Originario di Castellammare di Stabia, Francesco Nastro è riuscito a confermarsi come una delle voci piu’ originali del piano jazz nazionale e internazionale, nonché come l’esponente di maggior spicco della nuova generazione di pianisti della scena campana e partenopea.
Francesco, quali circostanze ti hanno condotto a diventare pianista? Come ti sei formato sullo strumento?
Che diventassi musicista era inevitabile. Nella mia famiglia quando si riunivano si ballava, si cantava e si suonava sempre dopo cena, per cui se non sapevi fare una di quelle cose ti annoiavi. Per la mia formazione sullo strumento ho frequentato i normali corsi accademici, mentre tutti gli altri generi li ho imparati da autodidatta.
Quali influenze e quali ascolti in particolare ti hanno avvicinato al mondo del jazz?
L’incontro con il jazz non è avvenuto prestissimo, intorno ai 16 anni, e ci ho messo un po’ di tempo per avvicinarmi a questo genere in quanto prima ero folgorato dall’hardrock e suonavo in alcune band ai tempi del liceo. Poi un disco di Bennie Wallace “Mistyc Bridge” con Chick Corea al piano, Eddie Gomez al Contrabbasso, e Dannie Richmond alla batteria mi ha fatto cambiare idea.
Negli anni Novanta il tuo nome e la tua bravura erano già sulla breccia grazie al Francesco Nastro A tempi Alterni Quintet e soprattutto per l’esperienza in studio dell’album “Trio Dialogues” con il contrabbassista Gary Peacock e il batterista Peter Erskine. Quali ricordi hai di quel periodo e di quelle prime basilari avventure professionali?
Quell’avventura per me è come un sogno nitidissimo che mi accompagna sempre. Sia Peter e sia Gary sono stati così prodighi di consigli che sono diventati per me un continuo punto di riferimento per le mie successive esperienze.
Quello resta anche un glorioso periodo per il jazz suonato dai campani. Chi, come te andava forte era il chitarrista Pietro Condorelli, con cui all’epoca stabilisti, e penso ancora sopravvive, una felice intesa e collaborazione sfociata in numerosi progetti, concerti e dischi condivi. Cosa ne dici? Ritornerete ad unire le forze per qualcosa di speciale?
Pietro lo chiamai proprio per formare il Francesco Nastro A Tempi Alterni Quintet, e da allora abbiamo collaborato ad una marea di altri progetti. Adesso è un po di tempo che non ci frequentiamo, ma sono sempre contentissimo se capitasse un’altra occasione.
Successivamente, a partire dagli anni Duemila, ti sei proposto con varie formazioni in trio di cui una delle più riuscite era quella con il contrabbassista e Aldo Vigorito e il batterista Giuseppe La Pusata, autrice dell’album “Heavy Feeling”. Secondo te cosa rendeva speciale quell’alleanza?
Questo trio è stato molto importante per me in quanto ho potuto sperimentare con loro di tutto di più. Abbiamo suonato per alcuni anni al Bourbon Street, un jazz club di Napoli, e dato che suonavamo tutte le settimane, chiaramente cambiavamo ogni volta il repertorio, quindi abbiamo suonato migliaia di brani, di svariati autori e generi, un progetto simpatico fu addirittura sulle sigle dei cartoni animati. La cosa che rendeva speciale questo trio era il fatto che proprio che un giorno a settimana era dedicato alle prove, dove si sperimentavano direzioni musicali, brani originali e tantissime idee.
Con il batterista Giuseppe La Pusata suoni da tantissimi anni e spesso capita di sentirvi dal vivo in duo. Che qualità e quale tipo di creatività, anche sul piano tecnico, sollecita in te un batterista come lui?
Giuseppe suona anche un po’ il pianoforte ed io suono un po’ la batteria e a volte mentre suoniamo insieme ci dimentichiamo quale strumento stiamo suonando in quel momento. Forse e’ questa la cosa che rende speciale questo duo.
Piano acustico e piano elettrico. Come si differenzia il tuo approccio e cosa ti sembra ideale e più divertente suonare con il secondo?
Sono due strumenti completamente diversi, ognuno e’ adatto ad esprimere un certo sound. Il secondo lo abbino molto alla musica anni ’70 per cui quando suono qualcosa che si rifà un po’ a quelle atmosfere mi viene spontaneo il suono del piano elettrico.
Un disco sublime, anzi uno dei più riusciti e originali apparsi sul mercato italiano, è stato “Waiting For A New World”, inciso in quartetto e pubblicato nel 2011 su etichetta itinera. Vuoi ricordare gli altri musicisti spettacolari che ti accompagnarono in quel progetto e l’azzardo sia espressivo, sia compositivo del materiale lì scelto e proposto? Tra l’altro è un disco che mette bene in risalto il tuo strabiliante personale tecnico.
I musicisti sono: Giulio Martino al sax, Tommaso Scannapieco al contrabbasso e Mario de Paola alla batteria. E’ un progetto molto ardito in quanto il materiale di partenza è preso dalla tradizione classica. Molti oggi, tra l’altro pure io, prendono spunto da brani pop o della tradizione popolare, tutto sommato spesso i brani sono mediocri, ed è abbastanza facile che un arrangiamento jazzistico li rende poi speciali. Ma quando il materiale di partenza invece è già un capolavoro, come nel caso del CD in questione, allora è quasi folle metterci mano, ma allo stesso tempo è una grande sfida per il musicista: Tutto questo è per me molto stimolante. Infatti la mia prossima sfida è sulla musica di Bhrams, un compositore molto vicino ai miei gusti musicali.
Più vicini a noi sono invece i dischi, “Sea Inside” su Itinera e “Passione” su Cam Jazz, condivisi con il talentuoso Javier Girotto. Come vi siete trovati? Quali nuovi elementi, parlando in termini di gusto e di suono, hanno trasferito quelle due esperienze nel tuo stile e nel tuo modo di concepire la musica e l’improvvisazione?
Sono due esperienze diverse. In “Sea Inside” ho composto dei brani pensando alle personalità del quartetto e cercando di trovare un filo comune che facesse sbocciare naturalmente la musica, anche fra musicisti che non avevano mai suonato insieme prima. Quindi l’interpretazione di quei brani è stata una sorpresa anche per me, e di conseguenza anche il mio approccio si è poi modificato rispetto all’idea originale. Invece il duo con Javier è maturato da vari concerti che abbiamo fatto. Suonare con Javier è fantastico in quanto è un musicista molto curioso, quindi qualsiasi cosa gli propongo lui è sempre molto entusiasta. Con lui riesco a suonare anche brani molto arditi in quanto ha una lettura a prima vista praticamente perfetta.
Come vedi oggi la pratica di alcuni arcinoti colleghi di strumento di attingere dal mondo del pop e del rock?
La vedo come una normale evoluzione della pratica jazzistica, il materiale di partenza molto spesso stimola processi musicali diversi quindi diventa interessante sentire come i vari musicisti elaborano questi nuovi spunti.
Chi invece ti stupisce o colpisce seriamente tra le nuove leve pianistiche internazionali e nazionali?
Con gradita sorpresa sono riuscito ad ascoltare nei vari festival molti bravissimi pianisti europei, come ad esempio G. Simcock, ma ce ne sono molti altri. Mentre invece, anomalia tutta italiana, ho difficolta’ ad ascoltare i giovani pianisti italiani in quanto purtroppo e’ ancora forte il senso di esterofilia del nostro pubblico.
Parliamo infine di quello che sarà a breve il tuo nuovo album. Come si intitola, chi vi suona e cosa potremo ascoltarvi?
È uscito da pochissimo, a giugno, per l’etichetta Via Veneto Jazz e si intitola “Colors Of Light”. I musicisti che vi partecipano sono: Chris Jennings al contrabbasso e Giuseppe La Pusata alla batteria. I brani sono tutti originali tranne L’immensità di Don Backy. Molte composizioni sono state scritte e strutturate su tempi irregolari ma nonostante la complessita’ armonica e ritmica ritengo che abbiano tutte una melodia fluida e semplice.