Enrico Pieranunzi

Sound Contest: Ciao Enrico! Ci sono tantissime cose che vorremmo chiederti per quanto riguarda la tua lunga carriera e la tua ormai enorme produzione discografica.

Enrico Pieranunzi: In effetti di questa vastita’ inizio a rendermi conto anch’io ogni tanto, quando mi fermo a guardare indietro.

SC: Per prima cosa ci piacerebbe sapere come ti sei avvicinato al mondo del jazz. Sappiamo di tuo padre chitarrista attivo per lungo tempo.

EP: In realta’ e’ il mondo del jazz che ha avvicinato me, quando ero bambino ed ero a contatto con mio padre, chitarrista, appassionato di jazz, collezionista di dischi e grandissimo improvvisatore. Lui suonava jazz nei night, eseguendo le canzoni di Porter e Gershwin, per cui anch’io, sin da piccolo, ascoltavo questa musica. Mio padre noto’ in me qualcosa di particolare, una mia reattivita’ alla musica, per cui penso’ bene di comprare un pianoforte e di farmi prendere lezioni da una maestra che abitava nel palazzo.

SC: Hai effettuato anche studi classici, se non erro.

EP: Si, ho compiuto studi regolari. Facevo le scale, gli arpeggi ed altro, fino a frequentare il Conservatorio e a diplomarmi a ventidue anni. Nel contempo studiavo anche per conto mio e con mio padre che ad un certo punto ha iniziato a spingermi ad improvvisare, cosa che per me risultava abbastanza assurda, anche se poi, piano piano, cominciai a capire come funzionavano le cose.
Su questa scia, per conto mio, ho intrapreso un lavoro di decodificazione. Ricordo ancora lo shock che ebbi dall’ascolto di un disco di Charlie Parker: non capivo cosa stesse facendo ed ho impiegato anni per riuscirci, riproducendo al piano le sue cose. Ma e’ stato un lavoro lungo e faticoso.

SC: In effetti l’amore verso Parker e il bop e’ presente nei tuoi lavori, in particolare in quelli iniziali.

EP: Io nasco come pianista bop, perche’ i dischi che si ascoltavano a casa mia erano quelli di Charlie Parker, insieme a quelli di Tristano e Konitz, Baker e Mulligan, oltre a Django Reinhardt, che era ovviamente un idolo di mio padre. Pero’ il bop e’ stato il mio primo amore, al punto che le prime cose che ho suonato fuori dalle mura di casa appartenevano a quel repertorio. In seguito mi son preso una cotta per McCoy Tyner.

SC: In realta’ nel tuo pianismo si sente molto anche l’influenza del gia’ citato Tristano.

EP: Si, anche se si e’ trattata di un’influenza che ho sviluppato soltanto piu’ tardi.

SC: Non e’ ancora venuto fuori Bill Evans, musicista che in un tuo brano definisci il poet.

EP: Beh, i miei tempi sono sempre stati molto particolari, nel senso che ho scoperto il pianismo di Bill Evans quando gia’ suonavo da un bel po’ di tempo e dopo che gia’ avevo realizzato alcuni dischi. La scoperta di Evans fa parte di quelle tappe di un percorso artistico incoerente che mi ha portato a sviluppare la ricerca ogni qualvolta veniva suscitato in me un certo interesse.

SC: A mio avviso la matrice evansiana nel tuo pianismo e’ sempre presente ma quasi mai apertamente dichiarata, nel senso che trovo limitante affermare che tu sia un pianista esclusivamente evansiano.

EP: In realta’ tutti i pianisti della mia generazione sono un po’ evansiani, tranne qualcuno arrabbiatissimo come Joachim Kuhn o come Antonello Salis. Su Evans ci sono due discorsi da fare, uno sull’artista, l’altro sul pianista.
Bill Evans e’ stato un grande artista ed e’ sempre stata questa la cosa che di lui mi ha maggiormente affascinato, cioe’ riuscire a rendere il pianoforte uno strumento di comunicazione, perche’ il pianoforte in realta’ e’ uno strumento molto freddo, ripetitivo e meccanico, sul quale Evans e’ riuscito a compiere un lavoro artistico eccezionale.
Poi c’e’ l’aspetto pianistico, quello piu’ tecnico legato all’armonia, sul quale Evans ha fissato delle regole alle quali si sono rifatti tutti i pianisti europei ed americani, da Chick Corea a Keith Jarrett fino a Mulgrew Miller. Chiunque suoni il piano jazz fa in realta’ riferimento a Bill Evans.

SC: L’altro musicista americano al quale ti si associa, insieme a Bill Evans, e’ Chet Baker.

EP: È una bella associazione che qualche volta ho fatto anch’io, spiegandomi il tutto con il fatto che si tratta di due artisti melodici. Per me la grossa ricerca, dopo gli anni del bop e del modale, e’ stata proprio sulla melodia, scoprendo ad un certo punto di avere anch’io una spiccata vocazione in tal senso.

SC: Nelle collaborazioni con Chet c’e’ sempre stata da parte tua una particolare attenzione alla sua poetica, come se il tuo obiettivo fosse quello di esaltarne le caratteristiche.

EP: Secondo me restare indifferenti a Chet significava essere dei criminali. Per me fu un grosso shock suonare con lui e scoprire questo mondo fatto di poche note, di note ricche di significato, di melodie semplici. Chet suonava semplice, riuscendo ad ottenere il massimo col minimo. Io non potevo fare altro che immergermi in questo mondo, che era molto affascinante. A 29 anni ho avuto la sorte di suonare con lui in dischi e concerti, anche se la nostra collaborazione e’ stata a varie tappe. Abbiamo suonato insieme nel ’79-’80, all’epoca di Soft Journey, e poi ci siamo ritrovati al termine della sua vita per registrare Silence nel 1987 e poi i due lavori per la Philology in duo ed in quartetto nel 1988, The Heart of the Ballad e Little Girl Blue.
Subito dopo, un anno dopo, e’ partita la cotta per Bill Evans ed ho iniziato ad analizzare tutti gli aspetti di questo musicista, cercando di capire questo miracolo del canto, che per me costituisce una cosa molto importante.

SC: Quindi possiamo dire che Bill Evans e’ stato per te un punto di partenza.

EP: Ma si, perche’ alla fine ho messo insieme tante cose, non rinnegando mai la mia anima bop. Sai, a me piace fare anche delle cose ritmiche, anche se certamente Bill Evans e’ sempre presente.

SC: C’e’ infatti quel bel disco di chiara marca bop intitolato Isis e registrato un po’ di anni fa, in cui l’aspetto ritmico e’ molto curato.

EP: Isis e’ un lavoro realizzato nel pieno del mio periodo bop, con Art Farmer, un vero campione, e Massimo Urbani, che suona in tre brani davvero bellissimi. È una vera tragedia che questi musicisti non ci siano piu’. In quel disco c’e’ comunque l’ultimo brano, “Little Moon”, che e’ in un certo senso anticipatore per quello che avrei fatto dopo perche’ fu il primo brano che scrissi molto melodico.

SC: Ultimamente, a distanza di tanti anni da quel lavoro, hai ripreso il quintetto con un bel disco inciso per la Challenge ed intitolato Don’t Forget the Poet.

EP: È un lavoro di cui sono molto contento, innanzitutto perche’ ho avuto in tal senso la totale fiducia di Hein van de Geyn, bassista e produttore, che mi ha spinto a registrare, con una formazione piu’ allargata rispetto al trio, un lavoro fatto di mie composizioni. Si e’ trattato di un grosso lavoro di arrangiamento, una sorta di sfida, e secondo me e’ ben riuscito. Qualcuno ha osservato che sono come canzoni, per la loro breve durata, e’ si e’ trattato di un fatto voluto perche’ mi interessava rivolgere l’attenzione ai brani, alla forma, anziche’ alle lunghe improvvisazioni, per le quali ci sono altre sedi.

SC: C’e’ effettivamente una grande cura degli arrangiamenti: in particolare ce n’e’ uno bellissimo per il brano che da’ il titolo al disco, brano al quale sei riuscito a dare nuova vita dopo averlo inciso con Marc Johnson e Joey Baron in una versione gia’ di notevole fattura.

EP: Sono molto contento che tu l’abbia notato. Nella prima versione incisa in Deep Down c’e’ Marc Johnson che fa un assolo assolutamente spettacolare. In effetti a quest’ultimo disco ho lavorato tanto. Sai, da una decina d’anni a questa parte, oltre ad eseguire composizioni, suono anche libero, avendo sviluppato un atteggiamento piu’ free. Quando suono libero sfrutto i temi come se fossero delle cellule: con un motivo, ma anche con due note di un tema, si puo’ costruire molto, sicche’ ho usato questo sistema applicandolo ad un mio pezzo, dal quale ho preso le due note iniziali che ho portato avanti un po’ per tutto il brano, applicando cosi’ un sistema che uso con gli standards.

SC: Allora cosi’ viene fuori il discorso della geometria generativa (o dei frattali) che conduce alle analogie fra la musica e l’architettura, con una cellula elementare che, riproducendosi, riesce a creare una nuova entita’.

EP: Una delle ricerche piu’ grosse che ho sempre fatto e’ stata sulla forma. Decidere un arrangiamento, un cambio di tonalita’, la durata, il finale, sono tutti problemi di forma che vengono fuori sia quando compongo che quando faccio un assolo. Un problema analogo c’e’ in architettura, essendoci per la musica molte piu’ analogie con l’architettura che non con la matematica. Certo, in musica ci sono i rapporti con le teorie di Pitagora, ma trovo certamente piu’ affascinante il paragone con l’architettura, disciplina dove e’ presente il problema della forma. Secondo me si potrebbe fare una rappresentazione architettonica del primo tempo della Quinta Sinfonia di Beethoven, se si riuscisse a trovare gli strumenti espressivi adatti a farlo, magari utilizzando il computer.

SC: C’e’ infatti la questione del tempo come dimensione immateriale che unisce queste due arti.

EP: Si, ma la musica e’ soltanto apparentemente immateriale: secondo me e’ la piu’ fisica di tutte, molto piu’ della pittura. Pensa che la musica ti prende proprio l’orecchio, con il corpo che vibra insieme ai suoni. Nella pittura l’immagine colpisce la retina, ma l’impatto che riceve il timpano quando viene a contatto con suoni organizzati puo’ risultare piu’ fisico della percezione visiva. La musica e’ ritenuta la piu’ astratta perche’ non la puoi afferrare, s’infila nel tempo, sfuggendo. Leonardo da Vinci, nel Trattato sulla Pittura, spende quattro paragrafi per dichiarare la superiorita’ della pittura sulla musica, facendo un discorso di permanenza ed impermanenza e sostenendo che la musica non rimane mentre la pittura si’, cosa a mio avviso un po’ semplicistica.

SC: Tornando alla tua musica, vorrei parlare delle varie forme del trio, visto che di trii ne hai avuti tanti.

EP: Ho iniziato a dedicarmi al trio proprio nel 1984, quando scoprii e cominciai ad analizzare il mondo di Bill Evans. Fondai in quell’anno lo Space Jazz Trio, gruppo meraviglioso con Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra, musicisti con i quali ho ricevuto vari riconoscimenti e registrato molti dischi, in particolare per la tedesca Yvp; siamo rimasti insieme sette anni.
Contemporaneamente ho avuto la sorte di incontrare Marc Johnson e Joey Baron, quando cioe’ fui chiamato dal Music Inn di Roma perche’ questi due musicisti erano rimasti senza pianista in quanto Kenny Drew aveva dovuto sospendere la tourne’e. Quando mi dissero chi erano mi domandai se Johnson fosse effettivamente l’ultimo bassista di Bill Evans; Baron invece non lo conoscevo, anche perche’ non era mai venuto a suonare in Europa, rivelandosi dopo il grande musicista che conosciamo. Suonammo insieme e ci fu una sorta di folgorazione, un reciproco innamoramento musicale senza precedenti, sicche’ decidemmo di incidere in quello stesso anno New Lands per la Timeless. Da allora e’ nata una collaborazione che tuttora dura, visto che con Marc Johnson ho realizzato ben sette dischi, di cui due con Paul Motian, uno per la francese Ida, l’altro per la giapponese Alfa Jazz.
Ora ho due trii stabili: quello italiano con Piero Leveratto e Marcello Di Leonardo, musicisti con i quali lavoro poco, anche se in futuro intensificheremo la nostra collaborazione; poi il trio europeo, con Hein van de Geyn ed Hans van Oosterhout.
Infine ci sono saltuariamente le collaborazioni americane, in trio o in duo con Marc Johnson, ma si tratta di collaborazioni difficilmente gestibili sul piano pratico.

SC: Per quanto riguarda lo Space Jazz Trio, secondo me si e’ trattato di una formazione con una sua vita biologica ben definita, giunta al termine quando ormai dal repertorio degli standard aveva tirato fuori tutto. L’apice e’ stato raggiunto con i meravigliosi Triologues incisi per la Yvp e portati in giro con successo, dopo di che mi e’ parso che non ci fosse piu’ niente da dire.

EP: Ti ringrazio molto per quello che dici perche’ in realta’ ritengo quel lavoro uno dei top della mia vita musicale e certamente il top di quel trio. Triologues fu completamente improvvisato in studio, non avendo stabilito assolutamente nulla e suonando in totale liberta’, senza un foglio di carta. Ci eravamo soltanto ripromessi che saremmo entrati negli standards nel caso ce li fossimo trovati davanti strada facendo, e devo dire che li’ Enzo e Fabrizio sono stati assolutamente strepitosi.
Quello e’ un disco di cui sono veramente orgoglioso.
Con lo Space Jazz Trio ho svolto una ricerca che partiva dalle strutture esistenti per inserirvi quelli che avevo chiamato Open Events, eventi liberi, per realizzare delle cose improvvisate. Alla fine fu tutto improvvisato, sicche’ riuscii a compiere un ulteriore passo avanti nella mia ricerca, cosa per la quale li ringrazio tanto. Effettivamente, come dici tu, ci siamo sciolti nel 1992 quando avevamo ormai detto tutto, avendo raggiunto il massimo possibile. Poi, quando certe separazioni avvengono, vuol dire che e’ giunto il momento.

SC: Come affronti il piano solo?

EP: La dimensione solitaria e’ particolarmente importante per un pianista. In realta’ con il piano solo ho iniziato a realizzare le prime cose quando avevo 17 anni, in un piccolo locale di Trastevere chiamato Il nocciolo, nei pressi del Folk Studio. Suonare da soli per un pianista e’ importante anche perche’ viene definita una dimensione casalinga, di ricerca e di riflessione, di sperimentazione, in cui si resta soli con se stessi. Ed e’ importante anche sotto l’aspetto della comunicazione, di cio’ che si riesce a raccontare agli altri lasciandosi andare. Uno dei primi dischi che ho inciso fu realizzato nel 1976 proprio in piano solo, e fu intitolato The Day After the Silence; lo pubblicai con una piccola casa discografica romana chiamata Edipan e sarei molto felice di riuscire a ripubblicarlo. Negli ultimi tempi sono invece usciti due dischi di piano solo, entrambi per la Egea: Un’alba dipinta sui muri e Con infinite voci.

SC: Cosa ci dici della tua collaborazione con Enrico Rava? Con lui condividi una notevole vena poetica, pur avendo percorso strade notevolmente differenti.

EP: Avevamo gia’ suonato ed inciso insieme, ma quella del duo e’ stata una collaborazione un po’ occasionale, nata per un’idea dell’Egea. Abbiamo registrato un disco intitolato Nausicaa, lavoro che avrebbe meritato maggior fortuna, anche se ci sono stati inizialmente dei problemi con la distribuzione. Ogni tanto suoniamo ancora insieme e quindi questi due percorsi molto autonomi e personali si incrociano. Enrico e’ un grosso artista di jazz, uno che ha una storia grossa alle spalle, e questa storia si sente quando suona. E poi ha una cosa che mi piace tanto: una passione cosi’ viva come quella di un bambino, nonostante suoni ormai da tanti anni. Tutto cio’ rende molto piacevole suonare con lui.

SC: Quali sono i pianisti giovani che piu’ ti impressionano?

EP: Ce ne sono tanti bravi in Italia, ma uno che lo e’ particolarmente e’ a mio avviso Stefano Bollani, che ha 27 anni; lo stesso Stefano Battaglia poi e’ secondo me un pianista sottovalutato e di anni ne ha 35. Sono due musicisti fantastici. Poi in giro c’e’ Brad Mehldau, che e’ certamente un pianista importante e molto giovane.

SC: Non ti nascondo che sul pianismo di Mehldau noto, tra le altre, l’influenza di Pieranunzi.

EP: Questa e’ una cosa di cui ti ringrazio. Pensa che in Francia un giornalista l’ha affermato in un articolo. L’anno scorso su Jazz Magazine e’ stato fatto un blindfold test a Mehldau, durante il quale gli hanno fatto ascoltare dei pianisti, fra cui anche me. Mi ha scambiato per Chick Corea, il che mi onora; poi gli e’ stato detto che si trattava di Pieranunzi ed a quel punto ha affermato che aveva sentito il mio nome ma che non aveva ascoltato nulla dei miei lavori. Qui si puo’ parlare di quelle che si definiscono convergenze, cioe’ del fatto che abbiamo probabilmente dei mondi musicali diretti verso lo stesso punto. Pero’ ti dico anche che la prima volta che ho ascoltato un suo disco, nel negozio dell’Egea a Perugia, credevo di essere io. Lungi da me una simile presunzione, ma all’ascolto di “Blame It on My Youth”, il brano iniziale del primo The Art of the Trio, rimasi un attimo perplesso, non ricordando di aver inciso quella cosa, e fu allora che mi fu fatto il suo nome.
Ho ascoltato Mehldau molto da vicino, e per dare una spiegazione c’e’ da dire che ci somigliamo nella tecnica del tocco, tipica di chi ha ben studiato la musica classica.

SC: Per concludere, hai gia’ in progetto il prossimo lavoro discografico?

EP: Si! In questi giorni realizzero’ un CD, ancora per l’Egea, con Marc Johnson e Gabriele Mirabassi, un clarinettista davvero formidabile.