In un tempo di rivoluzioni, dentro un secolo che ha veduto l’impoverimento sociale e che un poco alla volta ci ha allontanato da una bellezza ricercata e pretesa anche da un gusto alto delle cose. Nel sottobosco resta e vive di ottima salute una canzone d’autore che lavora di fino, di pancia, di espressione e di parole. “In fondo al ‘900” è uno di questi dischi. Andrea Tarquini, chitarrista di lungo corso, storia del suono di Stefano Rosso, arriva oggi al suo terzo disco, delicato, divertente, attento nella sua chiave sociale. Un mestiere artigiano, di suoni piccoli e di eleganze profonde.
Noi badiamo molto al suono e devo dire che questo disco ha scelto anche nel suono di restar fermo nel ‘900… o sbaglio?
Stare nel ‘900 non vuol dire affatto stare fermi, anzi è il periodo storico più esplosivo mai esistito… dovremmo trattare il nostro approccio alla critica allo stesso modo in cui ci avviciniamo al secolo ancora precedente… potremmo forse dire che l’800 tra romanticismo, impressionismo, espressionismo, etc… è un secolo di poco conto? Pensa per esempio a quante colonne sonore di oggi vivono di citazioni (più o meno consapevoli e volute) ai lavori realizzati da compositori come Mendelssohn o Mahler… ebbene, nessuno si sogna di considerare queste opere “ferme” da qualche parte o in qualche tempo, eppure vivono evidentemente di una influenza.
E restando sul tema, dunque, la produzione come si è avuta, come si è mossa?
Mah, diciamo che alcuni mondi sonori ed un certo tipo di “forma canzone” rappresentano il mio habitat sonoro e compositivo e su questo ci siamo trovati insieme a Fabrizio “Cit” Chiapello in un modo molto naturale…abbiamo avuto idee divergenti molto di rado. Anzi, quasi sempre siamo stati d’accordo.
Mi incuriosisce “Cassa (in) quattro”: un ukulele? Bella questa rottura concettuale proprio con l’assenza della cassa sui quarti… un brano afrodisiaco che non mi sarei atteso dal titolo…
È la prima volta che me lo dicono… e questo dimostra quanto spesso nei giudizi e nelle critiche intervengano gusti personali, che è giusto e normale che accada. Si, è un ukulele, la cassa non l’abbiamo messa in quattro perché sarebbe stata una scelta più scontata mentre invece pensiamo che evocare qualcosa a volte sia una scelta più forte rispetto ad una dichiarazione diretta.
Nel colore dei brani, ecco anche in “Cassa (in) quattro”, c’è molto il sapore del folk americano anni ’70, vero? Reminiscenze e origini?
No, in realtà sul piano sonoro questo mio nuovo disco somiglia più ad un genere chiamato “Americana”. Con questo termine si indica una sorta di contenitore di folk, bluegrass, folk progressivo, country, folk-rock con influenze pop… Ed è appunto un termine che compare verso la fine del ‘900 ed i primi anni 2000.
E all’elettronica moderna? Cederai mai? Magari in una dimensione live o in una riscrittura del disco…
Chi ha detto che la musica elettronica sia moderna? La prima musica elettronica nasce negli anni ’40 del secolo scorso, l’impiego di strumenti elettronici in ambito professionale e pop avviene negli anni ’60 quando si utilizzarono i primi Moog e io non ero ancora nato. Senza offesa, ma credo che associare l’elettronica alla modernità per il solo fatto che non si tratta di strumenti analogici sia un approccio davvero un po’ provinciale ed ingenuo. Detto questo, il punto non è scegliere la strumentazione in base a quello che qualcuno percepisce di un determinato strumento in merito alla sua vera o presunta “attualità”. Si possono fare cose nuove con strumenti antichi e viceversa, cose vecchissime con strumenti nati o inventati da poco.
Personalmente scelgo i suoni e gli strumenti in base alla loro reale capacità di sostenere al meglio un “racconto”, e ogni racconto ha esigenze diverse. Quindi è una scelta certamente basata su un proprio e personalissimo orientamento culturale.