Danilo Gallo è sicuramente uno dei musicisti più prolifici della scena jazzistica nostrana. Ha al suo attivo circa 130 incisioni discografiche tra collaborazioni con musicisti di tutto il mondo e gruppi a suo nome. La sua musica travalica non solo i confini geografici ma anche le barriere tra i generi musicali. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare un pezzetto del suo mondo musicale.
foto di copertina di Roberto Cavalli
Vorrei iniziare da Combat Joy, come nasce questo trio?
Combat Joy è un trio formato da me, Pasquale Innarella al sax ed Ermanno Baron alla batteria. L’idea è nata da questa volontà mia e di Pasquale di suonare insieme; ci conosciamo da oltre vent’anni ed ogni volta che ci incontravamo, ci dicevamo sempre che dovevamo suonare insieme ma non ci eravamo mai riusciti.
Poi una volta sono andato a Roma per dei concerti e l’ho chiamato e gli ho chiesto di trovarci per suonare insieme. Pasquale ha una enorme passione per Albert Ayler, la sua illuminazione jazzistica viene da lì; quindi ci siamo trovati a casa di un suo amico per suonare dei brani, per puro piacere. Alla fina di quella sessione, che è stata un flusso quasi ininterrotto di circa un’ora fatto di temi di Albert Ayler e di improvvisazione radicale, ci siamo guardati e ci siamo detti: “ci serve un batterista”. La scelta alla fine è caduta su Ermanno, che è un musicista pazzesco, uno di quelli a 360 gradi, ci puoi suonare di tutto, un creativo. Il disco Combat Joy è stato il nostro primo incontro; prima di quel concerto, da cui è nato il disco, non avevamo mai suonato insieme. Abbiamo fatto questo concerto in una cantina di una casa privata, la persona che ci ospitava aveva registrato la serata, e quando abbiamo ascoltato la registrazione, siamo rimasti tutti e tre molto colpiti. In quella sessione c’è molto istinto; è molto pura, noi abbiamo suonato senza darci indicazioni. Albert Ayler aleggiava su di noi; non si tratta di un omaggio ad Albert Ayler nel senso tradizionale del termine; infatti noi non suoniamo brani suoi, può comparire qualche accenno tematico a qualche melodia. Le melodie di Ayler sono quasi primordiali, sono forse nel Dna di tutti quanti noi, sono delle preghiere-urlo, molto spirituali.
Combat Joy perché combattiamo ma con gioia, non con il muso lungo perché crediamo che l’arma del sorriso, l’arma della musica, dello stare insieme e della gioia appunto, sia efficace almeno quanto la forza.
L’estate scorsa abbiamo fatto una serata in un circolo romano che si chiama Ibidem, dove si tenevano delle sessioni audio-video, anche quella ci è piaciuta, anche tecnicamente, e l’abbiamo pubblicata su Bandcamp.
Anche nelle registrazioni in duo con Marco Colonna, suonate musica improvvisata.
Anche con Marco ci siamo trovati quasi per caso. Perché abbiamo entrambi questa attitudine improvvisativa, ma nella nostra improvvisazione cerchiamo una sorta di composizione estemporanea melodica, per cui i dischi dal mio vista non risultano ostici come possono essere spesso i dischi di musica improvvisata. Anche con Marco è nata lo stesso tipo di magia. Non è escluso che possa entrare a far parte della formazione di Combat Joy, ne abbiamo iniziato a parlare.
Pur avendo background e percorsi diversi, io per esempio vengo dal punk, dal rock, siamo accomunati da questa attitudine, questo linguaggio, il jazz appunto non inteso come genere musicale, ma come approccio, come stato d’animo.
A proposito di attitudine e di approccio, i Guano Padano invece fanno parte della tua parte più rock.
Anche lì siamo tre anime diverse dove il terreno comune tra noi è stato trovato in questa vena di derivazione rock, ad un certo tipo di rock americano, più legato al folk o se vogliamo alla musica più country anche se questa è una definizione che non mi convince; c’è una commistione. La passione comune sulla quale ci siamo trovati è quella cinematografica, siamo tutti e tre amanti delle colonne sonore, quel tipo di mondo cinematografico si rispecchia nella nostra musica, uno su tutti Morricone. Essendo una musica trasversale, ci dà la possibilità di suonare sia ai festival Jazz che a quelli Rock. È una musica di impatto sonoro più forte, anche dal punto di vista del volume. Le composizioni nascono come si faceva una volta, quando ci si ritrovava nelle cantine e magari qualcuno portava un tema che poi veniva sviluppato in maniera collettiva. Lavoriamo molto in post produzione, ci piace completare l’opera in studio, con le sovraincisioni, di nostre tracce o di ospiti, ma dal vivo suoniamo sempre in tre. Guano Padano è uno dei miei gruppi del cuore.
Con Guano Padano avete di recente suonato al Festival di Correggio.
Si abbiamo portato un progetto che si chiama The Movie SoundTrack Project: da Morricone a Bob Dylan, dove suoniamo alcuni temi di film come Pulp Fiction, Gola profonda, Paris-Texas, mentre vengono proiettati degli spezzoni di questi film alle nostre spalle.
Prima mi dicevi che tu nasci come chitarrista.
Nasco e credo che finirò come chitarrista. Sì, in effetti i miei studi musicali, quelli con i libri di musica, sono stati da chitarrista classico, è quello il mio imprinting. Ho sempre avuto un grandissimo rispetto per questo strumento che ho sempre continuato a suonare a casa, in privato. Compongo la musica con la chitarra, ma ho sempre avuto talmente tanto rispetto per lo strumento da decidere di non suonare mai dal vivo. È il mio strumento preferito, insieme al violoncello che però non suono. Qualche hanno fatto mi sono fatto coraggio ed ho registrato un disco dove suono la chitarra acustica, insieme ad un altro chitarrista, Valerio Scrignoli e alla cantante Kathya West che è la mia compagna. In questo disco che si chiama “Oxymoron” abbiamo fatto un omaggio alla musica dei Beatles e dei Rolling Stones, li abbiamo appunto messi insieme come un ossimoro. È stato il mio primo progetto da chitarrista, che ha suonato tanto in giro. È stato il momento in cui ho rotto questa sorta di tabù.
Kathya West è anche la voce di “Last Coat of Pink”, il lavoro sui Pink Floyd uscito il 5 giugno…
Sì, in questo disco oltre a Kathya alla voce ci sono io al contrabbasso e Alberto Dipace al pianoforte, una formazione minimale, che sembrerebbe l’opposto della musica dei Pink Floyd. Ma noi abbiamo voluto suonare quella musica come scrive Kathya in un suo testo riportando la vastità dei Pink Floyd all’essenziale. Secondo me un lavoro molto ben riuscito, abbiamo avuto un ingaggio importante per questa estate, suoneremo il 5 luglio al Vicenza Jazz, sarà la presentazione ufficiale del disco, siamo molto contenti.
Come ti sei avvicinato al Jazz?
Da adolescente ero immerso nel mondo del rock, del punk, della new wave, mangiavo pane e The Cure, tra l’altro con Kathya abbiamo fatto un disco tributo il cui titolo è “Take care with The Cure”, abbiamo preso alcuni brani della nostra adolescenza e li abbiamo interpretati registrandoli in casa. Al Jazz sono arrivato più in là. La mia folgorazione rispetto a questo mondo è arrivata a casa di un mio compagno del liceo, dove mi fecero ascoltare una cassetta di Joe Pass, dove al basso c’era Ray Brown. Sono rimasto folgorato dal suono, che era qualcosa di completamente diverso da quello cui ero abituato fino ad allora; ho iniziato quindi ad ascoltare questa musica e a documentarmi. Poi verso i vent’anni comprai il mio primo contrabbasso, quasi per caso, che poi come spesso accade sono le cose che ti accadono per caso che ti cambiano la vita. Avevo appena preso la patente, mia madre mi diede due milioni di lire dell’epoca per comprare un’auto. Io invece tornai a casa con un contrabbasso! Ed i due milioni non bastarono, fui costretto a fare delle rate. Mi iscrissi così ad una scuola di Jazz a Bari, dove ho appreso le basi dello strumento, poi il mio percorso è proseguito da autodidatta. Ho iniziato a suonare in alcuni club, con alcuni dei miei insegnanti che mi riconoscevano delle doti e quindi ho iniziato a credere di poter fare questo “mestiere”.
I miei genitori non hanno mai osteggiato questa mia passione per la musica, anche quando ho deciso di abbandonare gli studi universitari a 4 esami dalla fine.
Mi accennavi che lo strumento che usi quando scrivi la musica è comunque la chitarra.
Sì, te lo confermo, perché è lo strumento che mi viene naturale prendere in mano la mattina quando mi sveglio. Ad esempio i riff di basso che si ascoltano nei miei dischi, mi vengono fuori con la chitarra, poi li trasporto sul basso, spesso forzando un po’ la mano, perché non sempre si può fare. Anche il mio modo di suonare utilizzando il plettro, il mio “schitarrare” sul basso elettrico viene da qui. Se ascolti i dischi del Tinissima Quartet, uno su tutti “Monk‘n’Roll”, con il basso elettrico suono quello che farebbe una chitarra.
Quel disco ha un grandissimo pregio: arriva sia agli appassionati di Jazz che a quelli del rock. L’ho potuto appurare personalmente.
Mi fa piacere sentirtelo dire. Lì ci sono i temi di Monk con i riff rock ‘n’roll, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, c’è My Sharona. Anche questo disco è nato un po’ per caso, durante i sound-check dei concerti del quartetto, per cazzeggio io buttavo giù il riff di Back in Black e qualcun altro mi ha risposto con un tema di Monk. Perchè Monk? perchè Monk è veramente molto rock ben prima che il rock esistesse. I suoi temi esistono sempre, sono sempre attuali.
E’ una musica che si presta ad essere maneggiata da musicisti di diversa estrazione…
Hai ragione. Così da una cosa nata per scherzo abbiamo deciso di registrare ed ognuno ha portato la sua idea di brani da “abbinare” è quasi per magia i brani si sono incastrati perfettamente. E ci fa piacere che possa essere disco che faccia da tramite tra un mondo e l’altro. Anche perché la musica non deve avere barriere. I generi musicali sono una cosa da scaffale di negozio di dischi. La musica è una tradizione in movimento, che assorbe il mondo che le sta intorno e si trasforma con esso. il Jazz è emblematico in questo.
L’errore che si fa nei conservatori è di mettere questa musica in una teca e di proporla come una cosa del passato, morta, come se fosse la musica classica. I ragazzi quindi studiano la musica di Charlie Parker, ne suonano gli assoli come se fosse una sonata di Chopin, li metti in un’orchestra e leggono a prima vista tutto, suonano in maniera impeccabile tutto, ma mancano di pathos, di emotività, non contestualizzano la musica con la quale hanno a che fare. Non tutti ovviamente.
Come è arrivato l’incontro con Francesco Bearzatti e la nascita di Tinissima?
Il gruppo è nato nel 2007, siamo un gruppo longevo. Con Francesco avevamo suonato insieme precedentemente in progetti di altri musicisti, non avevamo mai collaborato attivamente insieme. Con Zeno De Rossi invece sì, ci conosciamo benissimo musicalmente, ci mettiamo gli sgambetti l’un l’altro quando suoniamo insieme. Zeno è molto amico di Francesco che all’epoca stava mettendo su un gruppo per il suo progetto su Tina Modotti, il nome del gruppo viene da lei. Francesco cercava un bassista e fu Zeno a fargli il mio nome. Non è un gruppo mio ma è come se lo fosse, siamo l’uno complementare all’altro; possiamo andare in studio come è successo con l’ultimo disco, “Zorro”, e dopo aver letto velocemente i temi, subito rendere la musica concreta, perché abbiamo un affiatamento dovuto a tanti e tanti concerti fatti nel corso di questi anni.
Il bello di questa formazione è che si riunisce intorno a musiche che possiamo definire militanti, in grado di esprimere delle idee politiche.
Francesco scrive sempre musica ispirandosi a personaggi rivoluzionari: Tina Modotti, Malcom X, Woodie Guthrie, l’inventore delle protest songs. Monk che è stato sicuramente di rottura, anche con il suo modo di suonare. Anche Zorro, che pur essendo un personaggio di fantasia, nell’immaginario collettivo, è un paladino dei deboli. Tra l’altro Francesco ha maturato la musica dopo averli studiati in maniera approfondita. Poi noi come gruppo lavoriamo insieme agli arrangiamenti. In “Zorro” io ho suonato la chitarra elettrica, ho sovrainciso le tracce di chitarra in molti brani, con una chitarra elettrica che mi sono fatto prestare, in quanto non ne posseggo una. Mi sono divertito a suonarla rimandando un po’ al suono tex-mex che evoca i luoghi polverosi e desertici in cui Zorro era ambientato.
Per concludere volevo chiederti la tua idea sulla piattaforma Bandcamp.
Bandcamp è sostanzialmente l’evoluzione di MySpace. è un social dedicato ai musicisti, dove oltre a mettere in vendita ed in ascolto gratuito la propria musica, può interagire con i fan. Io interagisco spesso con acquirenti o semplicemente curiosi della mia musica. E’ uno strumento che sicuramente in questo periodo di pandemia, è cresciuto notevolmente; per alcuni è stata l’unica fonte di reddito, anche per me. Prima di marzo scorso avevo creato il profilo ma non l’avevo mai curato, poi da lì in poi mi sono messo a lavorarci su e l’ho costruito, caricando, oltre ai dischi usciti ufficialmente, anche bootleg e registrazioni di concerti live. E’ un modo per divulgare la propria musica che ha un grosso potenziale, Vedo che anche artisti famosi hanno il loro profilo, che producono e mettono lì. Inoltre oltre ad essere un negozio di vendita di musica digitale, puoi mettere in vendita anche le copie fisiche. Bandcamp trattiene circa il 30% del prezzo di vendita.
E’ un social virtuoso. E’ l’unica piattaforma digitale che su una vendita di 10 euro, lascia 7 euro all’artista. Inoltre la qualità di ascolto è altissima.
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