Decisamente un disco interessante, intelligente e senza fuoripista presuntuosi. Un ascolto anche difficile da sostenere viste le abitudini che ormai si attestano nel quotidiano. Parliamo di Andrea Cavina, autore e compositore ma soprattutto chitarrista classico. Questo esordio, che giunge anche ad età matura di esperienze e di vita artistica, si intitola “10 Lettere”: è la chitarra classica sola a rileggere con spiritualità l’arte e la cultura di grandi nomi che hanno in qualche modo contaminato e segnato il raccolto di Andrea Cavina. Parliamo di grandi chitarristi ma anche di musica altra, da Einaudi a Yann Tiersen e tantissimi altri che vi invitiamo a scoprire. Un lavoro di cesello, di artigianato, non pulitissimo come direbbero dalle accademie ma assai umano. Avremmo richiesto di più dal suono della chitarra, ma ormai di perfezioni tecniche ne siamo anche stufi. Cercavamo l’uomo e l’abbiamo trovato…
Parliamo di produzione. Sembra un argomento facile perché in fondo c’è solo una chitarra dentro questo disco. E invece?
Sì, ottima considerazione, grazie. Certamente ci sono produzioni importanti con organici di tutto rispetto e di certo non mi metto nemmeno a confronto con questo tipo di lavoro.
Eppure in un disco di chitarra sola, più che la produzione in sé, il lavoro sta in quello che potrebbe essere definito “pre-produzione”, ovvero tutto ciò che sta a monte.
È la prima volta in cui mi trovo a dover essere, in un’unica persona, compositore, esecutore e, in parte, produttore. Fortunatamente ho incontrato un grande musicista come Maurizio Colonna che mi ha dato dei consigli importantissimi, soprattutto per la parte artistica.
Ho avuto la possibilità di seguire degli incontri con lui in cui ho imparato a conoscere meglio la chitarra dal punto di vista compositivo.
Colonna mi ha fatto riflettere e, soprattutto, fare esperimenti sull’orchestrazione dei miei stessi brani.
Pur non intervenendo sulla mia idea musicale, mi ha guidato sull’uso dei piani sonori e delle timbriche e su quelle possibilità più “profonde” di cui la chitarra è capace, ma di cui non sempre i “chitarristi-non-compositori” riescono a sfruttare a pieno (me compreso, prima di questa esperienza).
La produzione vera e propria ha dovuto fare i conti invece con aspetti tecnici strumentali, la scelta del suono, a partire dall’ambiente: il disco infatti è stato registrato in un piccolo teatro e non nella cabina di uno studio. La scelta è stata effettuata per fare in modo che la chitarra uscisse già con un suono che desse l’idea di spazialità e di tridimensionalità in modo naturale.
L’attenzione al tipo e al posizionamento dei microfoni e all’uso della strumentazione è stata curata in funzione della destinazione del prodotto finito.
Da questo punto di vista sono stato molto soddisfatto del lavoro del fonico, Giacomo Scheda, con cui ho lavorato e che sono ben contento di citare.
Dato che sono arrivato a parlare del suono del disco, come vanto personale, mi piace poter dire che il master è stato curato da Giovanni Versari.
Parliamo di suono. Qual è il suono di Andrea Cavina? Cosa inseguivi, cosa ricercavi… cosa hai trovato?
Il mio disco risente di tantissimi stimoli dal punto di vista sonoro. La chitarra diventa solo un mezzo per esprimere una cosa molto più importante, ovvero la composizione musicale.
Mentre scrivevo i brani non pensavo di avere una chitarra in mano, ma magari di essere un pianista, o un direttore d’orchestra. Ho pensato alle grandi rock band e alle colonne sonore.
Non da ultimo, ho dato un’occhiata anche al mondo del fingerstyle.
In tutto questo ho “ritrovato” la chitarra come uno strumento perfettamente in grado di raccogliere le varie idee musicali e farle sue. La chitarra classica, questa “piccola orchestra su sei corde” come spesso l’ho sentita definire dai grandi maestri da Segovia in poi, ha in sé tutto quello che serve per esprimere tradizione e innovazione.
È uno strumento di concezione semplice ed antichissima. È di estrazione popolare, ma ha vissuto anche negli ambienti di corte; è stata soggiogata da maestri severi, ma ad oggi è uno dei maggiori simboli di libertà, di aggregazione e di espressione musicale personale.
Avendo attraversato sia il mondo accademico che quello del rock, ho cercato un suono e un linguaggio che tenesse conto di ognuno di questi mondi e che li facesse convivere e collaborare, invece di metterli in contrapposizione come spesso accade.
E poi i destinatari di queste lettere. Hai cercato di inseguire il loro vocabolario in qualche modo o hai semplicemente restituito il tuo istinto e il tuo carattere?
L’uno e l’altro. Le mie composizioni sono molto legate alle immagini: una situazione, un paesaggio, un film… ad esempio, ho scritto il brano “Danza di una piuma” che rimanda alle sonorità di Yann Tiersen nel film “Il meraviglioso mondo di Amélie”, ma l’immagine che avevo in mente era una famosa scena di un altro film, “American beauty” in cui viene ripresa una busta di plastica che “danza” sostenuta da un mulinello di vento.
Pensavo ad una ballerina classica che danza da sola su questa mia musica in 3/4 che, di fatto, è un valzer. In un secondo momento mi è venuto in mente che la piuma più memorabile del cinema forse è quella di Forrest Gump e vedo bene anche questa immagine così leggera accompagnata dal mio pezzo. I destinatari delle lettere sono quelli da cui ho tratto, potrei dire, le maggiori linee guida per i miei brani. Nonostante ciò, non ho voluto scrivere degli “omaggi”, ma delle vere e proprie musiche originali che contenessero al loro interno elementi stilistici a me familiari e che ho sempre sentito vicini al mio gusto, al mio mondo emotivo.
Ho dedicato una composizione alle Dolomiti, intitolata “Vento nella foresta”, perché lo stavo ultimando proprio nel periodo della tempesta Vaia del 2018; un evento che ho sentito particolarmente vicino, pur essendo romagnolo, dato che il bellunese e l’Alto Adige sono luoghi che frequento da tutta la vita.
Fino a quel momento il brano si rifaceva principalmente (anche se in modo libero) a sonorità e armonie che ritrovo in Roberto Cacciapaglia, principale destinatario del brano, ma dopo la tempesta ho inserito elementi musicali più vicini ai Led Zeppelin o a Ben Harper, per creare contrasti e dare più forza al brano stesso.
In ultimo mi piace citare un’analogia che ho cercato tra la musica e la pittura di Van Gogh, in cui ho trovato molto simili il tratto del grande artista e la tecnica chitarristica del “tremolo”. Le sonorità e le atmosfere invece sono state ispirate da una composizione di Federico Mompou, compositore spagnolo vicino al linguaggio dell’impressionismo.
Dai personaggi della storia a quelli contemporanei. Esiste un filo conduttore unico per tutto il disco?
In una battuta inflazionata, ma ad effetto e a posteriori mi verrebbe da dire semplicemente che non c’è innovazione senza tradizione. Facile. Sì, è un luogo comune, ma corrisponde a verità.
Il filo conduttore del disco è l’innovazione. Tutti i destinatari sono personaggi che nel loro tempo hanno fatto la storia, o meglio, hanno “aggiunto un pezzo in avanti” ad una strada e lo hanno fatto, parlando il linguaggio del proprio tempo.
Non erano/sono “semplici” geni della musica: erano e sono degli esploratori, dei visionari, dei grandi innovatori. Turlough O’Carolan alla fine del Seicento ha 20 anni, è cieco e si mette a viaggiare per l’Irlanda per portare la sua musica ovunque sull’isola.
Ancora oggi la musica irlandese è influenzata dal suo stile. Non è meraviglioso?
Andrew York, Maurizio Colonna, Ludovico Einaudi, Pat Metheny, con la loro musica parlano alla gente, perché scrivono musica contemporanea, ovvero che appartiene alle persone che vivono in questa epoca storica. Non sono forzature, non è ricerca fine a sé stessa e soprattutto non rompono nessuna tradizione, anzi, la accolgono in pieno per aggiungervi il loro apporto.
Rompere con il passato significa tagliare le proprie radici… e poi? Poi è finita: non ci si nutre più. A cosa serve, invece, conoscere la storia?
Pensiamo a Battiato: nel 1996 fa uscire un brano, Strani Giorni, con due testi diversi in contrappunto, uno in italiano e uno in inglese sostenuti dal suono martellante di una rock band. Anche se non l’ho mai appurato, ho sempre visto in quel pezzo la prassi compositiva dell’Ars nova, siamo nel XIII-XIV secolo, in cui si trovano brani con testi differenti in contrappunto in latino e in volgare.
Non è una copia di stile, ma l’acquisizione di una tecnica e di una cultura, che poi vanno al servizio di un’espressione nuova, contemporanea.
Con la mia chitarra ho cercato di seguire questa via e realizzare tale tipo di lavoro.
E la domanda poi diviene ovvia: qualcuno dei destinatari (ancora in vita ovviamente) ha ricevuto la tua missiva secondo te? Qualche feedback?
Di sicuro il primo che l’ha ricevuta è stato Maurizio Colonna, il destinatario di Alba che non solo ha apprezzato, ma come ho riportato all’inizio, mi ha spinto a curare il disco, dicendomi che ne valeva la pena. E questo per me è già un ritorno notevole. Per quanto riguarda gli altri, il disco è uscito da poco e non ho ancora avuto riscontri. Ho “scritto” a Joe Hisaishi, a Cacciapaglia e ad altri tra i più grandi della musica mondiale… “Ho sparato alto”, come si suol dire.
Sarebbe stupendo se questi messaggi in bottiglia arrivassero a destinazione e magari tornassero con una risposta. Di certo non mi faccio illusioni e procedo con la stessa serenità e naturalezza con cui ho prodotto il disco. Di sorprese ne stanno comunque arrivando.