Dal cappello magico di Siena Jazz viene fuori un trio giovane e già maturo, connotato dall’estro straordinario di Alessandro Lanzoni. Il pianista ci parla di questa formazione, dei suoi studi e dei suoi amori musicali.
Appena l’anno scorso sei stato incoronato nel Top Jazz di Musica Jazz come miglior talento italiano. Questo riconoscimento arriva dopo una “carriera” fatta di premi prestigiosi, collaborazioni importanti e tour in giro per il mondo. E alla luce di tutto questo “miglior talento” mi sembra ormai riduttivo. Ma quello che ha avuto modo di dire su di te Ira Gitler (“Non dovrebbe essere giudicato come un giovane musicista. E’ già eccezionale, e rischia di diventarlo ancora di più”) vale più di ogni premio. Tu che ne pensi?
Ognuno di questi riconoscimenti mi fa onore. Il Top jazz è un referendum importante in Italia per questo genere musicale, quindi avere avuto tutta questa fiducia dai critici per me significa molto. L’autorevolezza di un giudizio di Ira Gitler, uno dei maggiori critici americani, non si discute, quindi ricevere un apprezzamento da lui è stata un ulteriore soddisfazione. Sono conferme che mi spingono ancor di più ad andare avanti con lo studio e la mia ricerca musicale
Il tuo percorso parte dagli studi classici per completarsi ad un certo punto con quelli jazzistici. Spesso nei conservatori italiani lo studio del pianoforte si riduce a mera prassi esecutiva e difficilmente si parte dalla decostruzione di un pezzo per comprenderlo in ogni sua parte (cosa che invece si fa normalmente nella prassi jazzistica). Tu sei stato fortunato? Hai avuto insegnanti “illuminati”? Ti sei avvicinato al jazz per conto tuo o per naturale evoluzione musicale?
Il jazz l’ho scoperto da solo, nessuno mi ha introdotto. Sono stato io a volerlo approfondire con degli insegnanti specializzati nel settore. Ma nessuno degli insegnanti di pianoforte mi ha mai ostacolato in questa mia curiosità. In particolare l’insegnante che mi ha portato al diploma, Giovanna Prestia, ancora la ringrazio per il contributo musicale che mi ha dato. E’ la perfetta antitesi dell’insegnante bacchettone del conservatorio, che ha come obbiettivo la semplice riproduzione di quello che è fissato sullo spartito. Lei mi ha dato preziosissimi consigli su come interpretare in maniera personale e profonda anche qualcosa che non nasce direttamente da te.
Hai dichiarato che Keith Jarrett è stato il tuo primo amore, il primo artista “da imitare”. Come sono proseguiti questi “innamoramenti” e oggi a che punto sei?
Non ho mai voluto imitare Keith Jarrett, c’e’ stato un periodo in cui lo ascoltavo così tanto che di riflesso suonavo ricordando il suo fraseggio e il suo respiro musicale. Ma penso che sia stata un’influenza genuina, ancora oggi ritengo che Jarrett sia uno dei maggiori artisti al mondo. Per il resto, continuo ogni giorno a scoprire musicisti che hanno progetti validi e cose interessanti da dire. Tra i miei preferiti al momento ci sono i pianisti Craig Taborn, Bill Carrothers, David Virelles, i sassofonisti Steve Lehman e Tim Berne e i trombettisti Ambrose Akinmusire e Ralph Alessi. Con l’ultimo di questi ho avuto l’onore di registrare il mio ultimo disco, che spero uscirà a breve.
Nel tuo ultimo disco c’è Monk. Immagino sia stato un artista fondamentale per te.
Assolutamente, fondamentale. Ha allargato le mie vedute rispetto a quello che avevo percepito e imparato prima di diventare un suo fan ed analizzarlo a fondo. Oltre ad essere stato un caposcuola nel suo modo di suonare, per come concepiva il ritmo e lo spazio musicale con una visione armonica del tutto originale, è stato anche un grande compositore moderno. I suoi brani sono per ogni esecutore un territorio da esplorare con molta libertà, pur non mettendo mai da parte il marchio di fabbrica dell’autore.
Parliamo del trio di “Dark Flavour”. Com’è nato, come vi siete conosciuti? E quanto è più funzionale alla tua evoluzione pianistica e compositiva?
Matteo Bortone ed Enrico Morello li ho conosciuti a Siena jazz, durante i seminari estivi, che sono dei fantastici corsi, organizzati perfettamente, con gli insegnanti migliori in circolazione a livello internazionale. Da allora sono passati quasi tre anni, ma devo ammettere che non me ne sono accorto, perché è talmente divertente e stimolante suonare insieme che ogni volta succede qualcosa di nuovo. Abbiamo suonato molto, abbiamo perfezionato il repertorio ma anche lavorato sull’improvvisazione e su come dirigere intelligentemente qualcosa che deve essere costruito sul momento. Suonare con questo trio è seriamente funzionale alla mia evoluzione compositiva, infatti di pari passo alla crescita del gruppo, compongo nuovi brani pensando esclusivamente ai musicisti con cui suono e a quello che durante il lavoro di gruppo maturiamo. Sono sempre più predisposto a lasciarmi aperte tante strade sia nella composizione che nell’esecuzione, penso che sia molto interessante avere il coraggio di esplorare, ovviamente con cognizione di causa, per approdare a qualcosa di imprevedibile.
In “On the snow” avevi alle spalle due angeli custodi (Tavolazzi e Paoli) a sostenerti con tutta la loro esperienza. Con “Dark Flavour” hai abbandonato ogni porto sicuro per cercare di più te stesso e per sviluppare tutte le esperienze maturate finora. E’ un disco complesso anche armonicamente. E questo aspetto fa risplendere di nuova luce il carattere melodico del tuo pianismo.
Ho tratto grandissimi benefici dall’esperienza con Ares e Walter, sono due esperti musicisti che ci mettono tutto il cuore quando suonano, avere il primo gruppo con loro è stata una fortuna inimmaginabile. Sono soddisfatto di “Dark Flavour” perché è stata la prima volta in cui ho preso una posizione più netta, ho scelto i musicisti con cui suonare, il repertorio, formato in gran parte dalle mie composizioni e ho diretto il gruppo seguendo le mie idee musicali. Resta comunque uno scambio reciproco di queste idee, lasciamo che sia il feeling complessivo a trasportarci durante l’esecuzione.