Alessandra Novaga, musicista ed esponente della nuova scena creativa milanese, rivisitera’, attraverso una serie di performance dal vivo, l’integrale di The Book of Heads di John Zorn.
Come e’ avvenuto il prezioso incontro con la chitarra e la successiva svolta creativa?
Come accade a molti musicisti, mi sono avvicinata allo strumento senza un motivo particolare, avevo dieci anni e a casa mia c’era una chitarra. Dopo la prima lezione il maestro mi fece capire che da lui avrei appreso solo l’aspetto classico. Ho accettato l’idea subito, senza esitare. Ho trascorso gli anni dell’adolescenza applicandomi con piacere e senza alcuno sforzo allo studio cercando di non trascurare la ricerca e soprattutto la mia curiosita’ ma non sono mai stata una fanatica dello strumento; la contestualizzazione maniacale che avviene negli ambienti chitarristici, persuade un mondo claustrofobico che non mi appartiene. Il percorso musicale intrapreso ha avuto come fonte un’idea strutturata e ispirata trasmessami dai maestri che mi hanno permesso di entrare nella musica e nello studio della chitarra in modo privilegiato. Per anni ho gravitato esclusivamente nell‘ambiente classico ma la mia vita andava avanti e si formavano i miei riferimenti culturali fatti di cinema, libri, teatro, persone, viaggi e a un certo punto ho sentito che c’era sempre meno corrispondenza tra cio’ che si muoveva dentro me e l’ambiente classico. Ho sentito che non era piu’ la “conservazione” di qualcosa che mi ispirava, ma la necessita’ di vivere il mio presente in tutta la sua pienezza, tutto quello da cui siamo pervasi in quest’epoca compresa l’entita’ del suono. Certamente non casuali, una serie di esperienze hanno favorito quella che io chiamo una grande curva nel mio approccio alla musica. Un concerto dei Bang on a Can, una band newyorkese che si occupa di musica colta e classica attraverso l’utilizzo di strumenti elettrici mi ha fatto intravedere un’altra strada. L’incontro col teatro e la composizione delle musiche per lo spettacolo Note per un collasso mentale tratto da La mostra delle atrocita’ di James G. Ballard (autore quasi di formazione per me) diretto da Giuseppe Isgro’ nel quale anche l’aspetto performativo e’ stato importante dato che suonavo in scena due chitarre classiche, una come fosse una viola da gamba, con l’arco, e l’altra microfonata e processata live dal sound designer Giovanni Isgro’. Ma il momento di svolta decisivo e’ avvenuto grazie all’incontro che non esiterei a definire amoroso con un pezzo per chitarra elettrica di Fausto Romitelli, una delle personalita’ musicali piu’ importanti e incisive di questi ultimi tempi, Trash Tv Trance. L’urgenza di suonare questo pezzo mi ha spinto a uscire di casa per comprarmi una Fender e tutti gli effetti necessari!
Che cosa scatena il tuo approccio creativo alla chitarra e all’improvvisazione?
Negli anni il mio approccio non e’ cambiato molto, una bella Gibson da imbracciare e le scale di Segovia per cio’ che concerne l’aspetto tecnico. Io non sono una jazzista. I miei maestri mi hanno permesso di sondare la ricchezza del suono. Fenomenologicamente parlando il suono e’ l’elemento piu’ importante, quello da cui nasce la musica. Per questo ho sempre sentito che la chitarra e’ il mio strumento, piu’ malleabile, dal punto di vista sonoro, di tutti gli altri. L’intervento avviene in modo diretto senza filtro alcuno, la sola curva dell‘unghia tira fuori sonorita’ diverse a seconda di quale parte usi, la corda sotto le dita da manipolare senza alcun filtro come un arco o la meccanica di un pianoforte o il fiato. La brillante coalescenza corpo-suono e l’ascolto sono elementi fondamentali. I tanti anni di classica mi hanno dato un senso della forma e delle proporzioni. Nell’ambito improvvisativo c’e’ tutto quello che sei e che sai, anche solo in modo inconscio. Con la composizione ho un approccio istintivo, fino ad ora l’ho fatto solo per il teatro e solo grazie all’affinita’ che ho con le persone con cui collaboro. Prossimo e’ lo spettacolo di cui ho scritto le musiche che suonero’ in scena con Elena Russo Arman, attrice e regista del Teatro dell’Elfo di Milano con cui ho attraversato tutti i generi dato che insieme abbiamo interpretato Platero y Yo e uno spettacolo su Shakespeare e Dowland; in autunno faremo La mia vita era un fucile carico all’Elfo Puccini, uno spettacolo su Emily Dickinson molto elettrico!
Qual e’ stata la personalita’ musicale con la quale hai condiviso una performance intensa?
Con due grandi musicisti, il percussionista Elio Marchesini e il compositore/violoncellista Sandro Mussida, pur provenendo da diverse formazioni ed esperienze, abbiamo fondato il trio Hurla Janus, attivo da meno di un anno ma gia’ con belle e importanti esperienze come ensemble. Abbiamo deciso di unirci perche’ abbiamo un obiettivo comune e cioe’ quello di creare a Milano una scena musicale attiva, una sorta di stagione di musica nuova/sperimentale con anche incursioni nell’avanguardia creando collaborazioni con altri musicisti e compositori che portino il loro apporto. Tra le esperienze piu’ importanti che abbiamo avute il concerto di quest’estate a New York per la serie Incubators Arts Project; abbiamo suonato a St Mark’s Church, all’Ontological Hysteric Theater sede storicamente importante per l’avvicendarsi prima dei readings dei grandi poeti beat, poi di personalita’ come John Cage e Philip Glass e in ultimo sede del grande regista sperimentale Richard Foreman. A Milano invece la maratona di cinque ore che abbiamo organizzato con grande successo e partecipazione del pubblico alla Triennale per festeggiare il centenario della nascita di John Cage, autore a noi molto caro. Per questa occasione abbiamo coinvolto sul palco molte persone, musicisti, attori, scrittori, matematici … e’ stata davvero una grande festa!
Quanto e’ importante l’aspetto della performance?
Per tornare a quella che e’ stata la mia curva, la performance ha avuto un aspetto centrale. Quando io uso questo termine, performance, e’ per definire un genere ben preciso. Parlo di vere e proprie composizioni, per lo piu’ testuali, nelle quali i compositori, nella maggior parte dei casi musicisti ma non solo, danno delle istruzioni ben precise, dei gesti da compiere, delle situazioni da ricreare e ci si ritrova ad eseguirle sapendo che il pubblico non ha assolutamente idea di quello che accade. E’ una forma viva soprattutto negli Stati Uniti e io ho la fortuna di avere diversi amici che si muovono in questo ambito, e di uno in particolare, Francesco Gagliardi che ora vive a Toronto, ho eseguito da sola e con Hurla Janus diverse partiture. Una delle piu’ interessanti e’ Film nella quale i performers devono restituire a loro modo la scena prescelta di un film con anche il supporto audio della scena stessa registrata in lo-fi su un vecchio registratore a cassette. Per me gli aspetti piu’ importante, in questo genere, sono la qualita’ della concentrazione e la percezione del fluire del tempo.
L’esperienza delle partiture testuali e grafiche e’ stata entusiasmante immagino.
All’inizio ne ero terrorizzata, ora invece mi sento a mio agio a frequentarle. Ho impiegato diverso tempo per trovare il coraggio di entrarci. Anche qui il suono gioca la sua parte fondamentale. Mi interessa la chitarra elettrica perche’ posso manipolare il suono e inventare nuove gestualita’. Il segno grafico e’ importante, scritte e disegni non hanno un fruitore specifico, ma chiunque puo’ interpretarli. Poi arrivano le idee, da dove non so…ma arrivano.
Come nasce e si sviluppa l’idea di rivisitare con una serie di concerti The Book of Heads?
Ho comprano le partiture, un bel malloppetto di minuscoli cartoncini e sono entrata in una meravigliosa dimensione. The Book of Heads e’ composto da trentacique studi per chitarra tutti manoscritti si direbbe a china; ognuno e’ una griglia composta da disegni, scritte a volte indecifrabili, suoni onomatopeici, rarissimamente note. L’unica indicazione di Zorn e’ quella di suonarli cosi’ come sono oppure di improvvisarci prima durante e dopo. Bisogna usare diversi tipi di chitarre ma non ci sono indicazioni precise su come associare un tipo di chitarra a uno studio, salvo forse in due o tre casi, e oggetti vari, tanti palloncini, archi, bambole parlanti, lime per le unghie etc.. Eseguirli tutti e’ un’esperienza esaltante e intensa in cui devi metter in gioco davvero tutto quello che sai fare e quello che non hai mai pensato di poter fare. Per questi concerti io usero’ una Fender, una Gibson semiacustica, una dobro, un’acustica jazz degli anni ’50 e una classica. In Italia non sono mai stati eseguiti integralmente anche se si tratta di una partitura del ’78. Zorn li ha scritti per Eugene Chadbourne ma il disco della Tzadik del ’95 e’ stato registrato da Marc Ribot. Per me, tornando all’improvvisazione, e’ un’occasione ghiotta perche’ io ho comunque un testo su cui basarmi, un autore vero a cui ispirarmi la cui grandezza pero’ sta proprio nel metterti nella condizione di seguirlo ma di essere libero di fare tutti i voli che desideri fare. In piu’ esiste una doppia valenza: da un lato la fisicita’ bruta, la ricerca dei suoni e dei modi in cui ottenerli, talvolta quasi narrativi come quello in cui devi fare praticamente il sonoro di un cartoon, dall’altra parte la chitarra che diventa idea, astrazione. Piu’ chitarre suoni meno chitarra c‘e’. Il pericolo e’ far diventare il tutto troppo astratto. Difficile tenere i piedi per terra e diversificare ogni studio.
Per te la figura di John Zorn cosa rappresenta?
Di lui ammiro molto il percorso che ha avuto e quello che ha saputo creare senza mai scendere a compromessi e mantenendo sempre, anche dopo quarant’anni di attivita’ intensa, un’ispirazione molto forte. Mi piace la qualita’ di cui si e’ sempre attorniato, i musicisti che suonano con lui da sempre sono tra i migliori in circolazione, e ho avuto modo di vedere e conoscere a New York i giovani di cui si attornia ora che sono di altissimo livello. Mi piace il suo eclettismo nel muoversi tra i generi e la capacita’ imprenditoriale che lo ha visto negli anni fondare la Tzadik, una delle etichette piu’ interessanti del momento, e proprietario dello Stone che a Downtown rimane uno dei posti piu’ stimolanti e interessanti della scena sperimentale. Come essere culturale, mi piace il suo cervello a sonagli. Le sue sagge evasioni creative. Il modo di porsi come comunicatore e la sua impressionante vitalita’. Rappresenta l’aspirazione ad una certa qualita’
Cosa consigli ai giovani che si avvicinano a questo ambiente sonoro?
Di non fare scuole e di sperimentare in prima persona, viaggiare ed ascoltare musica. Sarebbe un paradosso pensare di insegnare una partitura di The Book of Heads.
Cosa accadra’ nel breve nella vita musicale di Alessandra Novaga?
Mi auguro tantissime cose, di collaborare con musicisti interessanti, di viaggiare di avere nuova musica da suonare e che l’entusiasmo e la vitalita’ che mi pervadono oggi non si esauriscano.
Le date di Book of Heads:
16 Marzo – diretta da Piazza Verdi su Rai radio3 dalle 14.30 in poi
23 marzo – Associazione 15 Febbraio – Via Baretti 31/a – Torino
25 marzo – O’ – Via Pastrengo 12 – Milano
6 Aprile – Spazio Targa – Via Targa, 15 – Genova