Pop d’autore certamente. Ma sottolineiamo quanto sia alta la pregiata stesura del lavoro, artigianale anche se molto del suono è digitale. E nulla da eccepire sulle liriche che forse avremmo voluto un po’ meno “pop” nel senso di direzione… vista la levatura del lavoro, si poteva ambire anche ad un potere visionario della lirica più sfacciato e onirico. Nereo, cantautore di Bari, pubblica il suo disco d’esordio “Danze cosmiche”, lavoro ben misurato, nella voce soprattutto che risulta un punto di forza spesso mai raggiunto nelle nuove produzioni italiane. Educazione vocale in primis ma anche quell’eleganza che diviene sintesi nel suono progettato e suonato. Indaghiamo meglio come nostro solito.

 

 

Parliamo del suono. Un disco autoprodotto che significa anche dal punto di vista tecnico? Come ci hai lavorato?

Le mie canzoni nascono al pianoforte: accordi e parole. Mi affido, poi, a produttori con esperienza per dare al poco una forma che sia tutto, o quasi. Mi piace suggerire soluzioni, in fase di produzione, ma spesso devo scontrarmi con la visione di chi prende in carico il brano. Si tende a far prevalere l’io, in quest’ambito, per cui la mia idea, il mio sentire, il mio concetto duella con la regola, la ritmica, l’armonia, la concretezza del mestiere. I risultati son sempre una via di mezzo, come il vestito della Bella addormentata, un po’ rosa, un po’ blu, a volte solo blu o solo rosa.

 

“Danze cosmiche” poi, alla fin della fiera, ha il suono che ti immaginavi o l’hai scoperto strada facendo?

Sì, e credo anche il risultato vada oltre le mie aspettative. Alla fine, quando scrivi una melodia non sai cosa accadrà, rimane nel cassetto, non ti piace, arrivi anche a detestarla, poi la riprendi, la modifichi, la accetti. Mi affascina moltissimo la capacità dell’arrangiatore di tirar fuori da un mucchio di note una costruzione autosufficiente.

 

E mi piace sempre chiedere: alla fine, quando il disco ha una sua identità ormai matura, somiglia a quel che sei tu o tu cerchi di somigliare a chi c’è dietro al disco? Domanda sottile, ma ti prego di afferrarne il concetto che è strettamente legato alla produzione…

Forse lo accennavo prima, e l’ho scritto proprio in occasione del lancio del disco. Il mondo della musica è intriso di narcisismi, di solleticamenti dell’ego, per cui, se già l’artista di per sé brama di poter essere ascoltato, adulato, riconosciuto, amato, lo scontro con l’arrangiatore si fa feroce, se quest’ultimo brama, a sua volta, di anteporre il proprio lavoro, il tappeto melodico, le scelte artistiche frutto d’esperienza e sudore (il che non mi stupisce, lo comprendo) al sogno del cantautore. Tutto ciò per ammettere che ho un caratteraccio, e che il mio disco è quel compromesso perfetto tra la melodia e la forza delle argomentazioni altrui. Somiglia a quel che sono io con le dovute accortezze.

“Gabbiano” ha delle rifiniture di jazz… come mai questo fuori pista? Anche perché penso sia l’unico momento del disco…

Essendo le “Danze cosmiche” policromatiche, ho pensato di offrirmi nelle mie sfaccettature. Quella del jazz è una passione che risale ai primi anni di studio del canto. La mia insegnante mi faceva ascoltare, a lezione, le perle di Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Al Jarreau e tanti altri. Ricordo quel periodo con molto affetto.

 

E poi la chiusa “La Stanza”… perché questa registrazione sembra provenire da altri lidi? Sembra una registrazione diversa… sbaglio?

È un pezzo che non potevo ricantare e che non volevo riarrangiare. Fa parte del passato ed è stato inserito perché quell’interpretazione fuori dal tempo potesse restare incisa come un dogma. Non si mette in discussione.