La musica del chitarrista napoletano Aldo Farias rappresenta il baricentro perfetto tra differenti tradizioni, punto d’incontro ideale tra musica nord europea, sonorità del bacino del mediterraneo e tradizione afro-americana d’oltreoceano. Approccio jazzistico e gusto melodico concorrono ad esaltare la cantabilità tipica della nostra storia musicale. Un lirismo che sa essere solare o intimista, comunque sempre capace di esprimere ogni tipo di sentimento e emozione. Quella del chitarrista partenopeo è una ricerca continua, evidente in ogni nuova proposta discografica delle tante prodotte nel corso della sua lunga carriera.
Jazz mediterraneo, oltre a richiamare uno dei tuoi primi dischi, continua ad essere, a 30 anni da quell’album (“Jazz Méditerranée”), un modo per definire la tua musica. Io penso che tu sia stato uno dei primi a Napoli e in Italia a manifestare una grande maturità e lungimiranza nel modo di intendere il jazz. Non tanto linguaggio da assecondare pedissequamente, quanto più “grammatica” da acquisire per esprimere il tuo mondo culturale e la tua storia musicale. Questo emerge non solo nella scelta dei musicisti, ma anche del repertorio.
Ho iniziato a suonare jazz ascoltando tutta la tradizione della musica afro-americana ed ho avuto il piacere di suonare con musicisti come Steve Grossman, Bob Berg, Richie Cole, Steve Turre, Mike Mainieri, Frank Lacy, Steve Slagle e tanti italiani come Franco Cerri, Gianni Basso, Massimo Urbani, Stefano Bollani, Fabrizio Bosso, Stefano Di Battista. Tutte personalità che hanno contribuito a sviluppare il jazz in Italia e all’estero. Contemporaneamente ho avuto un approccio con questa musica confrontandomi con le mie radici musicali, sia stilisticamente che nella composizione, portando avanti negli anni diversi progetti e pubblicazioni con un repertorio di brani originali che risentono di tutta la musica europea.
Scorrendo la tua discografia emergono chiari periodi ed esperienze. Raccontaci delle tue formazioni, dal quintetto “storico” con i sodali Franco De Crescenzo e Angelo Farias fino alla nascita dell’“esperimento” con gli altri tre gemelli di strumento.
Con Angelo e Franco ho condiviso per tanti anni, molti progetti musicali e discografici che hanno visto la partecipazione di Bob Berg, Ilir Bakiu, Roberto Gatto e tanti altri, con l’idea di cercare un’identità musicale tra le radici della musica afro-americana e la nostra tradizione.
Il progetto “Contemporary Jazz Guitar” con i miei colleghi Antonio Onorato e Pietro Condorelli, ai quali sono legato da una lunga amicizia, è stato molto interessante perché ci ha permesso di esplorare nuove sonorità lavorando su composizioni originali e interpretazioni di standards dando vita a due pubblicazioni discografiche per la Wide Sound e tanti concerti insieme ad uno dei più grandi chitarristi europei Franco Cerri.
Rispetto a quest’ultima formazione composta da sole chitarre, probabilmente l’essere portatori di stili differenti ha paradossalmente aiutato l’amalgama del gruppo. Ma immagino sia stato molto stimolante l’arrangiamento delle composizioni.
Sicuramente, l’aspetto interessante è stato proprio quello di scambiarci idee musicali e compositive confrontandoci anche con Franco Cerri che apparteneva ad un’altra generazione.
Arriviamo all’ultima pubblicazione. A dieci anni da “Different Ways” esce per la Skidoo Records “Open Quartet”. Ancora una nuova formazione, nata in seno al Conservatorio dove insegni. Quante cose sono cambiate in questi dieci anni?
Il disco “Open Quartet” nasce dalla profonda amicizia nata all’interno del Dipartimento di Musica Jazz del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino, dove tutti noi insegniamo, e dove parallelamente all’attività didattica abbiamo svolto tanta attività concertistica che ci ha permesso di sviluppare un’interessante affinità stilistica. Il disco è stato registrato interamente live in Auditorium del Conservatorio.
Come tua abitudine il disco contiene brani originali e classici arrangiati in maniera originale. Ci vuoi parlare delle composizioni? Beat 61 e One for Bud sono tue composizioni. Waltz for a poet di Mario Nappi sembra composta apposta per la tua chitarra.
Quasi tutte le mie pubblicazioni contengono sempre composizioni originali, per me l’aspetto compositivo è importante perché mi permette di dare un’identità personale alle composizioni che suono. Beat 61 e One For Bud sono due miei brani, il primo è un brano modale ispirato dalla musica di John Coltrane, suonato con un approccio ritmico moderno, mentre il secondo è un tributo ad uno dei più grandi pianisti e compositore del periodo be bop, Bud Powell. Waltz for a poet invece è un brano di Mario Nappi che dal primo momento che l’ho suonato mi ha ispirato per la sua naturalezza armonica e melodica.
Poi grandi classici come My Ideal o Here’s that rainy day in una versione davvero rivitalizzata dalla scelta di un “tempo dispari”.
Quando suono degli standards mi piace sempre caratterizzarli per dargli un’impronta personale, in questo caso su Here’s that rainy day, brano di Van Heusen che amo tanto, mi è venuta l’idea di cambiare il tempo trasformandolo in 5/4 in modo da avere soluzioni ritmiche improvvisative diverse, mentre a My Ideal, che nasce come ballad per la sua struttura armonica ricca di accordi di settima dominante, mi piaceva dargli un carattere blues.
Hai sempre affiancato all’attività concertistica quella didattica. Tanto è cambiato anche nei Conservatori rispetto all’insegnamento della musica jazz negli ultimi 30 anni. Dall’unico insegnante che doveva compiere l’impresa titanica in 12 ore settimanali di plasmare con il suo sapere nuove generazioni di jazzisti, all’ultima organizzazione in cui i diversi aspetti di questo genere vengono trattati separatamente da docenti dedicati. Insomma siamo finalmente arrivati a quello di cui parlavamo all’inizio? L’insegnamento del jazz o, meglio, lo studio del jazz, è finalmente visto come l’acquisizione di una “grammatica” universale per esprimere la contemporaneità?
Negli anni l’insegnamento del jazz nei conservatori ha avuto un’evoluzione continua, infatti nel tempo si sono consolidati dei Dipartimenti di Musica Jazz dove, oltre all’insegnamento del proprio strumento, si sono sviluppate discipline come Arrangiamento, Composizione, Video Scrittura, Musica d’insieme e tante altre che hanno permesso agli studenti di confrontarsi su più territori in modo da seguire le proprie inclinazioni e acquisire una preparazione più completa per quello che riguarda la grammatica del jazz. Io penso che il vero problema che oggi hanno gli studenti è che ci sono pochi spazi (sale da concerto, club, ecc.) dove praticare e fare esperienze in modo da costruirsi la propria carriera musicale. In altri paesi esiste una forte componente istituzionale sia per le orchestre di jazz che per gli spazi dedicati all’ attività concertistica.
Che mi dici, invece, dell’idea di gestire, insieme a tuoi esimi colleghi, un piccolo jazz club nel centro storico di Napoli? A chi è venuta l’idea e da quale esigenza nasce? E soprattutto, se è ancora viva, qual è la finalità?
Proprio in riferimento a quello che ti dicevo prima, negli anni abbiamo cercato presso le istituzioni della nostra città (Comune, Municipalità, ecc.) uno spazio per la nostra musica. Ad oggi non siamo riusciti ad avere risposte concrete, per cui autonomamente con l’associazione JAM (Jazz Music Art) ci siamo appoggiati a spazi esistenti come la cappella dei Musici, la Cappella Pappacoda e altri luoghi nel centro storico adatti a tenere concerti. Chiaramente noi speriamo anche per le nuove generazioni. Visto il forte interesse per i Dipartimenti di Jazz nei Conservatori della nostra Regione, speriamo ci possa essere uguale interesse per la realizzazione di spazi culturali per i futuri musicisti di jazz.