Creatore e collaboratore di progetti tanto originali quanto diversi tra loro, il batterista Enzo Carpentieri riflette l’ala più eclettica e sperimentale del panorama jazzistico italiano. Al fianco di nomi prestigiosi dell’improvvisazione mondiale ha forgiato la sua estetica e la sua brillante tecnica ritmica traendo soprattutto ispirazione dall’emozione e dall’energia vitale della Natura.
Come ti sei avvicinato alla musica e alla batteria e quali sono stati, in corso di carriera, i tuoi maestri reali e virtuali?
Mio nonno da giovane cantava nei “bassi” di Napoli e in casa si ascoltava Carosone, Sergio Bruni e Mario Abate, mentre mio padre aveva un dancing club immerso nel verde dei colli euganei, adiacente ad uno zoo. Di giorno facevo visita agli animali ed ero affascinato da tutti i loro suoni, poi passavo al juke-box del bar e selezionavo canzoni a go-go, 3 selections solo 100 lire .. eravamo a metà degli anni ’60 e chi inseriva i 45 giri probabilmente aveva una passione per la musica inglese e americana, mentre dalla TV apprendevo solo di Mina e Celentano. Insomma una bella opportunità quella di poter ascoltare ripetutamente gruppi della scena rock e pop con le casse ad altezza delle orecchie. Un ricordo speciale va ad Outa Space di Billy Preston con tutti i suoi suoni elettronici oppure ad un I’m A Man dei Chicago … poi alla sera arrivava il gruppo dal vivo (“I Siliconi”, forse un nome avanguardista per l’epoca? Un pò come chiamarsi “I Neutrini”?). Si organizzavano pure delle gare internazionali di ballo, quindi quickstep o paso doble tra beguine e cha cha cha. A fine serata i musicisti lasciavano gli strumenti montati per i concerti successivi e la batteria era l’unico strumento non chiuso a chiave o riposto nelle custodie, quindi ne approfittavo volentieri. All’inizio prendevo a noleggio varie batterie fino alla classica domanda: “batteria o motorino?” Fu così che mi ritrovai tra le mani una bella Grestch Jazzette del 76, ad oggi ancora la mia preferita! Il centro d’arte degli studenti dell’univeristà di Padova me la chiese per poterla prestare ad un batterista afro-americano, io non seguivo il jazz, ma rimasi fulminato dal concerto e presi una cotta che non mi è ancora passata. Il batterista era Dannie Richmond! Da lì in poi mi ascoltai tutti i concerti della rassegna del centro d’arte fino ad oggi, facendomi delle belle scorpacciate di musica creativa e improvvisata, seppur l’amore principale era quello dell’hardbop che praticavo prendendo consigli a destra e a manca, senza aver mai un maestro fisso, ma andavo sempre ai concerti e iniziai a frequentare qualche seminario, come quello di Siena Jazz con Bruno Biriaco oppure in Umbria con Jimmy Cobb e altri incontri con Elvin Jones, Lewis Nash, Peter Erskine e altri che di sicuro ora mi sfuggono parlando a ruota libera. Comunque sia il ricordo più intenso va a Bob Moses con i suoi concetti reali e virtuali.
A prescindere da importanti e storici personaggi (Art Blakey, Elvins Jones, Kenny Clarke Billy Higgins, Max Roach, Tony Williams, John Stevens, Tony Oxley, Jack DeJohnnette, Paul Motian) nell’ultimo ventennio, il ruolo del batterista, in veste di bandleader e compositore, ha assunto funzioni e connotati sempre più rilevanti. In campo creativo e improvvisativo europeo e statunitense oggi ci sono magnifici progetti e dischi (come pure marchi di autoproduzione) intestati a nomi quali Ches Smith, Tim Daisy, Gerry Hemingway, Andrea Centazzo, Whit Dickey, Paal Nilssen-Love, Chris Corsano, Harris Eisenstadt, Mike Reed. In Italia fai parte anche tu di questa categoria, però come vedi la situazione attuale? Quali fattori e caratteristiche può sollecitare un batterista a capo di una band?
Metto sempre in paragone la Musica con la Natura. Sono realtà dell’Universo che vivono di vita propria: la Natura esiste e il Suono anche. Vivono e respirano da sole, a prescindere dalla mano dell’uomo che può deteriorarle o distruggerle; credo che il ruolo del batterista di un gruppo jazz abbia un potenziale elevato di distruzione ma allo stesso tempo un elevato potere di costruire il Suono di un gruppo. Spesso se sei a capo di una band porti musica propria e nella direzione che hai in testa, mentre in “Everywhere Is Here”, mio primo disco come leader, condivido tutto in modo paritetico con gli altri componenti del gruppo, anche se sono io la sorgente, l’ideatore, ma è musica basata sulla telepatia. È questo il messaggio per la prima opera discografica a mio nome.
Hai avuto il merito e il privilegio di suonare e incidere al fianco di tanti grandi musicisti, italiani e soprattutto stranieri. Quali esperienze e collaborazioni hanno più inciso e lasciato un segno nella tua crescita artistica?
Dietro l’angolo c’è sempre un musicista, anche sconosciuto, che ti arricchisce musicalmente. Nei primi anni sono stati per me fondamentali sicuramente Maurizo Caldura Nunez, Massimo Urbani e Sal Nistico. Poi ho avuto modo di collaborare con molti altri, su tutti Dick Oatts, che a mio parere non ha l’attenzione che meriterebbe, un musicista fantastico.
Un bel progetto e disco di diversi anni fa ti ha visto al fianco di John Tchicai, Greg Burk e Marc Abrams. Come nacque e a cosa mirava il Lunar Quartet ?
Senza averne mai sentito parlare scoprii Greg Burk e il suo pianismo in internet, lo ascoltai attentamente e ne rimasi affascinato. A quell’epoca ero il direttore artistico di un festival e mi sarebbe piaciuto invitarlo, quindi trovai il suo numero di telefono, sempre in internet, e lo contattai di persona offrendogli l’opportunità di suonare al mio festival. Lui mi propose un duo con Tchicai e fu così che incontrai John. Dopo un paio d’anni Greg si fece vivo con me e mi propose di fare qualcosa insieme a Tchicai e io proposi di mettere Marc Abrams al basso, incontrandoci tutti ad una seduta di registrazione ancor prima di aver mai fatto concerti insieme. Ne venne fuori “Look To The Neutrino”, un bel disco che ascolto sempre volentieri. John Tchicai è spesso associato al movimento del free jazz ma noi suonavamo musica “strutturata”. Nei concerti era d’obbligo partire sempre con il primo brano completamente improvvisato, e il resto attingeva da materiale scritto anche se non abbiamo mai fatto la classica scaletta in concerto, l’ordine dei brani era casuale, deciso al momento. Ogni tanto John recitava, cantava, ballava … e saltava fuori con qualche poesia orientale o che aveva scritto lui stesso. Purtroppo se ne è andato circa un paio d’anni fa in ottobre, quand’era ancora leone ruggente al massimo della creatività. Abbiamo una registrazione di un concerto dal vivo e vorremmo trovare il modo di pubblicarla, è un documento importante per tutti.
Con il pianista Greg Burk suoni attualmente, almeno dal vivo, anche in una formazione che comprende Stefano Senni e, talvolta, anche Pietro Tonolo. Cosa proponete e che speranze ci sono per un disco insieme?
In realtà siamo già stati in sala d’incisione con l’Expanding Trio e anche in questo caso stiamo cercando un produttore. La collaborazione con Pietro Tonolo sta dando buoni frutti e siamo tutti contenti e vogliamo continuare sia in trio che in quartetto.
Entriamo finalmente nell’universo sonoro dell’Enzo Carpentieri Circular E-motion, sfociato nell’ottimo album “Everywhere Is Here” del 2011 e attualmente ancora in evoluzione. Hai carta bianca per spiegarne nascita, organizzazione e obiettivi, senza dimenticare, naturalmente, di raccontare com’è avvenuto il tuo incontro con Rob Mazurek e cosa ammiri in lui.
Ho conosciuto Rob Mazurek ad un concerto dei Sao Paulo Underground e dopo il concerto siamo andati tutti a far baldoria, una seratona indimenticabile. Lo salutai lasciandogli il disco che avevo fatto con Tchicai e lui rimase felicemente impressionato dall’ascolto e mi disse che prima o poi avremmo dovuto suonare insieme. Non mi lasciai sfuggire l’occasione e in alcuni day off di un suo tour in Europa lo invitai a fare un concerto in trio con Danilo Gallo e una registrazione in quintetto con Enrico Terragnoli alla chitarra, e con due bassisti: Danilo Gallo e Stefano Senni. No so esattamente cosa ammiro di Mazurek, l’insieme è un mix altamente coinvolgente, risiede a Chicago ma ha vissuto per diversi anni in Brasile e nella foresta amazzonica. Noi siamo stati dieci giorni in un ovile da un nostro amico artista giù in Puglia e dopo aver scoperto di amare così tanto l’Italia l’ho convinto io stesso a celebrare il suo matrimonio americano in Sardegna, all’aperto, tra il sole e l’ombra di una pineta su uno scoglio in riva al mare. Indimenticabile!
Con quale formazione si presenterà Circular E-motion al Teano Jazz Festival?
Verremo a Teano in trio con Danilo Gallo al basso, ma il tour continuerà anche in trio con Pasquale Mirra al vibrafono ed è mia intenzione fargli conoscere anche Greg Burk con il quale si era pensato tempo fa di andare in Brasile insieme, in una formazione che ci avrebbe visto insieme a Rob Mazurek e Yusef Lateef.
Cosa puoi dirmi della scena musicale di Padova e del marchio di produzione e promozione ZeroZeroJazz? Inoltre, cosa pensi di collettivi quali El Gallo Rojo, Bassesfere e Improvvisatore Involontario?
Penso solo belle cose e seguo con massimo interesse le attività di Improvvisatore e Bassesfere anche se non ho mai avuto il piacere di collaborarci insieme. Con El Gallo Rojo ho avuto invece esperienze più ravvicinate e parlando con Danilo Gallo di questa intervista mi sembra significativo riportare le sue impressioni su ZeroZeroJazz: “Avendo abitato in Veneto per quasi 15 anni, ed a Padova per circa 5 anni, devo dire che la scena musicale padovana è sempre stata fiorente, a tutti i livelli e tutte le generazioni, la cosa più bella è che spesso i musicisti “veterani” si interscambiano e producono progetti con i giovani che sono sempre sorprendentemente numerosi e talentuosi. In questo panorama il marchio ZeroZeroJazz è stato ed è un fiore all’occhiello, un ponte di scambio attivo e ad alti livelli professionali, tra la realtà padovana e il resto del mondo, grazie a ZeroZeroJazz, musicisti al top del panorama internazionale hanno potuto affacciarsi alla città patavina e colorarne con la loro musica lo scenario culturale, grazie a ZeroZeroJazz un angolo di mondo è entrato in questa città e allo stesso tempo Padova e i suoi suoni hanno potuto esplorare il mondo”.
Qual è, a tuo avviso, a livello discografico e concertistico (festival, rassegne, spazi) lo stato della musica creativa e del jazz sperimentale in Italia?
Mi sembra ci sia stato negli ultimi anni un incremento dell’attenzione per la musica sperimentale talvolta con nuove piccole realtà anche grazie agli sforzi dei vari collettivi e alle forme di autoproduzione, mentre continuo a vedere poco spazio nei grandi festival e rassegne importanti. Qui siamo molto fortunati perchè la rassegna internazionale del Centro d’Arte degli Studenti dell’Università di Padova, una delle più longeve in Italia, ha sempre presentato il meglio delle nuove tendenze della musica sperimentale, con caparbia ostinazione.
Infine, quali piani, progetti, dischi e collaborazioni stai portando avanti o ti vedranno protagonista nell’immediato futuro?
Dopo il tour estivo con Rob Mazurek mi prenderò un periodo di riposo a Londra per farmi venire nuove idee e conoscere la scena inglese. In autunno ho in programma dei concerti in Italia in collaborazione con lo Smalls Jazz Club di New York.