«Grazie mille per essere venuti a sostenere la musica. Arriviamo a Termoli direttamente dal sud di Londra; era grigio e piovoso quando siamo partiti e quando siamo arrivati abbiamo realizzato di essere atterrati in paradiso». Sono le parole di Ashley Henry – pianista, vocalist, compositore, produttore, bandleader – che, dal palco di Piazza Duomo, dà il benvenuto alla platea, che a sua volta lo accoglie con un caloroso entusiasmo. È il 25 luglio, la piazza è gremita e con Henry inizia l’esperienza.

Indietreggiamo un po’ nel tempo e zoommiamo: Terra, Italia, Molise, Termoli, borgo antico. Mentre i cittadini si godono la tranquillità delle stradine storiche, intorno alla piazza ferve l’attività. I tecnici allestiscono il palco, i ristoratori preparano le prelibatezze locali. L’aria vibra di quell’energia vivace che precede l’inizio di un grande festival, promettendo un’esperienza straordinaria. Il sole illumina ogni angolo, pronto a far risplendere l’imminente spettacolo; come recita Pessoa: “Nella piena luce del giorno, anche i suoni splendono”. E non solo.

Me lo racconta l’infaticabile Michele Macchiagodena, Direttore Artistico del festival e Presidente dell’associazione JACK Jazz, Arts & Comedy Kingdom – che dal 2014 cura il crescendo di questo embrione d’arte: “Volendo fare una scansione della mia idea, vedo una forma a croce, dove sulla linea verticale ho messo la donna, la poesia e la scrittura – quest’anno volevo far emergere l’importanza della parola nella musica – e sulla linea verticale corre la banda contamininante, che dal jazz arriva all’elettronica passando per l’hip hop. Il jazz attraversa tante influenze e nel suo nucleo la creatività si manifesta ai massimi livelli”.

La parola mantiene il suo ruolo centrale in special modo nella seconda serata dell’evento, questa volta rivelata attraverso le voci femminili di Kyoto, Francesca Fiori e Daniela Pes. La presenza di queste artiste arricchisce il festival nel suo lato femminile, portando con sé anche un’inattesa ma gradita sorpresa: il Termoli Jazz Festival si aggiudica il premio “Gender Equality 2024”. Questo riconoscimento, conferito grazie a una lineup che riflette una maggiore parità di genere, sarà assegnato da Midj (Musicisti Italiani di Jazz) durante la manifestazione “Il Jazz Italiano per le Terre del Sisma 2024” che si terrà a L’Aquila tra il 31 Agosto e il 1 Settembre. Il premio sottolinea l’impegno del festival verso una rappresentazione più equilibrata nel panorama musicale, segnando un importante traguardo per l’evento.

Daykoda, nome d’arte di Andrea Gamba, chiude la serata del 27 luglio con una performance che incarna perfettamente lo spirito del festival. La sua esibizione funge da ponte tra diverse espressioni artistiche, offrendo una sintesi vibrante delle molteplici sfaccettature musicali esplorate durante l’evento. Combinando energia musicale, espressività e intensità del momento, la sua performance rappresenta il culmine del festival, riflettendo la ricchezza e la diversità delle proposte musicali in un unico, potente atto performativo che cattura l’essenza di questo poliedrico evento.

«Il cuore della mia direzione artistica è proporre cose nuove e sconosciute. Nei mesi che precedono il festival, quando si sente l’anticipazione nell’aria, c’è una domanda ricorrente che mi dà grande soddisfazione: la curiosità sui prossimi ospiti. A questa rispondo sempre con i nomi, aggiungendo: “Tanto non li conosci!”», continua Macchiagodena durante la chiacchierata che facciamo in diretta ai microfoni di Disis Radio, partner ufficiale del festival.

La radio si unisce al timone del festival tre anni fa, grazie all’incontro con l’editore e direttore Giuseppe Favuzza: «La radio è una grande passione. Nel 2020 abbiamo avviato il progetto, mossi dal desiderio di diffondere la cultura. Non c’era modo migliore che utilizzare una web radio, meno dispendiosa rispetto alla radio tradizionale, e con una piccola sede fisica, reminiscente delle radio libere del passato».

È proprio da una radio libera che nel 1976 inizia a trasmettere una delle presenze vocali più illustri di tutti i tempi, oggi a Radio Capital, ospite e spirito guida di questo festival: Massimo Oldani. Non soltanto voce di Vibe, programma dedicato alla musica black, in onda ininterrottamente dal 1994, ma anche giornalista, critico e consulente musicale, Oldani si unisce alla rappresentazione della parola e ci narra vicende intorno alla musica in due Sunset Talk al Borgo Mastro, nelle giornate del 25 e del 27 Luglio. Il primo incontro esplora le interconnessioni tra musica, turismo e promozione culturale sul territorio. Perché è proprio il territorio uno dei protagonisti del festival: «I festival hanno un duplice scopo: quello di far ascoltare la musica, soprattutto al di fuori del circuito mainstream, e quello di far conoscere il territorio. Per cui si torna arricchiti rispetto ad un’esperienza di questo tipo» narra Oldani, seguito da Giuseppe Nardone, segretario dell’Associazione Nazionale degli Alberghi Diffusi: «L’albergo diffuso rappresenta il territorio, offrendo al turista l’opportunità di immergersi nella comunità locale. È turismo esperienziale a tutti gli effetti».

Il Termoli Jazz Festival si afferma non solo come evento musicale, ma come vero e proprio catalizzatore per la valorizzazione del patrimonio culturale e territoriale. Gli artisti stessi diventano testimoni e complici di questa missione, immergendosi nella realtà termolese. Durante questi tre giorni, il confine tra performer e pubblico si dissolve, creando una vera e propria community collegata dall’esperienza condivisa.

ASHLEY HENRY (PH ANITA SOUKYZI)
Ashley Henry (ph A. Soukizy)

Ne è esempio il carismatico Ashley Henry, che porta sul palco il suo brano Synchronicity, uscito di recente, e che suona per la prima volta al di fuori del territorio londinese. L’artista, accompagnato dai fantastici Yves Fernandez al basso e Peter Adam Hill alla batteria, mi racconta: «È una composizione profondamente personale, ispirata alla mia Londra, una città in costante trasformazione. Crescere in un ambiente dove era normale sentire sette lingue diverse a scuola mi ha dato una prospettiva unica. ‘Synchronicity’ riflette questa diversità e rappresenta la ricerca del proprio ritmo all’interno del caos urbano, un modo per trovare armonia nella frenesia metropolitana».

Brano mantrico e raffinato, che anticipa il prossimo album “Who We Are”, in attesa per ottobre, riprodotto più volte in radio da Oldani nelle scorse settimane, travolge la platea insieme a Same Old Song, di cui riceviamo una gradita anteprima. Accompagnati dalla sua splendida voce, anche i brani Day Dream, tratto dall’EP “My Voice” del 2013, I Still Believe, tratta dall’album “Beautiful Vinyl Hunter” del 2020 e Mississippi Goddam, la sua personalissima rivisitazione del celebre brano di Nina Simone. La canzone fu eseguita per la prima volta nel 1964 ed è la risposta all’omicidio di Medgar Evers e all’attentato a una chiesa a Birmingham, Alabama, che causò la morte di quattro bambine nere: «Dopo circa tre anni di lavoro, questo brano è stato pubblicato solo pochi mesi fa. All’inizio mi era stato richiesto per uno show televisivo, ci ho pensato e ripensato, mi sembrava qualcosa di troppo grande, di un’artista così iconica. Poi è arrivato un momento in cui mi sono reso conto che il testo e il significato di questa canzone sono ancora molto attuali, e allora ho cercato di interpretarla attraverso il mio obiettivo».

Ashley conclude un’ora e poco più di set ringraziando calorosamente l’attento e incuriosito pubblico: «Siamo arrivati alla fine, il tempo è volato. Vorrei sottolineare l’importanza di luoghi e spazi come questo che mantengono viva la musica, rendono la musica e la cultura disponibili per tutti. Questo dovrebbe essere la norma».

Le parole di Henry risuonano di sincerità e passione, toccando le corde emotive del pubblico. Questa autenticità emerge ancor più nitidamente durante la nostra intervista, in cui l’artista si apre, condividendo il suo percorso musicale. Dal suo precoce avvicinamento alla musica nell’infanzia, all’influenza determinante della famiglia – un vero e proprio microcosmo musicale – fino alla sua evoluzione artistica, Henry dipinge un ritratto vivido e personale. Il suo racconto non è solo una cronologia di eventi, ma una testimonianza del potere trasformativo della musica, capace di plasmare un’identità artistica unica e in continua maturazione: «Il punto di partenza per me è stato mio padre. Possedeva un impianto audio e organizzava feste per gli amici. I miei primi ricordi sono legati all’andare nei negozi di dischi ogni fine settimana. Guardavo quei vinili non solo in quanto musica ma come opere d’arte, ne ero incantato. Andare a quelle feste mi faceva comprendere il potere che la musica ha sulle persone, come le unisce e come può davvero trasportarti in un altro mondo, indipendentemente da quello che succede fuori». Henry continua: «Ascoltando i primi dischi, da Stevie Wonder a Marvin Gaye, cercavo di imitare ad orecchio. Il jazz è arrivato solo più tardi, da adolescente. All’inizio il jazz sembrava molto esclusivo. Volevo renderlo più accessibile, mi chiedevo perché non ci fossero più giovani ad ascoltarlo. Ora è fantastico vedere che il jazz sta diventando più inclusivo perché si sta espandendo. Tutto ciò che ho assimilato fin da giovane, i diversi stili e generi musicali, mi sembrano tutti naturalmente connessi in un’unica cultura. Molti dei miei artisti preferiti sono caraibici, come la scrittrice Jude Jordan. Ognuno di loro mi ha ispirato in un modo diverso. E tutto questo non vedo l’ora possiate ascoltarlo nel prossimo disco. Mi sembra davvero come un cerchio che si chiude, dalla mia infanzia ad oggi».

L’intervista con Ashley Henry offre uno spaccato illuminante sulla nuova direzione del jazz e sull’energia giovane che permea la scena musicale contemporanea. Quando sollecitato a nominare tre album imprescindibili, Henry risponde, non senza una certa riflessione: il “Live in Newport” di Nina Simone, “Illmatic” di Nas e “Songs in the Key of Life” di Stevie Wonder.

Quest’ultima scelta trova eco nelle preferenze di Massimo Oldani, espresse durante il secondo e conclusivo Sunset Talk organizzato dal visionario Macchiagodena il 27 luglio. Oldani aggiunge alla sua lista personale “What’s Going On” di Marvin Gaye e “Brown Sugar” di D’Angelo, completando così il proprio tris di opere fondamentali.

L’evento, che vede la partecipazione di Antonello Barone, ideatore del Festival Del Sarà, e Edenio Rosati, speaker radiofonico ed esperto informatico, lo stesso Oldani e Michele Macchiagodena, si svolge in una cornice suggestiva, con i partecipanti avvolti dalla luce del tramonto ad accarezzare la muraglia del borgo. «La nostra vita è cambiata in base alla tecnologia, non è cambiata in base alle intenzioni degli artisti», espone Oldani, seguito da Rosati «La modalità di fruizione non è più “mi siedo e ascolto musica”, ma diventa un sottofondo. Tuttavia, la possibilità di ascoltare altri generi musicali in modo diverso rimane invariata, sia che provenga da un disco sia che arrivi tramite fibra ottica. A quel punto, la fonte diventa irrilevante. La modalità di fruizione è sì influenzata dalla tecnologia, ma nulla ci impedisce di utilizzare i metodi tradizionali».

La discussione spazia attraverso temi cruciali quali la tecnologia, la musica e le trasformazioni in atto nell’industria, dai supporti fisici alle piattaforme di musica liquida, offrendo una prospettiva multifacettata sul futuro del settore, fino alla prospettiva dei festival, nelle parole di Barone: «Penso che i festival abbiano l’opportunità di creare due elementi forti in una comunità: l’identità e la capacità di essere una comunità con una prospettiva. È una proposta che si accompagna a un percorso di crescita culturale, avviando un meccanismo per cui possiamo immaginare di essere luoghi visitati non solo per il buon pesce, il bel mare o i tramonti spettacolari, ma anche per gli eventi che offrono opportunità di crescita, sia per i visitatori sia per le persone che vivono in quel territorio».

Questo approccio sinergico tra musica e territorio arricchisce l’esperienza del festival, offrendo ai partecipanti non solo concerti, ma una vera immersione nella cultura locale vista attraverso gli occhi degli artisti. È ciò che è successo a Termoli, dove la comunità locale ha accolto turisti e spettatori, creando tre giorni di aggregazione con uno spirito positivamente singolare.

KYOTO (PH ANITA SOUKYZI)
Kyoto (ph A. Soukizy)

Lo testimonia anche la giornata del 26 luglio, che si distingue per la sua forte impronta femminile. Il palco accoglie Kyoto, nome d’arte di Roberta Russo, affiancata da Toto Ronzulli. Roberta, poliedrica artista che spazia dalla batteria al beatbox, dal canto alla performance, si unisce a Toto, proveniente dal mondo del clubbing e del deejaying.

La loro esibizione, intensa e coinvolgente, si concentra sull’EP “Limes Limen”, presentando dal vivo brani come Sangue, Inferno e Mishima. «Le cinque tracce esplorano il concetto di “limite” nelle sue diverse sfaccettature, sia positive che negative. Il termine latino “limes” rappresenta il limite come barriera, simboleggiando le fortificazioni romane che ostacolavano l’apertura verso l’altro. Al contrario, “limen” indica una soglia, una linea sottile che permette la comunicazione tra due parti. L’album riflette questa dualità concettuale», mi raccontano Roberta e Toto. Alcuni brani, principalmente quelli in stile spoken word, si concentrano sui limiti universali, mentre altri, più melodici e cantati come Inferno e Buco, esplorano i limiti interiori e personali dell’essere umano. Brani come Sangue, Mishima e Frontiera affrontano invece tematiche più ampie e sociali.

La performance vede in platea un target piuttosto variegato, eppure persone di ogni età restano ipnotizzate, catturate, a tratti congelate dalla forza che il suono e la parola creano in Piazza Duomo. Un connubio molto potente di forza e delicatezza.

FRANCESCA FIORI (PH ANITA SOUKYZI)
Francesca Fiori (ph A. Soukizy)

Nell’atmosfera estatica, appare sul palco una figura vestita di bianco: “L’importanza del narrarsi é che a dirsi, poi, si diventa persone”, proclama la poetessa termolese Francesca Fiori. Il suo spettacolo, “Da oggetto a soggetto. Fenomenologia di me stessa”, include testi come Memoriale e La Dote, tratti dalla sua prima raccolta “Le Nutrici”.

Francesca spiega il concetto dietro la sua opera: «La prima raccolta è stata un’indagine su quelli che erano i femminili che io avevo vissuto attraverso le altre donne che ho conosciuto nella mia vita, principalmente le donne della mia infanzia e quindi in che modo io ho assorbito questo concetto di femminile. ‘Pornostrega’, ‘Crisis’ e ‘L’Ultima Matrioska’ sono brani che appariranno nella prossima pubblicazione, che ruoterà intorno a come io voglio esistere. C’è un principio di desiderio che secondo me va rivendicato, soprattutto in quanto abitanti di questo spazio non conforme che è il femminile e poi come persone in generale. È un po’ una riappropriazione di voce, corpo e spazio».

La sua voce risuona: “Ho esplorato lo spazio angusto. Tra le mie ossa mi sono alzata piegata slogata, scucita strappata sgualcita tra le pieghe delle emozioni, in rivolta, una geografia di spazi inquieti” continua la voce della performer. Il pubblico, cristallizzato, esplode in un applauso caloroso. Alcune donne tra gli spettatori hanno gli occhi lucidi, segno che Francesca ha toccato corde universali.

Riguardo alla sua evoluzione come performer, Francesca mi racconta: «Le prime volte che prendevo il microfono ero molto tesa, le corde vocali si irrigidivano parecchio. E invece io trovo molto coerente con il mio percorso e, con questo atto un po’ liberatorio, il potersi permettere di sentirsi parlare senza dover provare vergogna. E quindi ho scoperto di avere una voce».

Macchiagodena commenta: «La poesia di Francesca è cruda, intensa e viscerale. La sua autenticità ha toccato il pubblico in modo profondo, aprendo nuove prospettive di ascolto e comprensione. Nonostante l’assenza di accompagnamento musicale, la sua performance ha mantenuto una tensione palpabile dall’inizio alla fine. È stato straordinario vedere come gli spettatori siano rimasti totalmente coinvolti per l’intera durata dell’esibizione, catturati dalla potenza delle sue parole».

La notte è densa, e con essa si intensifica anche l’esperienza musicale del festival. La terza voce femminile della serata, Daniela Pes, sussurra il suo ingresso sul palco, portando gli spettatori in un viaggio sonoro che incarna perfettamente il sottotitolo del festival, “Out of the comfort zone”. Questa performance, come le altre della serata, riflette l’obiettivo di Macchiagodena di condurre gli spettatori verso territori musicali inesplorati.

La cantante e musicista sarda, accompagnata da Mariagiulia Degli Amori e Maru Barucco, ci rende partecipi del suo primo album, “Spira” con brani come Ora, Ca Mira, Illa Sera. La musica di Daniela Pes si manifesta come un’entità viva e pulsante, un paesaggio sonoro in perpetua metamorfosi che sfida e trascende le convenzioni musicali tradizionali. Emerge come una struttura porosa, un’alternanza ipnotica tra vuoto e pieno che crea spazi sonori nei quali l’ascoltatore può immergersi e essere avvolto completamente dal suono. Questa dualità si fonde con un’esperienza viscerale e intuitiva che va oltre il verbale, evocando una risposta fisica ed emotiva che trascende la mera comprensione intellettuale.

Come una massa lavica primordiale, la sua composizione si comporta quale forza naturale incontrollabile che simultaneamente radica l’ascoltatore nelle profondità della terra e lo eleva verso il cielo, creando una tensione dinamica tra il terreno e l’etereo. In questo paesaggio narrativo che continua a mutare, la musica evoca immagini ed emozioni attraverso la pura espressione sonora, ancorando l’ascoltatore al momento presente mentre apre porte verso dimensioni spirituali, invitando a un’esperienza trascendente.

Questo approccio multidimensionale genera un’esperienza d’ascolto che è al contempo radicata ed eterea, fisica e spirituale, personale e universale, trasformando la musica di Daniela Pes in un portale verso un’esperienza sensoriale totale che sfida ed espande i confini della percezione musicale tradizionale. Invita l’ascoltatore a un viaggio attraverso paesaggi sonori inesplorati, dove ogni nota respira, palpita e racconta storie di mondi interiori ed esteriori in continua trasformazione.

DAYKODA (PH ANITA SOUKYZI)
Daykoda (ph A. Soukizy)

La sera del 27 luglio rappresenta l’apice di questa ricerca di bellezza e innovazione cui stiamo partecipando. Sotto una maestosa luna rossa, Daykoda sale sul palco accompagnato dai suoi talentuosi compagni: Riccardo Sala al sax e synth, Andrea Dominoni al basso e Matteo D’Ignazi alla batteria.

Daykoda racconta le origini del progetto: «Nato nel 2019 a Milano, inizialmente era molto orientato all’elettronica. L’incontro con i ragazzi ha poi portato a una maggiore presenza di musica suonata dal vivo. Devo tutto a Milano, che mi ha offerto l’opportunità di conoscere persone straordinarie e di immergermi in un ambiente musicale in continua evoluzione».

La piazza è gremita in ogni suo angolo e si percepisce un intenso scambio di energia tra artisti e pubblico. La forte sintonia tra i musicisti si riflette in una performance che spazia tra brani dell’ultimo album “Uno”, del precedente “Physis”, e alcune anticipazioni di materiale inedito. La fusione tra elettronica e acustica è magistralmente orchestrata, come dimostra la reazione del pubblico, completamente rapito dalla performance. L’esibizione di Daykoda incarna perfettamente lo spirito del festival, portando gli spettatori fuori dalla loro zona di comfort e verso nuove frontiere musicali.

A coronare la ricca programmazione del festival, il DJ Luca Rozzi assume il ruolo di tessitore sonoro, intrecciando i fili musicali dei tre intensi giorni appena trascorsi. La sua selezione eclettica abbraccia l’essenza della contaminazione che ha caratterizzato l’evento, spaziando dal jazz al soul.

Sotto lo stesso cielo che ha fatto da sfondo alle diverse sfumature musicali esplorate durante il festival, Rozzi crea un mosaico sonoro che riecheggia la varietà e la ricchezza delle performance precedenti. Il suo set attraversa generi e epoche, passando con fluidità da artisti come Robert Glasper a D’Angelo, offrendo al pubblico un viaggio musicale che riassume e celebra la diversità artistica dell’intero festival.

Questa chiusura rappresenta il perfetto epilogo per un evento che ha fatto della contaminazione e dell’esplorazione musicale il suo punto di forza, lasciando risuonare nell’aria le ultime note di un’esperienza culturale memorabile.

Il Termoli Jazz Festival si è rivelato un crocevia di talenti, fondendo armoniosamente l’energia innovativa degli artisti emergenti con la profonda conoscenza degli esperti del settore. Questo mix dinamico si è perfettamente integrato con lo scenario suggestivo della località, creando un’esperienza culturale unica.

Michele Macchiagodena, riflettendo sull’essenza dell’evento, afferma: “L’esperienza live è ciò che ci riconnette con la nostra umanità. I festival sono potenti catalizzatori di cultura e di incontri tra persone. Si dice spesso che con la cultura non si mangia, ma la verità è che la cultura non solo nutre, ma ci permette di nutrirci bene”.