Parliamo innanzitutto di un ritorno alle origini, fatta eccezione per le ovvie distribuzioni digitali. Ma per il resto siamo di fronte ad un disco “antico”, concettuale e “sinfonico” nel suo essere rock. Beppe Cunico, turnista di grande carriera, ci e si regala un primo lavoro personale in cui è protagonista assoluto dei suoni suonati come delle partiture. E i fili conduttori sono essenzialmente due: dal lato estetico siamo di fronte ad un lavoro di rock progressivo con venature metal che dai Genesis ai Deep Purple con sferzate psichedeliche al primissimo periodo Floyd, ci riporta davvero indietro nel tempo, di quegli ascolti sacri e solenni, dove la distorsione non è invasiva e dove tutto il ricamo diviene pregiato nella sua tecnica. L’altro filo è il concetto, il concept album che in qualche modo si può raggiungere dietro ogni traccia di questo disco: come tradisce il titolo “Passion, Love, Heart & Soul”, Beppe Cunico parla di sé e della sua vita, delle persone che “accadono” attorno, della passione che esplode contro la matematica delle regole spesso discutibili. Cunico non ci sta neanche a scendere a compromessi con il prodotto fisico regalandoci la possibilità di comprare questa musica in una edizione in vinile come non se ne vedevano da tempo. E tutto questo ci affascina… poi il suono, antico anche nelle riprese e nel fare analogico che però a volte soffre appena le ventate di modernità che respirano inevitabilmente, proprio a voler essere pignoli… avremmo gradito solamente quello stridio analogico degli anni ’70. Ma anche sul fronte suono, questo disco davvero non la manda a dire.

 

Partiamo dal suono. Un disco davvero solenne, di rock e di sfumature progressive. Innanzitutto parliamo di composizione e arrangiamenti. Come ci hai lavorato?

Quasi tutti i brani sono iniziati creando una successione di accordi che traducevano le sensazioni provate negli episodi descritti dal testo. Non mi sono mai curato della forma delle tonalità, nel senso che il cambio da minore a maggiore era dato da ciò che sentivo, immaginando il tutto come un viaggio per la mente. Fino a 25 anni ho suonato la batteria, poi ho smesso per dedicarmi al mestiere di fonico nel mio studio dal 1990 fino al 2008. Questo mi ha aiutato molto nella pre-produzione del disco, dove ho suonato tutti gli strumenti. Una volta ultimato il tutto con l’aiuto di Sandro Franchin, sono entrato in studio a mettere tutto in bella copia.

 

E poi non trascuriamo la registrazione. Che ci racconti in merito?

Essendo passato dal registratore multi-traccia a bobine all’Hard Disk Recording, assimilandone pregi e difetti, nel mio disco ho voluto ricreare il modo di registrare di una volta, prendendo la take migliore senza fare editing, lasciando anche quelle imperfezioni date dalla foga del momento che rendono l’esecuzione genuina e sincera.

Alberto Gaffuri, l’ingegnere del suono, ha curato molto la ripresa sia degli strumenti che dell’ambiente, catturando un suono molto genuino. Alcuni brani come Silent Heroes sono in presa diretta per dare al suono e all’esecuzione un’aggressività aggiuntiva.

 

Collaborazioni? A chi devi molto per questo disco?

Sandro Franchin, amico e collaboratore da oltre 20 anni. Senza di lui non avrei mai raggiunto questo risultato visto che prima del 26 aprile 2016 non avevo mai preso in mano una chitarra, ed ancora meno usato la mia voce per cantare. Ma dopo quella data mi sono buttato a capofitto a studiare lo strumento ed a comporre. In questo Sandro mi ha sempre incitato a proseguire, dandomi preziosi consigli. L’altra mia immensa fortuna è stata quella di conoscere, negli anni di lavoro in studio, dei grandi musicisti che, quando ho chiesto loro di partecipare al mio disco, sono venuti a suonare con un entusiasmo incredibile. La passione che questi amici ci hanno messo mi ha veramente commosso e per questo ringrazio Elio Rivagli, Franco Testa, Alberto Milani, Michele Bon, Betty Sfriso, Fabio Trentini, Massimo Varini, Valerio Semplici e tutte le persone che hanno collaborato più o meno direttamente a questo lavoro.

La stampa in vinile è decisamente un’opera imponente. Come nasce e soprattutto perché una simile impresa per un disco d’esordio in un tempo in cui il disco ha perso quasi ogni suo significato?

Io ho ancora il ricordo della mia gioventù, quando prendevo un vinile in mano e guardavo le foto, leggevo i testi ed i crediti. Quel rituale era parte integrante dell’ascolto, e volevo provare di nuovo quella sensazione anche con il mio disco, condividendola i miei figli e con tutti i giovani incuriositi da questo supporto “antico”. Il disco in vinile ha un grande significato oggi perché valorizza la bellezza, antidoto contro l’autodistruzione.

 

E come ultima curiosità parlaci di questi due video e della copertina: perché ricorrere sempre al fumetto?

L’idea è nata con il video: l’idea che avevo avuto per Silent Heroes era realizzabile attraverso l’animazione, soprattutto per un discorso di costi. Poi, visto il risultato che Nicola Elipanni e Federico Amata hanno ottenuto, ho deciso di usare il disegno anche per la copertina e per le tavole che accompagnano ogni brano. Nel terzo singolo, invece, ho usato sia riprese video che animazione. Comunque, se pensiamo agli anni ‘70 ed alle copertine di Yes, Genesis e King Krimson il disegno è stato usato tantissimo ed ho sempre amato quel tipo d’estetica.