Prodotto da Dodicilune, distribuito in Italia e all’estero da Ird e nei migliori store on line da Believe Digital, venerdì 6 marzo esce “Oneness” di Donatello D’Attoma. Affiancato da Alberto Fidone al contrabbasso e da Enrico Morello alla batteria, il pianista pugliese propone sette composizioni originali – “Fluorescent Light”, “Oneness”, “Crazy Elevator (Collision Point)”, “VortexOf Light Particles”, “Mare Bianco”, “Clarity” e “Purple Sunset” – e “Coming On The Hudson” di Thelonious Monk. Dopo la presentazione ufficiale nel giorno dell’uscita alla Casa del Jazz di Roma (6 marzo) il tour proseguirà tra Torino Jazz Club (11 marzo), Moulinsky di Milano (12 marzo), Duke Jazz Club di Bari (13 marzo), Andria Jazz (14 marzo), Associazione Bud Powell di Maglie, in provincia di Lecce (15 marzo), Galleria d’Arte “Quam” di Scicli (18 aprile) e Art Tatum Jazz Club di Palermo (19 aprile).
«Donatello D’Attoma fa parte di quel gruppo di giovani jazzisti europei per i quali la tradizione americana deve, oggi, necessariamente incontrarsi con il retaggio culturale del vecchio continente che, per lui, significa la musica eurocolta, studiata al pari di quella jazzistica», sottolinea nelle note di copertina Maurizio Franco, musicologo, saggista, responsabile didattico dei Civici Corsi di Jazz di Milano e docente ai Conservatori di Parma e Como. «L’ascolto dell’album, realizzato con altri due affermati talenti della scena nazionale contemporanea, evidenzia la linea scelta dal pianista, nella quale la dimensione cameristica fa capolino in tutte le composizioni, che sono il frutto di un modo di scrivere comunque proiettato nella performance, pensato quindi per essere sviluppato dai tre componenti di un gruppo che agisce in perfetta unità, facendo circolare la musica tra gli strumenti con un equilibrio che è il prodotto attuale del processo messo in moto da Bill Evans e Scott La Faro alla fine degli anni cinquanta», prosegue. «Una corali tà d’intenti che richiede anche un pensiero comune svincolato dalla logica individualistica, quando non addirittura agonistica, che ancora permane nell’universo del Jazz. E se Evans è indubbiamente un artista studiato da D’Attoma, il suo rigoroso controllo di tutti i parametri musicali, la sobrietà del linguaggio, assolutamente essenziale, ci fanno avvertire l’ombra di Satie, le sue melodie scolpite nel marmo, unitamente al minimalismo, anzi, a quella dimensione minimale che ritroviamo nell’uso di moduli costruiti su cellule tematico-ritmiche, divisi in sezioni dall’armonia senza sviluppo. Armonia che, contrariamente al determinismo di scuola Bop, assume una funzione prettamente coloristica, svincolandosi dal ruolo di alveo nel quale far scorrere le linee melodiche. Nel percorso della musica, questo modello compositivo non è l’unico presente perché si lascia spazio anche a un’altra maniera di pensare i brani, decisamente più aperta e timbricamente evanesc ente, fatta di rifrazioni sonore, di sottili risposte collettive che interessano anche le dinamiche, i pieni e i vuoti, lo spazio sonoro nel suo complesso e ricordano l’arte del preludio a cui, parafrasando Jankelevitch quando scrive di Debussy, non seguirà alcun discorso», continua Franco. «La costruzione dell’album pone questi pezzi in costante dialogo con gli altri, in una progressione che assume un preciso senso narrativo, coniugando l’affermazione precisa alla sua astrazione filosofica, sempre ponendo al centro l’importanza del fare musica insieme, inscindibilmente legata all’estetica del jazz. Quanto alla presenza in repertorio di Monk, assume un significativo valore poiché trasforma una pagina estremamente caratterizzata in qualcosa di differente, nella quale si utilizzano gli stessi canoni poetici che ritroviamo nei brani originali, che dimostrano come si possa guardare da un’angolazione europea il mondo assolutamente africano americano del grande artista. Anche questo dimostra che con D’Attoma ci troviamo di fronte a un artista coerente e dalla precisa visione estetica, perfettamente illustrata in questa preziosa opera».