È sempre la solita storia: un disco dai primi impatti poi chiede tempo e dedizione per oltrepassare la banale quanto superficiale impressione. Angelo Iannelli, cantautore romano, sforna un disco come “Vicini Margini” a cui subito vien da restituire etichette indie assai distanti nel tempo, quasi a scomodare tratti pop di Venditti anni ’80. È l’istinto e l’urgenza che si controlla ai bordi il vero quid pluris di un disco che in fondo per davvero non ha pretese di rivoluzione e di novità. Anzi si adagia e usa gli ingredienti che trova. Ci sono gli anni ’80, è indiscutibile: parleremo di questo e anche di un sistema ormai sulla soglia della rottura. E saranno queste vere rivoluzioni…

 

 

Angelo Iannelli Vicini MarginiNoi parliamo molto di produzione… che lavoro è stato per te questo disco? Solitario o di condivisione?

Molto solitario nella fase di scrittura, dal momento che amo stare in totale solitudine quando scrivo, davvero isolato dal resto del mondo. Nella fase di produzione, invece, c’è stata molta condivisione e dialogo sugli intenti.

Ci sono tantissimi rimandi al passato del pop d’autore, quello radiofonico anche. Gli anni ’80 e ’90 in primis. Che rapporto hai con questo tempo della musica italiana?

Amo molto gli anni Settanta (soprattutto fino al 1978, che considero lo spartiacque di due epoche diverse), in modo particolare il rock, il country, il folk e tutta la cosiddetta canzone d’autore, non soltanto italiana, ma amo anche i Sessanta, tornando ancora più indietro. Ultimamente ascolto spesso Labi Siffre e Jim Croce, tanto per fare due nomi di artisti meritevoli dei primi Settanta. Mi piacciono anche i primissimi anni Ottanta, meno per il rock ma li apprezzo per la diffusione di nuovi orizzonti iperpop, diciamo così, in merito ad arrangiamenti, vocalità e scelte di missaggio. Gli anni Novanta non li ho mai apprezzati molto, se non per rari colpi di coda degli artisti usciti nei decenni precedenti. Forse dimentico qualcosa, ma poco altro.

Ad esempio la chitarra di Chissà è decisamente figlia di Vasco Rossi. Volevi riprendere quel modo?

Avevo in mente una chitarra del genere da molto tempo, già dalla fase di scrittura, una chitarra che desse una sensazione malinconica ma che contemporaneamente fosse rock, dura ma dolce allo stesso tempo. Credo che sia il modo stilisticamente più adatto ad accompagnare un parlato così emotivamente intenso, in modo da evitare le trappole dell’affettato e del didascalico. Il parlato è molto inusuale nel panorama musicale contemporaneo, bisogna stare sempre molto attenti. Credo di aver fatto un buon lavoro. E sono felice che possa rievocare Vasco, dico sempre che siamo tutti figli di Vasco.

 

 

I synth di Artur sono un altro manifesto che disegnano anche un certo immaginario cinematografico tipo “Il tempo delle mele”… non trovi?

Sono molto anni Ottanta, senza dubbio, i synth che vanno ad incastrarsi in questa storia di Artur, un personaggio del mio romanzo “Bar Binario”, cresciuto proprio con quei synth tipici degli anni Ottanta.

E poi l’elettronica di Elettronica… quasi dentro gli 8bit… che suoni hai scelto in questo caso e perché?

Avevo in mente un basso elettronico che facesse anche da raccordo con quello di DAG e di altri brani del disco. Anche con i synth ho cercato di essere molto attento e puntuale con continui richiami nei vari brani, con particolari raccordi e giochi melodici, oppure semplicemente con suoni ripetuti in tutto il disco, in modo da garantire un’uniformità di base.

Restando su questo brano, su questa apertura di disco, lo dichiari subito: tu vuoi tornare ad una vita “analogica”, vera, di sentimento più che di fluidità digitale? È questo il manifesto di “Vicini Margini”?

Di sicuro c’è qualcosa che non va nella società odierna, dall’utilizzo dei social a tante altre questioni ben più importanti. Vorrei tornare a una vita mentalmente più analogica, meno digitalizzata, diciamo pure così. I social stanno contribuendo a distruggere l’arte, ma in modo non irreparabile; siamo in un’epoca in cui conta molto più la fama del successo o in cui, spesso, le due parole sono confuse come sinonimi. L’arte è sempre più vista come un modo per diventare famoso, non come l’atto finale di una pulsione vitale che ti divora interiormente. E questo è molto triste, soprattutto per i pochi delle nuove generazioni che hanno un vero rapporto amoroso con l’attività artistica e letteraria. Alcuni li incontro a scuola, esistono anche loro e vanno tutelati. D’altronde siamo in un’epoca dove molti scrivono più libri di quanti ne abbiano letti, senza considerare che per scrivere cose un tantino interessanti la strada è una sola: leggere, leggere, leggere. Non se ne esce, e chi scrive seriamente lo sa benissimo. Siamo in un’epoca dove esistono quelli che definisco gli “Instawriters”, scrittori da Instagram (o da Facebook), ignoti aspiranti poeti o romanzieri che pubblicano frasi di propri libri (più spesso piccoli pensieri creati esclusivamente per i social) o di opere scritte da altri, che magari hanno 300.000 follower e 50.000 like a post, ma poi vendono tre copie di un libro che non ha uno straccio di recensione critica, di blasone tra gli addetti ai lavori o, appunto, tra il pubblico, tra i lettori. Stesso discorso per i cantanti da Instagram, gli “Instasingers” che si spacciano per cantautori, con tutto il loro bagaglio di reel, di art director, di visual communication e di brand identity, di autotune, di brani scritti da sei o sette autori (sic!) e di altre robe del genere, che non hanno mai creato un artista. Ma d’altronde siamo in un’epoca in cui su un nuovo disco, anche sul mio, persino una grossa parte della critica musicale parla di tutto tranne che dei testi; magari attenzionano solo l’arrangiamento o, ancora, tutto ciò che ruota attorno al concetto di glam, come dicono quelli bravi, gli appassionati di forestierismi in funzione aggettivale che spesso, con un approccio sincretista, sintetizzano dieci recensioni scritte da altri per crearne una nuova.

Tutto questo detto, credo che siamo vicini a un punto di non ritorno e che il Sistema stia finalmente implodendo. E allora ci sarà una Belle Époque artistica, sì, ci sarà