Don Moye (ossia: Il ritmo e’ tutto!)

Il occasione della partenza della nuova tournee europea, gli Art Ensemble of Chicago hanno fissato tre giorni di prove a Pomigliano, piccola cittadina a pochi chilometri da Napoli, ormai loro “quartier generale” in Italia.
Fissiamo un incontro per parlare un po’ con loro. Intanto apprendiamo che Roscoe Mitchell, dopo due aerei persi, e’ ancora lontano, mentre Joseph Jarman, in preda all’influenza, e’ tornato in albergo. Cosi’, mentre Corey Wilkes and Jaribu Sahid, i “nuovi” dell’Art Ensemble, continuano a provare da soli, incontriamo Famoudou Don Moye.
Don Moye, com’e’ nel suo carattere, accoglie tutti con un misto di affabilita’ e “sfotto'”, parlando in un italiano allegro imparato nei tanti soggiorni italiani. Qui e’ davvero di casa. E te ne accorgi dalle tante telefonate che riceve, dagli amici che passano a salutarlo. Persino il suo barbiere “di fiducia” e’ di qui.










SC: Per voi e’ molto importante la dimensione spettacolare e teatrale della musica: l’uso delle parole, del corpo, dei versi. Cosa volete esprimere che non e’ possibile solo con la musica?


Don Moye: La cosa fondamentale per noi e’ stabilire un feeling profondo con il pubblico, ma lasciamo liberi tutti quelli che assistono ai nostri concerti di “decidere” quali sensazioni provare. Ognuno provera’ delle sensazioni diverse da quelle di qualcun altro, cosi’ come per noi ogni esibizione e’ diversa dalle altre.
Spesso la professionalita’ di un artista viene identificata attraverso la capacita’ di fornire esibizioni sempre “uguali”, attraverso la capacita’ di trasmettere sempre le stesse sensazioni. Per me non e’ cosi’. Noi siamo molto piu’ estemporanei. Ogni concerto e’ diverso perche’ noi siamo diversi. Di conseguenza anche il pubblico provera’ sentimenti diversi.


SC: Ognuno di voi suona piu’ strumenti e siete sempre alla ricerca di nuove possibilita’ timbriche. Ma sono i suoni nuovi a stimolare nuove idee o le idee che avete dentro hanno bisogno di strumenti sempre nuovi?


D.M: Si’, e’ vero che le nostre orecchie sono stimolate da ritmi e suoni nuovi. Percussioni, batteria, qualche volta puo’ bastare anche solo un campanello… In ogni caso valgono entrambe le cose: nuovi strumenti stimolano nuove intuizioni e dunque nuove combinazioni, cosi’ come spesso cerchiamo soluzioni alternative per esprimere al meglio le nostre idee.


SC: Ognuno di voi ha un’intensa attivita’ al di fuori dell’AEOC. Cosa vi porta ad intraprendere collaborazioni con musicisti diversi? Ma soprattutto cosa vi porta a ritornare sempre nell’AEOC?


D.M: La ricerca di sonorita’ senza confini e’ il motivo. Ma nessuno di noi puo’ rinunciare all’approccio piu’ ritmico che “vige” nell’Art Ensemble, nel quale ognuno porta esperienze sempre nuove in un’atmosfera di totale collaborazione e condivisione.
Le diverse collaborazioni dei componenti dell’Ensemble sono un bene per il gruppo. Servono a ricaricare le batterie, per esempio, dopo una tournee di 30-40 concerti e di ritornare piu’ “freschi” alla musica dell’AEOC.


SC: Con quali musicisti italiani ti piacerebbe suonare e ancora non ti e’ capitato?


D.M: Mi piacerebbe “entrare” nel quintetto di Paolo Fresu, che stimo molto e con il quale ho suonato solo in formazioni allargate. E poi mi piace molto Roberto Gatto.


SC: Cosa pensi dell’uso della tecnologia che si fa oggi nella musica?


D.M: Noi siamo un gruppo acustico, dunque non ne penso granche’ bene. Credo sia un regresso, che non giovi alla musica. Cio’ che per altri e’ post-moderno, per me e’ una disumanizzazione della cultura. L’uso delle macchine e’ per chi non vuole studiare, chi non vuole faticare sullo strumento e con poche mosse vuole avere a disposizione tutti gli strumenti. Certo se dovesse mancare l’energia elettrica, io continuerei a suonare, mentre chi fa musica non acustica no… Mi ricordo di un concerto in Brasile durante il quale manco’ la corrente. Noi continuammo a suonare come se niente fosse, al buio…


SC: Qual e’ l’idea alla base di questo tour europeo? Cosa sperimenterete?


D.M: Innanzitutto festeggeremo il 39. anniversario del gruppo, oltre al mio settantesimo compleanno. Riguardo alle novita’ non mi piace parlarne prima. Bisogna assistervi.


SC: Poi vi ritroveremo qui a Pomigliano per l’11. edizione del festival?


D.M: Si’. L’idea e’ quella di “stabilire un contatto” tra gli Art Ensemble of Chicago e gli Art Ensemble of Soccavo di Daniele Sepe.


SC: Parliamo dei progetti speciali che tu tieni qui a Pomigliano per i bambini. Qual e’ la cosa che vuoi insegnare loro? E cosa insegnano loro a te?


D.M: Grazie alla collaborazione con l’associazione Pomigliano Jazz ho partecipato a diversi laboratori con i bambini dell’Istituto “Duchessa d’Aosta”, dove c’e’ la fondazione Pomigliano Infanzia. Cosa voglio insegnare? Il ritmo, senza dubbio! Mentre io ho imparato a essere libero e “aperto” come loro. I bambini hanno un’apertura che tutti dovremmo avere e che invece perdiamo durante la crescita sia per le imposizioni sociali, sia per i problemi quotidiani.


SC: Cos’e’ che vi fa tornare ogni volta a Pomigliano? Cosa c’e’ qui che non c’e’ altrove? La tranquillita’ per fare musica, stimoli, bravi musicisti o cosa?


D.M: Qui ormai abbiamo tanti amici, il pubblico ci conosce, e’ molto caldo, mentre noi seguiamo con attenzione ed interesse i progetti di Pomigliano Jazz. Per quanto mi riguarda sto portando avanti una personale “ricerca eno-gastronomica” che credo durera’ parecchio…
Inoltre e’ un posto comodo, dove possiamo lavorare tranquillamente e “disciplinatamente”. L’unico altro posto dove ci troviamo cosi’ bene e’ Chicago, ovviamente.
Anche i musicisti campani sono per noi una continua scoperta. Siamo fratelli ritmici. Penso ad Aldo Vigorito, per esempio, ma anche a Marco Zurzolo, con il quale ho suonato nell’ultimo disco per l’etichetta di Pomigliano Jazz, Itinera. Il disco si chiama “Samsara“. Un vero “miracolo” per la rapidita’ con cui e’ stato fatto. Ma ci sarebbero davvero tanti nomi da fare…



Sono davvero tanti 39 anni. Ed e’ per questo che l’ennesima tournee degli Art Ensemble of Chicago e’ piu’ che mai un traguardo incredibile e sancisce la vitalita’ ancora intatta di una delle formazioni piu’ longeve della storia del jazz.
Quante cose sono cambiate nel mondo e nella musica da quel lontano 1967, quando Lester Bowie, scomparso nel novembre 1999, uno dei fondatori storici, diede vita a questo incredibile gruppo nato dall’esperienza dell’AACM (Association for the Advancement of the Creative Musicians), associazione che riuniva oltre cinquanta musicisti neri e creata nel 1963 da Muhal Richards Abrams con lo scopo di moltiplicare le occasioni di incontro tra compositori, strumentisti e orchestre, di diffondere la musica nera e di favorire la nascita di una musica nuova. Quella “Great Black Music” di cui gli Art Ensemble of Chicago sono fautori da quasi quattro decenni. Una musica che fonde tradizione e avanguardia, teatro e poesia, serio e faceto e che ha trovato un punto di equilibrio tra le varie componenti in quel grande musicista che e’ Roscoe Mitchell.