STEFANO BOLLANI: un alieno tra note e parole…


Gli incontri con Stefano Bollani, pianista italiano tra i piu’ apprezzati sulla scena jazzistica internazionale e musicista dell’anno secondo il referendum Top Jazz 2010 di Musica Jazz, non sono mai banali, considerata l'(estro)versione del personaggio. Per questo abbiamo cercato, anche solo per un pò, di essere piu’ folli di lui….e farci carico della sua follia…


 


 


Sound Contest: La prima domanda nasce da una mia curiosita’. Cosa ti spinge ad accettare un’intervista: il nome del giornale e/o del giornalista, il modo in cui lavora, lo spazio che riserva alle nuove leve?


Stefano Bollani: Vado a periodi, come in molte cose… diciamo che c’ e’ una buonissima parte di casualita’.



 


Hai ricevuto numerosi premi in Italia e nel mondo, anche dalla tua Firenze, dalla mia Napoli e dal Giappone come miglior artista straniero! Come e’ sentito il jazz in Giappone e che tipo di richieste ti sono state fatte dall’etichetta giapponese Venus?


In Giappone, come in Corea, sono molto curiosi, onnivori e hanno voglia di onniscienza. Per questo i negozi di dischi a Tokyo sono pieni, fra le altre cose, di incisioni di jazz italiano. Nel mio caso ho avuto un rapporto stretto con Tetsuo Hara, produttore della Venus Japan, che ha proprio ideato e commissionato ben 5 lavori diversi del mio trio con Ares Tavolazzi al contrabbasso e Walter Paoli alla batteria.



 


Oltre alla musica ti sei cimentato in scritti di vario genere. Cosa vuol dire musicare testi come quelli compresi in “Gnosi delle Fanfole” (poesie di Fosco Maraini)?


Quella fu una trovata del mio amico Massimo Altomare, che mi fece conoscere le poesie di Maraini e in seguito Maraini stesso. Per noi e’ stato puro divertimento inventare musiche nuove ma al tempo stesso zeppe di rimandi a immagini, suoni, sapori del passato, proprio come le parole di Fosco Maraini.



 


Cosa ha toccato la tua sensibilita’ ne “La cantata dei pastori immobili” e mosso la tua volonta’ di lavorarci?


Si e’ trattato di un progetto nato a quattro mani con David Riondino e commissionato dal comune di Prato per le festivita’ natalizie. Decidemmo di “musicare” un presepe, ma dando voce alle statuine piu’ povere, piu’ lontane dalla capanna e dal mistero. Ho avuto la possibilita’ cosi’ di scrivere canzoni per quattro cantanti che mi sono scelto uno per uno e che mi attiravano molto.



 


“L’America di Renato Carosone”, “La sindrome di Brontolo” e “Lo Zibaldone del Dottor Djembe’”, invece, sono la diretta testimonianza di esperienze che hai avuto in trasmissioni da te ideate e della tua abilita’ di romanziere. Raccontaci chi e’ Stefano il cantastorie.


Hai gia’ detto tu… c’e’ un piccolo cantastorie che ogni tanto emerge e che d’altronde non stride con il piccolo jazzista, visto che il bello del jazz e’ proprio avere una propria storia e raccontarla.



 


Un altro titolo potrebbe essere “2007, un milanese a Rio”.


La prima volta a Rio e’ stato un vero e proprio colpo di fulmine, soprattutto in relazione alle cose a cui mi interessavo da un po’ e da lontano: la musica popolare, poco diffusa in Europa, come il choro e il samba, il suono della lingua portoghese parlata con accento carioca e la vitalita’ straordinaria che anima quei luoghi.



 


Le tue esperienze musicali sono disparate. Ti sei cimentato anche nella musica classica in progetti impegnativi come l’incisione con Riccardo Chailly a Lipsia, di Rapsodia in blu e del Concerto in Fa di Gershwin (uscito a settembre per la Decca Italia). Riesci a passare da un genere all’altro senza sforzi apparenti…


Cerco di apprendere sempre, da tutte le collaborazioni, e di entrare in possesso dei codici per accedere a quel determinato “mondo musicale”. Entro sempre in un nuovo “rapporto” artistico con la voglia di comunicare e con tanta curiosita’ verso le passioni e i percorsi dell’altro.



 


Per un’occasione speciale in cui ti venisse chiesto di presentarti non con nome e cognome, quale genere o inflessione musicale sceglieresti?


Non mi presenterei proprio! Sarebbe bello abbracciare quella dimensione collettiva che nel jazz e’ rappresentata in piccola parte dalle ascendenze africane. Dunque la musica come fatto sociale, evento e non come “oggetto artistico” su cui apporre la firma. Bello, ma difficilissimo, per almeno due motivi: primo, il mondo in cui viviamo, fatto di tanti piccoli e grandi ego in conflitto. Secondo, il mio ego in particolare.



 


Cosa lasceresti in eredita’ al genere umano dopo un’invasione aliena?


Lascerei decidere gli alieni… mi pare difficile che possano essere piu’ stupidi del genere umano.



 


Il tuo eclettismo ti ha certamente aiutato a diventare un musicista eccezionalmente dotato, ma cosa consiglieresti ad un giovane emergente per affermarsi, a parte metterci il cuore?


Gli consiglierei di non avere preconcetti e di non ragionare per binomi bianco-nero come Arte e Mercato o Cultura Alta e Cultura Bassa, ecc…



 


Dal tuo punto di vista, una panoramica sulla musica (jazz) in Italia. E in Europa…


Mi limito all’Italia per dire che da qualche anno il jazz e’ di moda presso il pubblico e si e’ trasformato da musica di nicchia che spaventa i non adepti a “possibilita’”. Per noi musicisti, dunque, e’ forse il momento migliore da quando si suona jazz nel nostro paese.



 


Arriviamo a “Stone in the water”, uscito nel 2009, e al tuo primo libro di spartiti pubblicato dalla Carisch nella collana Carisch Jazz. Ce ne parli?


Stone in the water e’ il terzo disco realizzato in trio con Jesper Bodilsen (contrabbasso) e Morten Lund (batteria). Come tutte le incisioni discografiche, rappresenta un momento di passaggio e non un punto di partenza o di arrivo. Questo poi e’ un passaggio delicato perche’ e’ stato inciso in un periodo e in una situazione molto particolari per me. E quando riascolto le mie incisioni spesso mi abbandono e lascio che a guidarmi siano anche ricordi legati alle emozioni o alle persone con cui stavo suonando / convivendo / vivendo in quel momento.



 


Alcune dichiarazioni di un tuo collega relative alla spettacolarizzazione della musica jazz in TV puntano il dito contro chi, non riuscendo ad imporre questa musica in televisione, si accontenta di vestirla con barzellette e atteggiamenti da giullare… Si, ce l’aveva proprio con te e non ti farei questa domanda se non sapessi che tra di voi c’e’ molta stima… Cosa ti senti di rispondere? Jazz e televisione andranno mai d’accordo?


Per fortuna non esiste un partito dei jazzisti, di conseguenza non esiste un rappresentante della categoria che parla a nome di tutti. Io non mi sogno neanche un pò di rappresentare il jazz italiano. Faccio gia’ molti sforzi e numerosi dibattiti interni nel tentativo di rappresentare me stesso. Per quel che mi riguarda, dunque, non credo di dovermi “difendere”, nel senso che ormai si sa che il mio modo di fare musica include l’ironia, il motteggio, il divertissement, il gioco, anche a costo di apparire giullaresco o autocompiacente. Non sono il primo, nella storia della musica, e non saro’ l’ultimo. Sarei disonesto con me stesso se mi comportassi altrimenti. Ma questo non obbliga un altro a porsi allo stesso modo e non si dovrebbero paragonare i percorsi dei singoli musicisti. Nel caso di Enrico [ndr. Pieranunzi], in particolare, stai parlando di un pianista che stimo da sempre, che ho ascoltato con molta attenzione sin da bambino e da cui ho tratto decisamente ispirazione, e che ha una personalita’ musicale precisamente definita e inclinazioni proprie, diverse dalle mie, come e’ giusto che sia nel mondo del jazz, mondo che io continuo a immaginare come una “comunita ideale” dove spero ci sia posto per tutti.



 


La tua esplosiva creativita’ cos’ha ancora in serbo per noi in un prossimo futuro?


Non ve lo dico, ma ne ho gia’ parlato agli alieni…