Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto del mondo. Il Progressive Rock dunque nacque con i King Crimson, ed era il 1969 e nel corso degli anni a seguire, ci fu un fiorire di talentuosi artisti che si fregiarono con merito di questa etichetta. Conosciamo più o meno tutti la sequenza di dischi di notevole spessore e, perché no, di sperimentazione, ad opera di quel genio di Robert Fripp che, leader indubbio della band fin dal primo disco decide con “RED”, di chiudere un capitolo: la storia dei King Crimson romantici del Progressive. In realtà il ‘capitolo’ era già da tempo sotto inchiesta, i lavori chitarristici di Fripp nei due precedenti album erano già proiettati verso un futuro che apriva le porte ad una sperimentazione molto più spinta ed audace. Anche la band, reduce da una tournée americana viene in parte rimaneggiata, David Cross viene allontanato e compare solo come session man nei credits del disco. Restano insieme a Fripp (chitarra e mellotron), John Wetton (basso e voce) e Bill Bruford (batteria), tutti gli altri solo pagati a prestazione, e parliamo di Ian McDonald (fiati), Mel Collins (Sax soprano) e lo stesso David Cross (violino).
E’ cosi che nasce “RED”, dopo appena una settimana dalla chiusura del tour americano, i tre si chiudono in studio coadiuvati dai soliti collaboratori storici del Re Cremisi e registrano il disco che traghetterà la lunga stagione del prog su una sponda fatta di chitarrismo squadrato e ossessivo… si aprono le porte al Punk/New Wave. Non a caso il mitico Curt Cobain definì questo capolavoro “il più grande album di tutti i tempi”.
Apre il disco il brano che dà il titolo all’album, ossessivo e penetrante come un trapano nel muro alle 7 di mattina, un riff di chitarra ripetuta all’infinito e sovraincisa a diverse tonalità, i 6 minuti più lunghi di sempre, un’interminabile performance con la lente d’ingrandimento puntata sul gran lavoro di batteria (Bruford, un grande) e basso.
Segue Fallen Angel, la classica ballad alla Crimson, Wetton abbracciato dagli arpeggi graffianti di Fripp e fraseggi di tromba (Mark Charig) e oboe (Robin Miller)… c’è un uso di chitarra acustica che viene usata da Fripp per l’ultima volta con i King Crimson.
One More Red Nightmare chiude il lato A del disco, un pezzo tiratissimo, un riff ripetuto per tutto il brano pare avvolgerci in una spirale tenebrosa, è un tappeto steso a favore dei numerosi interventi di Ian McDonald e Mel Collins ai sax che pare illuminino la voce di Wetton. C’è una struttura di fiati da brividi, tutti in pista a ricamare dietro ad una melodia che vuole farsi spazio ma cede alla potenza di fuoco degli strumenti, qui Bill Bruford è da oscar! Una curiosità, il testo narra di un incidente aereo raccontato come un incubo, testo di Wetton che era terrorizzato dal volare.
Lato B, Providence, solo strumentale, il violino di David Cross dà il via ed è difficile credere che esista uno spartito di questo brano, forse un canovaccio ma niente di più, d’altronde chi ha seguito i King Crimson dal vivo sa cosa vuol dire seguire una traccia ma non sapere tra due minuti cosa si suona. Effetti elettronici, violino elettrificato, chitarra distorta al massimo, il basso ‘slappato’ (e siamo nel ’74!!!) di Wetton ed un lavoro di Bruford da farci studiare su a chi lo strumento vuole suonarlo davvero.
E’ stato solo un preludio finora, quattro brani che portano dritti ad uno dei più bei pezzi mai scritti:
Starless, oltre non si va, una poesia irraggiungibile per chiunque!
Una sinfonia di archi e mellotron che presentano un Wetton che sembra una carezza al cuore, e l’anima di McDonald che prende per mano Fripp in un fraseggio commuovente. La voce miscelata alla malinconia delle note del sax riesce a scaldarci il cuore pur lasciandoci un’immensa tristezza fino alle note prese dalle corde della Gibson e sostenute da una incredibile paranoia creata da una sezione ritmica da ansia crescente… la strada ci porterà dove c’è speranza di trovarsi, o ri-trovarsi, per un cammino dove finalmente si evitano le vie di fuga. Se “RED” è il miglior album dei KC, Starless è l’apoteosi, è tutta lì in 12 e passa minuti di vita assoluta, i primi 4 minuti sono un incanto, quanto di più intenso e profondo possa esserci, un inno all’amore che si perderà nei successivi minuti di profonda tristezza fino alle grida di aiuto del finale, che riprende il tema iniziale accelerando il tempo.
E’ l’epilogo schizoide!
Siamo assai strani noi, ascoltiamo musica da tutta la vita, parliamo dei nostri vecchi dischi e ci brilla una luce negli occhi, ci fa riconoscere tra di noi, ci fa provare le stesse emozioni nello stesso momento e per le stesse cose. La musica ha avuto ovviamente la sua normale evoluzione, ma tornare indietro non è solo nostalgia, noi questa musica non l’abbiamo solo ascoltata, l’abbiamo vissuta, siamo nati con lei, le emozioni di chi giovane oggi ascolta “RED” non possono essere uguali alle nostre, c’è un salto temporale e di esperienze che è incolmabile, il periodo magico non l’hanno vissuto. All’epoca non sapevamo che ascoltavamo il Progressive Rock, allora non capivo che anche loro che la musica la creavano avevano bisogno sì di tecnica, ma soprattutto di anima e di cuore, perché comporre Starless senza questi due ingredienti non è possibile, è per questo che amo questo disco e questo brano più di tutti, sono un inguaribile vecchio romanticone lo so, ma mi piaccio tanto così.
Buona musica.
Musicisti
Robert Fripp, Chitarra, Mellotron
John Wetton, Basso, Voce
Bill Bruford, Batteria
David Cross, Violino
Mel Collins, Sax Soprano
Ian McDonald, Sax Alto
Robin Miller, Oboe
Mark Charig, Cornetta
Tracklist
01. Red
02. Fallen Angel
03. One More Red Nightmare
04. Providence
05. Starless