizzato all’idea di stare con Count Basie. È stato un formidabile musicista e bandleader. Nella sua orchestra ha suonato la gente migliore e ce n’era ancora tanta nel periodo in cui ne feci parte. È stata un’esperienza fantastica e indimenticabile.
Cosa mi racconti, invece, del periodo in cui tu, Alfred Ellis e Maceo Parker formaste gli JB Horns?
Quello fu un altro momento bello e fecondo della mia carriera. Maceo e Pee Wee vennero da me quando abitato e vivevo a Denver. All’epoca avevo messo il funk completamente da parte. Mi ero buttato anima e corpo nel jazz e avevo formato un bel quartetto con Bruno Carr, Ken Walker e Joe Bonner. Un bel giorno loro arrivarono e dissero: “Pass The Peas è ancora un grande successo!”, io replicai: “Pass The Peas? Che diavolo dite? Ah, sì, quel motivo che composi con James Brown”. Loro però continuarono dicendo: “E quello che s’intitola House Party, anche quello è di nuovo un hit”. Mi raccontarono di come a Londra le stazioni radio underground suonassero a ripetizione quei pezzi e fossero ritornati di moda ovunque, nei club e nelle discoteche di tutta Europa. Mi dissero che avevano mollato il gruppo insieme a Bobby Byrd e che volevano farne uno nuovo con me. “Ok, farò un tour con voi” risposi io. Così facemmo il tour e ottenemmo un grosso successo. Allora mi riproposi di mettere il jazz un poco da parte per dedicarmi al nuovo progetto per un breve lasso di tempo. Pubblicammo tre album, allestimmo anche una grande orchestra e suonammo cose pazzesche che nessun altro avrebbe potuto fare. Se ci pensi tre fiati – alto, tenore e trombone – che macinano funk e soul sono una cosa alquanto bizzarra ma fu un’esperienza magnifica.
Qual è oggi il ruolo dei New JB’s rispetto al passato? C’e qualche nuovo album in arrivo oppure in cantiere?
Non so se abbiamo un ruolo oppure no. In questi ultimi anni certi ruoli li sto anche forzando. In altre parole, faccio e suono qualsiasi cosa desideri. Per esempio quello che ho intenzione di fare adesso è un album basato esclusivamente sul blues del passato. Scriverò alcune canzoni che parlano della vita e ne verranno fuori dei pezzi blues. Faccio qualunque cosa mi senta di fare o che mi stimoli. Se vende, vende, in caso contrario non c’è problema. Penso che quest’album venderà!
Quale tipo di repertorio presenterai e offrirai al pubblico del Teano Jazz Festival? Vi saranno anche i pezzi storici e i maggiori hit originali?
In gran parte faremo alcuni motivi miei e alcuni di James Brown, specialmente quelli che avevo in mente di far diventare degli hit di successo. Ci saranno pezzi di Fred Wesley con gli JB’s come Breaking Bread e alcune mie composizioni come For The Elders. Poi suoneremo altri brani originali della band. Sarà uno show molto vario ma estremamente funky e sono certo che la gente gradirà!
Personalmente ho molto apprezzato anche gli Abraham Inc. il progetto klezmer-hip hop-funk che hai formato insieme a David Krakauer. Quel gruppo è ancora attivo e c’è speranza per un suo nuovo album?
Non so se faremo un nuovo disco oppure no, ma l’attività del gruppo dipende comunque da una nuova incisione. Dobbiamo per forza pubblicare un nuovo album per far girare e mantenere in vita la band, ma al momento ho poche speranze che ciò possa accadere. Certo, anche quella è stata per me una bella esperienza, devo ammettere anche piuttosto originale. Forse riusciremo a fare qualcos’altro.
Ti ritieni soddisfatto della gestione politica del presidente Obama e del suo secondo mandato?
Non mi occupo di politica. Non ne parlo neanche, perché ho alcune opinioni ben definite e personali, come tutti d’altronde, e pur tuttavia certe sbandierate da altri non mi trovano d’accordo.
Domanda finale. Che piani hai per il futuro?
Ho il piano di continuare a suonare e fare concerti. Il “blues” album sarà la mia prossima avventura in sala d’incisione. Cerco di mantenermi in salute e in forma per continuare a vivere il più a lungo a possibile, così da poter fare musica fino a che non arriverà la fine.